SCRITTI SPARSI

(Una selezione di scritti pubblicati  e presentati su vari supporti e in vari contesti nel corso degli anni)

 

More human.

There's no sense to explain a movie. No sense at all. It's like to explain a painting, or a music. It's like to try to explain a flower or a panorama. Marcel Duchamp said: “All in all, the creative act is not performed by the artist alone.. the spectator brings the work in contact with the external world by deciphering and interpreting its inner qualifications and thus adds his contribution to the creative act.”

Right.

The best thing for everyone is watch the movie and have your own opinion. Critics are an infectious disease for Art and artists, a calamity for the truth, the passion, the feelings.

Nevertheless, I've watched the movie made by Karini and I was strongly impressed by it. It's a great movie, around 48 minutes of intense poetry, with a terrific soundtrack and a catching black and white photography. Sometimes it reminds me old masterpieces shoot by Louis Bunuel or Federico Fellini, even there's a magic thin wire that links it with the silent films epic.

That's for sure, this short movie makes a big impact on you; it shakes you in depth, it charms you leaving with a sense of  questions to reply to: why we have to live in illusion when we are rooted in a material existence? Why our dreams just rarely become true? Why our destiny on Earth is irreparably conditioned by our origins? Why one the more common conditions of the humans is loneliness?

The sensual sensitive portraits of Indian women Karini paints with her camera are tender and terrible at the same time; strong and faint, agonizing and joyful.

As on the masterful almost exemplary sequence where young and old workers at the construction site they're making every day the same endless hard work to fill bags by hand with cement and bring bricks up on their head, while a young lady dances and sings up on a wall confessing she dreamed to become a singer.

“Did I do it well?” she asks at the end of her performance repeating the question over and over again with no answers from anyone. It sounds terrible and dramatically cruel and it could be one of the many keys of interpretation of this piece of Art.

Keys that you have to catch by yourself, inside of you, because this is the essence and the challenge of the Pure Art. Your eyes and your body have to jump inside this touching flow of lives, words, landscapes, objects, gazes, dresses, jewels, hands and fingers, shoes... you resurfacing as a brand new person. More human and emphatic with mankind.

 

Più umano.

Non ha senso interpretare un film. Nessun senso. E' come interpretare un quadro o una musica. Come cercare di spiegare un fiore o un paesaggio. Ha detto Marcel Duchamp: “In fin dei conti l'atto creativo non è compiuto dall'artista da solo... lo spettatore mette il lavoro in contatto con il mondo esterno, decifrando e interpretando i suoi requisiti più profondi, quindi da il suo contributo all'atto creativo”.

Giusto.

La cosa migliore, quindi, è che guardiate il film e vi facciate una vostra opinione. I critici sono una malattia infettiva per l'Arte e gli artisti, una vera calamità per la verità, la passione, i sentimenti.

Ciononostante, ho guardato il film girato da Karini e mi ha davvero impressionato. E' un grande film, sono circa 48 minuti di poesia intensa, con un'eccezionale colonna sonora e un'attraente fotografia in bianco e nero. A tratti mi ricorda certi capolavori di Louis Bunuel e Federico Fellini, c'è addirittura un filo magico che lo lega all'epopea del cinema muto.

Statene certi, questo film avrà un grande impatto su di voi; ti scuote nel profondo, ti seduce lasciandoti con un senso di domande toccanti: perché dobbiamo vivere nell'illusione dal momento che siamo radicati in un'esistenza materiale? Perché i nostri sogni solo raramente diventano realtà? Perché il nostro destino sulla Terra è irreparabilmente condizionato dalle nostre origini? Perché una delle condizioni più comuni dell'uomo è la solitudine?

I ritratti sensuali delle donne indiane che Karini dipinge con la sua cinepresa sono teneri e terribili allo stesso tempo; duri e tenui, strazianti e gioiosi.

Come nella magistrale, quasi paradigmatica sequenza in cui giovani e vecchi lavoratori in un cantiere ripetono ogni giorno lo stesso duro lavoro di riempire sacchi di cemento a mano e trasportare sulla testa mattoni, mentre una giovane canta e balla in cima a un muro confessando di aver sognato di diventare una cantante.

“L'ho fatto bene?” chiede alla fine della sua esibizione ripetendo la domanda continuamente senza ottenere alcuna risposta. Suona terribile e drammaticamente crudele e potrebbe essere una delle molteplici chiavi interpretative del film. Chiavi che ognuno deve trovare da sé, dentro di sé, perché questa è l'essenza e la sfida dell'Arte più autentica.

I vostri occhi e il vostro corpo devono tuffarsi in questa commovente corrente di vite, parole, paesaggi, oggetti, sguardi, vestiti, gioielli, mani e dita, scarpe... per riemergere persone nuove. Più umane ed empatiche con l'umanità.

 

(scritto incluso nel booklet allegato al DVD della regista piacentina MARIA ASSUNTA KARINI intitolato "Dreamsmellers" prodotto nel 2015)

 

La svolta psichedelica di Dario Antonetti.

Quando condannato anch'io a vagolare nella galassia, immemore del vissuto e della conoscenza, senza identità e coscienza, riuscirò a ricordare, saranno ricordi di suoni più che di corpi e di volti – melodie, frammenti, singole note ad accompagnare i movimenti scomposti e liberi, gli azzardi nel vuoto degli spazi infiniti.

Ci sarà posto in me anche per te, Dario, per la tua musica, le tue parole?

Non avrò nostalgia per gran parte della “musica italiana”, come della carne in scatola, dei fast food e delle autostrade, delle vacanze in agosto e della mostarda. Dell'Italia cialtrona, della politica, della cultura (liofilizzata, OGM) italiana, della televisione/radio italiana, delle riviste rock italiane...

Mi consolerà la tua musica, Dario? Tu che sei stato e sei il figlio dei Pink Floyd, l'artista indipendente, l'innamorato deluso, il nevrotico bricoleur del linguaggio, il trovarobe sonoro, molestatore di melodie, il compositore di “canzoni d'amore col distorsore”...

Mi ricorderai che la musica, qui, è stata anche altro? E' stata ricerca iconoclasta, passione, espressione dell'intimo, sfida coraggiosa, 'vita o morte!'... Sconfinata spregiudicatezza?

E' stato il paese di Luciano Cilio, Piero Ciampi, Giacinto Scelsi, Demetrio Stratos...?

Impalpabile, leggero, vagherò per la galassia e penserò anche a te, Dario, alla tua musica, a questo disco che è troppo in una volta sola, tanto da abbracciare con l'ascolto, perché ha l'impudenza sfacciata dei vent'anni, la forza delle idee, il rigore (esistenziale?) provvisorio, la genialità delle immagini, la frammentaria armonia delle grandi opere...

Sì, Dario, la frammentaria armonia delle grandi opere.

(presentazione pubblicata sul booklet del CD di Dario Antonetti "Il rigore esistenziale" (La Locomotiva LOC1512-21, ITA 2012)

 

Dieci anni di musica aliena a Ostiano.

Sin dalla sua prima edizione il festival di Ostiano ha rappresentato una curiosa anomalia, stimolante e provocatoria. Per quanto il territorio cremonese abbia da tempo rivendicato espressamente per sé una vocazione musicale (“Cremona città della musica” è lo slogan sbandierato al mondo), le musiche a matrice folk andavano cercate altrove, aliene com’erano in questa provincia che pure aveva visto fiorire dal Dopoguerra esperienze esclusive come quelle del Gruppo Padano di Piadena, delle sorelle Bettinelli di Ripalta Cremasca, dei Giorni Cantati di Calvatone.

Prima dell’Ostiano Celtic Music Festival, l’idea di folk qui era sinonimo di “vecchio”, “fuori moda”, “kitsch”. La musica, un’infinita rielaborazione dell’”Uva fogarina” di televisiva (infausta) memoria, improprio archetipo di “popolare”.

A Ostiano hanno suonato importanti gruppi di folk italiano come Baraban, Rosapaeda, Calicanto, Lou Dalfin, Tendachent, Musetta. Grandi musicisti internazionali come Skolvan, Fairport Convention, Capercaillie, Kepa Junkera, Altan, Hevia, Le Volée d’Castors, hanno suonato musiche provenienti dalle regioni più disparate del pianeta (Irlanda, Quebec, Asturie, Scozia, Galizia, Inghilterra, Bretagna…). Si sono ascoltate ballate, gighe, monferrine, reels…Sul palco, come astronavi da altri mondi, sono apparsi strumenti sconosciuti ai più come la ghironda, il baghèt, l’arpa celtica, il bodhran, la gaita, la tammorra...

Si è fatta strada gradualmente, ma con decisione, l’idea di una musica senza confini, aperta alle culture del mondo, portatrice di significati profondi legati alla storia dei popoli, alle loro diverse identità, alle tradizioni.

 

E la risposta generosa del pubblico, partecipe, curioso, aperto alle novità proposte, ha confermato piuttosto che alieno, in quest’area, è stato semmai per anni il coraggio di immaginare un’alternativa all’opprimente logica massificante del mercato discografico (radiotelevisivo).

Dieci anni di musica aliena al festival di Ostiano hanno dimostrato che pur nell’assenza di una politica nazionale di promozione (non una legge sulla musica, scarsi i luoghi dedicati, farraginosa e vessatoria la normativa in materia di promozione e produzione di musica), pur nella scarsità di circolazione culturale del fenomeno, pur nel pregiudizio culturale tipico della provincia, un’altra musica è davvero possibile.

(dal volume "Celtic Music Festival 1998 2007", edito dall'Amministrazione Comunale di Ostiano nel 2008)

 

F.G.M. - Folk Geneticamente Modificato.

a Roberto Leydi

E’ un “folk geneticamente modificato” quello che numerosi gruppi musicali vanno suonando negli ultimi anni in Italia. “Folk” perché ha a che vedere con la vita della gente, con la sua storia, la sua identità; “geneticamente modificato” perché il tempo in cui quelle musiche e quei canti cominciarono ad essere diffusi è cambiato radicalmente sulla spinta delle imponenti trasformazioni della società. In anni di protervo revisionismo e di allarmanti riappropriazioni politico-culturali – certamente indebite, spesso strumentali – queste musiche continuano a raccontare di un mondo che, anche se tramontato, mantiene forti legami con la quotidiana contemporaneità. Temi come la vita e la morte, il destino individuale e sociale, l’amore, lo sfruttamento nel lavoro, l’emigrazione restano saldamente al centro dell’immaginario collettivo, allora come oggi. Ancor più in un’area, quella padana, che ha visto nascere il canto sociale come espressione tra le più alte della civiltà contadina e popolare. Riascoltare oggi queste musiche è esperienza tutt’altro che nostalgica. E’ confrontarsi con una storia, una memoria, un’identità che è dell’oggi. Per comprendere meglio il presente. Per continuare ad abitarlo più consapevolmente.

(Presentazione su pieghevole del festival "Folk Geneticamente Modificato" - prima rassegna di musica tradizionale padana - promossa da Municipia e dalla Provincia di Cremona dal 6 al 14 giugno 2003. Direzione artistica di Luca Ferrari)

 

La vespa dei Lunapop.

1. Chi la racconta veramente sui giovani

Questo brano di successo dei Lunapop, 50 Special, la dice più lunga di tutte le parole e le analisi che potrei proporre oggi. Di tutte le analisi e le parole che potrebbe dire anche il più esperto conoscitore della cosiddetta, per certi aspetti "mitica", “condizione giovanile”.
E’ un fatto assodato che siano gli adulti, in genere, ad occuparsi dei giovani; che siano gli esperti, o i presunti tali, a scrivere saggi e saggi su di loro, sulle loro abitudini, il loro immaginario, i loro sogni e i loro desideri: la sessualità e i giovani; i giovani e il suicidio; giovani a trent’anni e così via, titoli e titoli su di loro, su di voi.
Non è un caso che più spesso la maggior parte dei giovani questi studi non li leggano, non li vogliano leggere. Altrettanto chiaro mi sembra che quei giovani che si azzardano a leggerli, poi non si ritrovino minimamente con quanto scritto. Quello dei giovani resta saldamente un tema per adulti, a luci rosse. Un dialogo tra adulti. Una remunerativa – e ben remunerata – branca dell’industria culturale contemporanea. Così come sono stati e sono, là dove sopravvivono in un’idea giurassica della società, i famigerati “progetti giovani” o gli assessorati per i giovani…
Così, mi pare che un punto di forza innegabile della ricerca coordinata dal prof. Lazzarini (Dare Nomi alle Nuvole, Guerini e Associati, Milano 1999) era proprio quello di far parlare i giovani, farli “confessare” attraverso un diario segreto. E il diario, in ultima analisi, ha più valore delle interviste, anche quando erano registrate, perché è difficile credere che fossero fino in fondo spontanee, che i ragazzi intervistati avessero voluto rivelarci gli aspetti più intimi di loro stessi.
E’ una bella illusione adulta, piuttosto, quella che si basa sull’idea che sia sufficiente costruire una relazione di fiducia, di ascolto, di stima reciproca, per ottenere la chiave magica che accede al profondo dell’universo giovanile. Pia illusione.
Eppoi, chi sono i giovani, cosa sono? E’ semplicemente un’età cronologica, una fase della crescita, un’attitudine esistenziale, una peculiare dimensione mentale?


2. La Special dei Lunapop

Più spesso, invece, è proprio là dove i ragazzi vivono, proprio nelle forme che utilizzano e che amano utilizzare, che qualche verità su di loro può emergere.
La canzone dei Lunapop. Il gruppo non mi piace, personalmente lo trovo leggero, una brutta copia, tutta italica, degli Oasis. Ma il testo della canzone, il piglio interpretativo, il tempo scelto, sono un ritratto che mi pare fedele per approssimazione alla realtà di alcuni giovani contemporanei: giovani della classe media, metropolitani, che hanno soldi a sufficienza per permettersi una vespa e un gruppo di fedeli amici con cui passare tutto il tempo “libero”. Libero dalla scuola, anzitutto. E da tutte le esperienze, più o meno routinarie, sentite come costringenti, oppressive, vincolanti.
Nella canzone, c’è la vespa come mezzo di fuga, quindi - “che toglie i problemi” -; c’è la domenica – niente scuola (dove per inciso si va male), niente ragazza - il tipo è un po’ sfigato -, solo il gruppo di amici, la libertà delle colline bolognesi: il verso “fuori città” è ripetuto continuamente per sottolineare l’idea di “evasione”, di “fuga” dalla città…
A un certo punto della canzone, quindi, c’è un verso che è, mi pare, una efficace rappresentazione di un certo modo di essere giovani. Fa: “Esco di fretta, dalla mia stanza - a marce ingranate dalla prima alla quarta - devo fare in fretta, devo andare a una festa - fammi fare un giro prima sulla mia vespa…”
C’è l’essere dinamici dei giovani, il fare tutto “al volo”, di fretta appunto; l’idea di godere fin che si può di una cosa che da piacere – in questo caso l’andare in vespa…
E la vespa (che poi è la mamma dello scooter) che dà il titolo alla canzone, diventa una metafora, allora, benché non proprio originale.
Ogni generazione ha avuto le sue vespe. Negli anni Cinquanta, quando l’industria culturale inventò la categoria sociale del “giovane”, in America erano le auto di papà a rappresentare l’idea di velocità e di fuga: chi non ha visto almeno una volta “Gioventù Bruciata”, il film che consacrò a figura di culto James Dean? Agli inizi degli anni Sessanta, il fenomeno dei Mod e dei Rockers inglesi, proiettò sulla scena vespe e moto quali protesi del corpo, prolungamenti di un narcisismo psicofisico agito dai Mods come strumento di esclusione dal mondo adulto e di contestazione dandy; la fine dei Sessanta vide apparire i choppers, le Harley-Davidson (indimenticabile il cult movie “Easy Rider”)… giù fino agli attuali scooter, in tutte le forme immaginabili (ultramoderni, “spaziali”, retrò…).


3. Ma fuggire da dove?!

I Lunapop sgommano con gli amici sulle colline bolognesi, un rifugio che sembra un eden nell’economia della canzone, che esprime un immaginario da far tenerezza, per un epoca di dilagante cinismo qual è quella che viviamo.
L’elemento critico è oggi la polverizzazione degli elementi psico-fisici: crollo della politica, crisi del modello di famiglia tradizionale, travaglio della scuola (come causa o effetto?). La nostra, un’epoca di rivoluzioni psichiche.
Lo spazio urbano, in cui il giovane contemporaneo esprime tutta la sua teatralità del quotidiano, è in crisi, è diffuso nonluogo: irriconoscibile, azzera i riferimenti, le coordinate, costringe a riorganizzazioni cognitive.
A fronte di questo cambiamento irreversibile, che centrifugo parte dalle metropoli aggredendo gradualmente le periferie (suburbia, paese, provincia…), la duttilità mentale del giovane, le sue profonde rivoluzioni intime, sembano congeniali alla sopravvivenza: si parla di nomadismo psichico, di zigzagare della mente, di zapping esistenziale, di surfismo dell’anima…
Lo spazio è infatti vissuto al massimo delle sue potenzialità anche là dove gli adulti decidono di declassarlo a nonluogo (il capannone dismesso, il centro commerciale…) e si assiste sempre più frequentemente alla promozione di esperienze-limite: il centro sociale, le TAZ (Zone Temporaneamente Occupate), i writings, i rave party, gli squatters…
Oggi come allora si continua a considerare il rapporto tra giovani e spazio con moralismo e ipocrisia: i decisori politici delle trasformazioni dello spazio (vedasi il caso piazza Stradivari, a Cremona) restano saldamente adulti, anche quando nei presupposti dovrebbero riguardare un supposto coinvolgimento dei giovani.
Le radicali trasformazioni dello spazio urbano, che sono sotto gli occhi di tutti, vedono gli adulti i soli responsabili. Moralistico è l’atteggiamento di chi vorrebbe “costringere” i giovani allo spazio fisico esistente, ignorandone le peculiarità evolutive e cognitive, le aspirazioni, in una parola: la natura (di qui le periodiche campagne indignate contro i writings…). Ipocrita chi, in nome di una dichiarata politica “educativa” (di cosa, poi?), crede di poter costruire, quando più spesso non improvvisare, “contenitori”, “situazioni” a comando in cui i giovani dovrebbero esprimersi. Giovani che, nell’uno come nell’altro caso, semplicemente se ne fregano cercando di trovare un equilibrio nella loro faticosa navigazione a vista.
Quello che accade implicitamente è la messa in crisi dello spazio fisico e mentale per come l’abbiamo conosciuto, la provocatoria abiura del consenso, l’azzeramento della Storia: i giovani nel loro fisiologico nomadismo esaltano i nonluoghi del nuovo spazio urbano criticando al contempo l’ottusità, l’ipocrisia, la miopia di chi continua imperterrito a pensare allo spazio in termini di “luogo”, laddove il “luogo” va ricostruito e non può essere dato come assunto del vivere: di qui il generale fallimento dei “contenitori d’esperienza”, le iniziative degli enti locali, le politiche giovanili degli “assessorati alla creatività d’Italia”: nonluoghi non tanto diversi dagli studi televisivi di Cinecittà, dove tutti i giorni è in scena il “Grande Fratello”, in cui è la rappresentazione della vita più che il vivere, il simulacro dell’esistenza piuttosto che l’esistenza, e dove tutto è ridotto a squallida spettacolazione.


4. Vivere il nonluogo

Una possibile inversione della tendenza attuale che ci vede attori in crisi nella relazione con i giovani può passare attraverso l’accompagnamento di modelli adulti significativi, autorevoli, empatici, disposti più all’ascolto che al giudizio, all’interno di una rinnovata visione dello spazio urbano. Visione disincantata, realistica, che abbandoni le logiche del giudizio moralistico e vada al nocciolo del problema: favorire la promozione di luoghi fluidi, modificabili, sperimentabili in cui ai giovani sia data l’opportunità vera di fare esperienza, di sbagliare per imparare, di perdersi per trovare.
C’è necessità di spazi che siano anzitutto luoghi di vita, non importa che eggreghino necessariamente, forzatamente (di qui il mito dell’associazionismo, il terrore dell’individualismo). Luoghi non della rappresentazione del vivere, ma della vita vissuta, abitati, logorati, sporcati in cui (ri)trovare “il senso degli altri”, prima che riducendosi lo spazio a immagine (solo da osservare) e la persona a sguardo (qualcosa cioè da vedere piuttosto che da incontrare) si sbricioli la nostra capacità di produrre identità e, insieme, relazioni (M. Augè, Il senso degli altri. Attualità dell’antropologia, Bollati Boringhieri 2000).


(relazione presentata al convegno "Adolescenti e... dintorni", promosso dall'Istituto Magistrale "S. Anguissola"  di Cremona il 21 novembre 2000)

 

Paleolitico XTC.

Sei brani che ritraggono Partridge e Moulding "XTC prima degli XTC" sono un bel colpo. Circolavano solo su bootleg, nastri di non troppo buona qualità, ed erano, naturalmente, orgogliosa gelosia dei fans più accaniti.
Un insospettabuile Andy Partridge coi capelli lunghi, che veste camicie floreali, disegna fumetti e lavora in un negozio di dischi, nella primavera del '72 decide di mettere in piedi l'ennesimo gruppo, dopo altri tentativi amatoriali dalla musica incerta che gli hanno lasciato soltanto amare frustrazioni e urticanti sogni di gloria. Con lui, che imbraccia da subito la chitarra e si cimenta alla voce, l'inseparabile Dave Cartner (anche lui chitarra e voce), cui ha promesso di coinvolgerlo in ogni sua nuova avventura, Paul Wilson (basso) e tale Nervous Steve alla batteria.
Gli Star Park hanno un suono sciatto, sospeso tra il rock e il blues, in un non bene definito territorio che è soltanto musica vecchia, quasi assolutamente priva di interesse se non fosse "paleolitico XTC". Sufficiente ascoltare, nel CD qui allegato, l'omonima "Star Park" o "Do You Really", che risultano neppure simulacri della sprizzante, energetica, ironica rivisitazione del rock'n'roll dei primi due album XTCiani.
E' pur vero, comunque, che queste registrazioni, che risalgono all'inverno 1972, pur vedendo gli Star Park nella loro formazione più ambiziosa (Partridge alla chitarra e voce, Moulding al bsso, Terry Chambers alla batteria e Dave Cartner alla voce), sono il risultato diretto delle passioni viscerali di quel periodo dei quattro musicisti: "Ci mettevamo le cose che stavano nella nostra collezione di dischi di allora" - ricorda Partridge. "Colin andava pazzo per Black Sabbath e Uriah Heep... Cartner sarebbe impazzito per Thin Lizzy o Atomic Rooster. Chambers, naturalmente i Pink Faires, e io avrei scoperto New York Dolls e Stooges... Erano cose così". Gruppi, insomma, che proponevano una versione del rock grezza, granitica, aggressiva, che la storia ha fortunatamente relegato in un angolino buio con un certo imbarazzo.
E non sarà per caso che, dopo un concerto a supporto proprio dei Thin Lizzy e il tentativo di organizzare un happening stile Yoko Ono con la ragazza del loro manager, naufragato miseramente per l'abbigliamento provocante di lei ("... la sua poesia era robaccia di quarta categoria, ma ci piaceva girare per la casa di Dave!", ricorda Partridge), il gruppo deciderà di dedicarsi ad altra musica e cambiare nome.
Nel luglio 1973, infatti, da Star Park diventeranno dapprima Zip Code & the Helium Kidz, quindi semplicemente Helium Kidz, quando gli altri del gruppo non avranno accettato di fare da accompagnamento ad Andy partridge - "Zip Code", appunto.
Di li ai primi XTC, comunque, una voragine di altre storie, musicisti, nuova (finalmente!) musica.

(Contributo al libro "A school guide to XTC" di Massimo Bucchi, edito da Stampa Alternativa-Nuovi Equilibri nella collana Sonic Book nel novembre 1999. Lieve riarrangiamento del 20 aprile 2004)

 

La fanzine. Alcuni accenni storiografici e semiologici.

1. Definizione e origini

Il termine "fanzine" appare nella seconda metà degli anni Settanta in Inghilterra come espressione slang (=gergale) a contrazione di fans magazine, giornale di/per appassionati (in italiano fanza o fanzina).
Il termine viene utilizzato in particolare negli ambienti delle sottoculture giovanili punk, legati cioè a quel particolare movimento che ha origine nel 1976 a Londra caratterizzato da espressioni musicali (Sex Pistols, Clash, Damned...), di costume (Jamie Reid, Malcolm McLaren), politiche.
Dagli anni '80 l'uso si estende a tutte quelle pubblicazioni non ufficiali (non registrate cioè in alcun tribunale, quindi non riconosciute dalla legge), underground, che presentano contenuti non necessariamente monotematici.


2. Precedenti storici

Prima della fanzine
L'introduzione di un termine specifico per denominare pubblicazioni di questo genere nacque anche dall'esigenza di distinguerle dalla stampa ufficiale underground indipendente originaria negli anni '60 in America e diffusasi anche in Europa (esempi illustri le riviste inglesi I.T. e OZ; l'olandese Provo; le italiane Pianeta Fresco, Re Nudo e Fallo!). Una stampa quella che, sovvertendo le regole consolidate dell'ufficialità, era riuscita a stravolgere ortografia, stile espressivo, impaginazione, formato, colore e metodo di stampa trattandoli con un gusto definito "psichedelico", tanto elaborato da risultare spesso ai limiti della leggibilità.
I contenuti trattati, in particolare, si distinguevano radicalmente da quelli affrontati dalla stampa tradizionale, settimanale e quotidiana, approfondendo le tematiche care ai movimenti giovanili controculturali della generazione dei diciottenni: pacifismo, sessualità, droghe leggere, comuni hippie, religioni, Oriente, in una esplosione creativa di scritte e immagini, fotografie e grafiche d'autore (molti dei maggiori autori di fumetti - Crumb, Shelton, Griffin... - cominceranno proprio con queste esperienze).
L'establishment reagì complessivamente in modo negativo, adottando metodi repressivi a base di perquisizioni, confische, censure, nonostante la straordinaria popolarità raggiunta dai giornali nei circuiti alternativi (alcune testate raggiunsero anche le 50.000 copie tirate): un evento rimasto nella memoria delle controcultura giovanile europea - l'happening teatral-musicale 14th Hour Technicolor Dream che si tenne nel luglio 1967 a Londra - fu organizzato per sostenere e rilanciare I.T., la cui redazione era stata sabotata dalla polizia...
La prima fanzine.
Il primo esempio di fanzine fu Sniffin' Glue, nata a Londra nel '76, appunto, grazie a un intraprendente ragazzo disoccupato di nome Mark Perry che ebbe l'idea di descrivere in presa diretta la scena punk così come si presentava ai suoi occhi. L'impresa ebbe immediatamente successo (anche grazie alla diffusione garantita dal negozio/etichetta discografica indipendente Rough Trade) e inaugurò un genere giornalistico che avrebbe avuto in breve una diffusione esponenziale, soprattutto per la semplicità dei mezzi necessari per realizzarlo.
Perry scriveva di gruppi musicali e concerti con uno stile graffiante e diretto, ben distante da quello manierato della stampa musicale ufficiale, complessivamente asservita alle case discografiche. Un linguaggio "dal basso", imbevuto di termini slang ed espressioni volgari, confezionato in una veste grafica poverissima, risultato di una tecnica "taglia e incolla" ispirata a certe realizzazioni delle avanguardie storiche di inizio secolo (Dadaismo, Surrealismo) e seguenti (Situazionismo), figlie di autori quali Picabia, Ernst, Hausmann, Guy Debord.
"Poiché non avevamo soldi", ricorda Jamie Reid (Zippel, 1998), grafico del primo punk (autore della celeberrima copertina di God Save The Queen, 45giri d'esordio dei Sex Pistols), "ci si ingegnava a lavorare con ritagli di giornale, con materiali disparati, facendo arte da e con qualsiasi cosa. Devo dire di aver imparato il design più facendo lo stampatore che a scuola".
In seguito il prototipo di Sniffin' Glue, opportunamente clonato da numerosi altri ragazzi e gruppi giovanili, arrivò a saturare gli ambienti underground, con il merito non irrilevante di determinare una vera e propria ondata di controinformazione e di stimolare nuovi processi creativi. Non fu un caso che alcuni autori di fanzine diventarono i biografi ufficiali del punk, scrivendo i primi instant book sul fenomeno.
Varianti più elaborate del modello originale arrivarono a proporre inserti musicali in formato cassetta o flexy-disc (=dischi formato 45giri in vinile flessibile), specializzandosi in altri sottogeneri musicali quali lo ska e la new-wave o elaborando proposte vicine al mondo della moda (emblematico il percorso di i-D che da fanzine diventò in breve rivista a tutti gli effetti), dell'arte, dei movimenti mod (le cosiddette mod-zine) e della politica.
Gli anni Ottanta registrarono un incremento tale di produzione che risultò da subito praticamente impossibile ottenere una fotografia attendibile del fenomeno.
Dato caratteristico, diretta conseguenza dei processi socio-politici in atto, la progressiva diffusa "spoliticizzazione" dei contenuti, più legati alla pura evasione, al divertissement e alle passioni.


3. Caratteristiche della fanzine

Premesso che questo particolare tipo di pubblicazione è stato caratterizzato da alcune visibili fasi evolutive, che in seguito andremo a tratteggiare, che fatalmente ne hanno modificato i tratti originari, la forma-fanzine presenta alcuni elementi distintivi che posso essere così sintetizzati:

a. si tratta di stampa non ufficiale, non autorizzata (si potrebbe dire clandestina, se il termine non assumesse immediatamente valenze politiche);
b. è diffusa per mezzo di canali alternativi a quelli tradizionali (per posta, tramite passa-parola, nei negozi specializzati di dischi, video, fumetti..., nei locali frequentati da giovani...);
c. è venduta a un prezzo simbolico, generalmente relativo al rimborso spese di stampa (+ francobolli), o addirittura distribuita gratuitamente;
d. è facilmente deperibile per la mancanza di fondi, lettori, o semplicemente di interesse di chi la scrive;
e. non tutela alcun copyright riguardo i materiali pubblicati, ma al contrario rivendica proprio il principio opposto;
f. ha generalmente contenuti monotematici (in particolare musica, fumetti, sport, cinema).

Oltre a queste caratteristiche di base, comuni un po' a tutte le fanzine, vanno considerate alcune variabili riguardanti la modalità tecnica con cui sono realizzate, da cui dipende la resa in termini di prodotto. Modalità che consentono una sommaria e schematica classificazione in tre tipologie ben distinte:

Fanzine "taglia e incolla" (apparsa dalla fine del 1976).
Queste pubblicazioni, collocabili nella prima fase di produzione delle fanzine, dirette emulazioni di Sniffin' Glue, sono realizzate con mezzi poveri, artigianali, con la tecnica del "taglia e incolla". Generalmente fotocopiate (nei casi meno evoluti, ciclostilate), "spillate" e distribuite a mano o per posta, propongono soggetti monotematici trattati a un solo colore (bianco e nero).

Fanzine tipografica (apparsa dagli inizi degli anni Ottanta)
La diffusione in grande scala dei personal computer ha consentito la realizzazione di giornali più sofisticati sul piano grafico, stampati in tipografia, con copertine a quattro colori, con una rganizzazione e una chiarezza maggiore nella presentazione dei materiali. Questa tipologia di fanzine, culturalmente già distante dalle fanzine originarie, simula gli esiti tecnici della stampa ufficiale, differendo nella selezione e nel trattamento dei contenuti.

Fanzine "virtuale" (dagli anni novanta)
L'introduzione di Internet e della Posta Elettronica ha offerto l'opportunità di realizzare giornali virtuali, diffusi in Rete e accessibili quindi potenzialmente su scala planetaria.
Qualità e definizione garantite dalla sofisticatezza del mezzo. Esempi più evoluti di Net-zine (o Web-zine) riguardano il trattamento delle informazioni per mezzo di pagine html, consentendo ai lettori un approccio ipertestuale e multimediale (codice scritto, immagini a colori, suoni), altrimenti impossibile nella fanzine tipografica realizzata sui tradizionali supporti cartacei.


4. Qualche dato indicativo

Una recente indagine sul fenomeno (Umiliacchi, 1998) ha censito provvisoriamente oltre 600 esperienze in Italia nell'arco temporale 1977-1997, distribuite prevalentemente in Lombardia, Emilia Romagna, Piemonte, Toscana e Lazio. Molte sono le fanzine ancora in attività (circa 200), la maggior parte a diffusione locale.
Dei circa 200 redattori contattati, solo il 20% è di sesso femminile. L'età varia dai 15 ai 25-30 anni, con esempi di fanzinari anche di 40-50 anni e oltre (in particolare per le fanzine dedicate al fumetto e ad altri generi di collezionismo).


5. Un rapido sguardo ai contenuti...

Una ricognizione sui contenuti proposti dalle fanzine risulta a tutta prima ardua per l'imponente quantità e varietà delle esperienze conosciute.
La musica è probabilmente il soggetto più trattato, sia attraverso fanzine monotematiche (dedicate cioè ad un solo artista/gruppo musicale), generalmente emanazioni del fan club corrispondente, o vere e proprie fanzine-rivista con recensioni articoli, interviste, notizie... sulla musica di un determinato genere (musica progressiva, new wave, blues...) o sulla musica in generale.
Anche il fumetto è soggetto frequentemente trattato: per la natura stessa del genere, le fanzine di questo tipo propongono fumetti di giovani autori.
Tra gli altri soggetti trattati, certamente minoritari, si possono reperire fanzine di cultura generale, omosessualità, occulto, cultura celtica, sport, cinema, fotografia.
Un soggetto proposto di recente riguarda il cosiddetto trash, documentazione di tutte quelle espressioni (musica, cinema, moda, arredamento...) ai limiti del kitsch. Le trash-zine offrono un campionario ironico e disincantato delle mode culturali, dei consumi, degli stili di vita contemporanei, rappresentando una "società del trovarobato" inquietante e stimolante al tempo stesso.

6. I linguaggi

Il linguaggio utilizzato, fedele alle origini della fanzine, è gergale e diretto, vicino al parlato, anche se sono diffusi tentativi di avvicinarsi a forme espressive più tecniche e competenti. Considerata ormai fonte imprescindibile per ogni studio sul linguaggio giovanile, la forma espressiva della fanzine ha il suo elemento portante nel gergo, che "diviene espressione di identità, tanto quanto la fruizione di determinati beni di consumo, la frequentazione di determinati spazi ed, infine, il consumo di determinati mezzi di comunicazione. Il gergo è strumento ludico (...), ma primariamente assolve alla funzione di autoidentificazione e di autodefinizione all'interno del gruppo dei pari 'per sentirsi più legati al gruppo'. Usare un certo linguaggio equivale a dichiarare la propria appartenenza ad un determinato gruppo e, nel contempo, essere riconosciuto dagli altri come appartenente ad un determinato gruppo”. (Livolsi e Bison in Banfi e Sobrero, 1992)
Per questo, la fanzine si presenta come un laboratorio linguistico straordinariamente ricco di potenzialità, racchiudendo implicazioni psicologiche e relazionali molto importanti anche in termini di maturazione e di crescita personale.

7. Significati culturali, politici e sociali

La fanzine è strumento di comunicazione sottoculturale giovanile per eccellenza. Non appartiene infatti alla cultura ufficiale, si occupa generalmente di fenomeni marginali, è diffusa attraverso canali alternativi a quelli istituzionali, non ha una diffusione di massa.
“La fanzine”, scrive Gianluca Umiliacchi (Schizzo, 1998) - autore di una delle prime ricerche promosse in Italia sul fenomeno - "è un segnale di rottura di chi non si accontenta del "prodotto giornalistico" proposto dal mercato. (...) Prove reali di debolezza dei potenti della carta stampata, le 'zine (diminutivo) prosperano tra le falde della comunicazione ufficiale, anticipano mode e tendenze che arrivano, più spesso di quanto si creda, ad influenzare le pubblicazioni regolari sconcertando tutti coloro che pensano il sottobosco culturale (la sub-cultura) privo di opinioni o punti di riferimento”.
Il significato politico della fanzine è racchiuso nell'urgenza avvertita di esprimere le proprie opinioni a prescindere dai vincoli costituiti dal Sistema, eludendo le logiche del profitto (generalmente le scarse inserzioni pubblicitarie servono per coprire le spese di produzione) e investendo in comunicazione pura.
Le implicazioni socio-culturali, inoltre, vedono la fanzine quale mezzo congeniale per il giovane adolescente per comunicare coi suoi coetanei, per condividere una passione comune, per scambiare impressioni, idee, sensazioni, elaborando una sorta di diario personale e/o di gruppo "a carte scoperte".
Fanzine come laboratorio espressivo personale, “sentita come qualcosa di proprio e non come un clinico per quanto incendiario giornale uscito in modo spersonalizzato da una tipografia”. (Venturi, 1983)
Nei casi poi in cui la ricerca delle fonti risulta più diretta e approfondita, proprio perché gratuita e più appassionata, merito culturale della fanzine è quello di fungere da serbatoio informativo per l'editoria ufficiale: esempio recente il bollettino del fan club del musicista rock Jeff Buckely, scomparso alla fine del '97, che ha fornito informazioni di prima mano e materiali inediti ai giornalisti delle principali testate musicali italiane oltre che agli autori della recente biografia sull'artista edita dall'editore Giunti.

8. Sviluppi

L'avvento dei computer, come si è accennato, ha stravolto il sistema delle comunicazioni tradizionalmente conosciute offrendo una variegata gamma di possibilità agli ideatori della fanzine. “L'introduzione del word processor e di sofisticati programmi di grafica e impaginazione ormai alla portata di tutti”, scrive Baroni, “ovvero l'inizio dell'era del desk-top publishing, con la possibilità di realizzare in casa sul proprio computer e stampante tutti quei passaggi necessari alla produzione di una rivista che un tempo richiedevano l'intervento di diverse maestranze specializzate (fotocomposizione dei testi, impaginazione, pellicole, prove di stampa ecc.), ha ovviamente prodotto una piccola grande rivoluzione anche nel mondo dell'editoria indipendente”. (Vittore Baroni, 1992)
Sono nate per questo dapprima le floppy-zine, fanzine realizzate su floppy-disc e diffuse attraverso il sistema DOS e, in questi ultimi anni, le cosiddette Web-zine, Net-Zine (fanzine di Rete) ed E-zine (electronic fanzine).
L'editoria del 2000 si annuncia quindi come una babele comunicativa in cui la separazione storica fra stampa professionista e giornalismo amatoriale sarà sempre più ridotta, a vantaggio di chi, pur non appartenendo all'Ordine dei Giornalisti, sentirà e rivendicherà il diritto (per altro sancito dall'art. 21 della Costituzione) di esprimere e diffondere le proprie opinioni liberamente.
Certo, questo impone già da oggi questioni delicate in ordine all'etica dell'informazione, ma è interessante sottolineare in questo contesto le opportunità offerte a chi, in particolare i giovani, sente di voler utilizzare la scrittura e gli altri codici comunicativi per esprimere le proprie idee, le proprie passioni, costruendo esperienze di conoscenza e di confronto.

(relazione presentata nell'ambito del corso di formazione "Graffiti. Tracce della comunicazione giovanile", Cremona 28 febbraio 1998)
Bibliografia essenziale

AA.VV., Ragazzi senza tempo. Immagini, musica, conflitti delle culture giovanili (Costa & Nolan, Genova 1993)
Banfi E. - Sobrero A., Il linguaggio giovanile degli anni novanta (Laterza, Bari 1992)
Baroni Vittore, “Fanzirama 2000” in AA.VV., Fanzinerie. Editoria Periodica amatoriale (Arcinova, Pordenone 1992)
Chambers I., Ritmi urbani (Costa & Nolan, Genova 1987)
Guarnaccia Matteo (a cura di), Arte Psichedelica e Controcultura in Italia (Stampa Alternativa, Roma 1988)
Guarnaccia Matteo (a cura di), Almanacco Psichedelico (Nautilus, Torino 1995)
Higbie I., Sottoculture (Costa & Nolan, Genova 1989)
Joyson Vernon, The Acid Trip (Babylon Books, Todmorden, England 1984)
Mazzone Giacomo, “Le fanzines” in Compra o muori! (Sconcerto, Roma 1983)
Marcus Grail, Tracce di Rossetto (Leonardo, Milano 1991)
Racionero Luis, Filosofie dell'underground (Savelli, Roma 1978)
Umiliacchi Gianluca, “Fanzine” in Schizzo n.4 nov.-mar. 1998
Venturi Rossella, “Fanzines” in La rivolta dello stile (Franco Angeli, Milano 1983)
Vermorel F. e Vermorel J., Sex Pistols Story (Gammalibri, Milano 1984)
Zippel E., “Jamie Reid: God save the punk” in Intervista n.11, dic.-gen. 1998

 

Luoghi e non luoghi nel contemporaneo giovanile. Un'introduzione teorica.

1. Nonluoghi e paesaggio urbano

L'antropologia contemporanea, sull'impulso di alcune intuizioni relative al rapporto che l'uomo stabilisce con lo spazio, ha recuperato una dimensione dell'analisi del quotidiano.
L'antropologo francese Marc Augè, in particolare nel saggio dal titolo omonimo (Augè, 1996), definisce nonluoghi (non lieux) quei luoghi del vivere contemporaneo che non detengono più i tre elementi qualificanti dell'identità, della storia e della relazione, elementi che hanno attraversato la storia dell'umanità sino al tempo della Modernità, quando urbs e civitas coincidevano, per mezzo di un "meccanismo che attraverso l'identità ha legato nel tempo l'agire politico delle persone agli spazi fisici della città" (Desideri, 1997).
L'uomo ha infatti costruito nel suo spazio abitativo ed esistenziale rapporti con i simili e gli oggetti dando un'identità definita e riconoscibile al suo ambiente di vita; ogni luogo ha accumulato quindi una storia fatta di sedimentazioni, cambiamenti, trasformazioni sensibili ma sempre coerenti, determinando uno spazio costruito sulla base di relazioni (la chiesa, il negozio, la piazza...) che hanno segnato i tempi dell'esistenza, la qualità stessa della vita degli uomini (Perec, 1989). Ha cioè realizzato un luogo di vita strappandolo allo spazio dato come possibilità. Sono nate città, quartieri, strade, case e nelle case l'uomo ha organizzato lo spazio in un luogo di vita dotato di identità, che costruisse una storia che fosse coerente rispetto alle relazioni con gli altri luoghi.
Da un punto di vista antropologico la Modernità, secondo Augè, è questo: lo spazio organizzato in luogo.
Per questo, il contemporaneo - proprio perché ha dissolto il luogo generandone la sua negazione, il nonluogo appunto - è il tempo della surmodernità.
Augè contesta l'espressione, ancora in uso oggi, di postmodernità, sostenendo che quello odierno non rappresenta il tempo storico del superamento della modernità, quanto piuttosto un eccesso della stessa, una sorta di sua esplosione.
Surmodernità è eccesso di informazioni, immagini e solitudini (Augè, 1996), componenti fondative del nonluogo in cui l'uomo contemporaneo vive prevalentemente di attraversamenti.
"Nella metropoli contemporanea", scrive Ilardi, "ci troviamo di fronte a questo individualismo estremo, a questa ricerca esasperata del particolare sempre più libero da esigenze di conferma da parte della comunità. I sistemi di governo devono allora misurare la loro efficacia nei luoghi dove l'assenza della città è assoluta. Dove la comunità politica è annientata. Nei luoghi dell'"attraversamento" metropolitano: discoteche, rave, stadi, ipermercati, autogrill, stazioni, motel, strade e autostrade, parchi tematici, centri storici, reti telematiche. Sono questi i nuovi territori dello spazio pubblico, dove i vincoli delle consuetudini, delle regole, della legalità sono spezzati e trionfa la libertà più estrema. Libertà materiale come esercizio pratico di appropriazione di redditi e di consumi. Libertà negativa come possibilità di dire no all'agire reciproco, alla comunità, alla partecipazione. Negli shopping e negli autogrill non c'è più pubblico: tale concetto apparteneva alla piazza, luogo della modernità, che fondava le relazioni sociali e la politica." (Ilardi, 1997)
E ancora: "Quello che è andato definitivamente in rovina (...) è il patto che per duemila anni ha legato lo spazio pubblico alla società civile e che ha reso possibile, attraverso la dotazione dell'identità, la trasformazione di "spazio" in "luogo"." (Desideri, 1997)
Il nonluogo contemporaneo lo si percorre, quindi, lo si attraversa. La dimensione temporale dell'esperienza è rimandata ad un "qui ed ora" che azzera gli accumuli della Storia, che annulla l'effetto della memoria individuale e collettiva, esaurendo il presente a pura attualità ed urgenza.
"Lo spazio del nonluogo non crea né identità singola né relazione, ma solitudine e similitudine", afferma Augè (1996 cit.).
E' sufficiente ripensare alla nostra quotidiana esperienza di acquirenti dell'Ipermercato di Cremona per comprendere a fondo cosa intende l'antropologo francese.
In questo spazio dell'acquisto e del consumo, in cui per altro la gente decide di trascorrere anche parte del suo tempo libero passeggiando lungo il corridoio che lo attraversa, il tempo cronologico è annullato: non un orologio appeso che segnali l'orario, solo una voce che annuncia l'imminente chiusura. In questo ambiente, il visitatore è immerso in un'atmosfera straniante, in cui per la prima volta nella storia l'essere umano vive l'esperienza della mediazione tra umano-non/umano (il cartello pubblicitario, il led luminoso che comunica l'offerta, il bancomat o la carta di credito...); è solo tra simili, appunto, lo sguardo ai prodotti e al carrello in un attraversamento orientato dall'acquisto e dalla disposizione dei prodotti. Alcuni uccellini (non credo sia una caratteristica di Cremona...) che di tanto in tanto capita di veder svolazzare lungo i soffitti del capannone industriale, aumentando il grado di estraniazione...


2. Nonluoghi e condizione giovanile

Adattando le intuizioni che antropologi, architetti e urbanisti hanno proposto al tema che affrontiamo, credo ne ricaveremo alcuni spunti di riflessione interessanti.
Se ripenso alla mia infanzia e alla mia adolescenza, lo spazio di gioco e di relazione era il quartiere. Abitando nella zona di Porta Romana, il pomeriggio era vissuto all'interno di uno spazio di riferimento definito, in cui esistevano chiari elementi architettoni ed urbanistici di riferimento: il cortile, la piazzetta, un cartellone pubblicitario che avevamo adottato a porta per il calcio, i negozi, un palazzo particolarmente labirintico in cui andavamo a nasconderci.
Qualsiasi ricerca sul campo che oggi affronti l'universo giovanile in rapporto ai suoi vissuti quotidiani ricondurrebbe a spazi molto diversi, generalmente nonluoghi.
Consideriamo due delle principali ricerche statistiche utilizzate nel nostro paese ogni qual volta si affrontano questioni riguardanti l’universo giovanile - il Rapporto ISTAT 1997 (riferito al '96) e il Quarto Rapporto sulla Condizione Giovanile in Italia curato dallo IARD di Milano (1997).
E' di tutta evidenza che le ricerche, per quanto adottino campioni ritenuti rappresentativi, non riescono a documentare la complessità e la varietà dei fenomeni: un giovane cremonese, ad esempio, è pensabile possa avere un consumo del tempo libero equivalente a un cittadino di una metropoli?
Il fatto significativo, tornando alle due ricerche statistiche, è che comunque non troviamo alcun accenno esplicito all'utilizzo dello spazio da parte dei giovani, sintomo di una sottovalutazione dell'incidenza dello stesso nei processi di formazione dei giovani.
La ricerca IARD, intervistando un campione di 2500 ragazzi dai 15 e i 29 anni, ci offre alcune indicazioni rispetto ai “consumi culturali”, da cui è facilmente deducibile che i luoghi restano quelli della tradizione sociologica degli ultimi vent'anni:

la TV (97,2%)
l'ascolto di musica (86,4%)
la radio (85, 7%)
i giornali (72,1%)
includendo librerie (47,2%), sport (41,4%), biblioteche, musei teatri, concerti rock...

Anche l'indagine ISTAT, nella sezione relativa ai Giovani, non fa alcun accenno agli spazi del vissuto giovanile, costringendoci a rinvenire qualche elemento di riflessione anche in questo caso rispetto ai “consumi culturali”, dove trovano conferma i dati precedenti, al di là delle differenze percentuali: luoghi del “consumo culturale” risultano essere infatti cinema, discoteca, teatro, concerti di classica, spettacoli sportivi, concerti non di classica.
Ma quali sono gli altri luoghi reali in cui i giovani italiani trascorrono il loro tempo?
Sembra come se gli adulti non sapessero, o non volessero, prendere atto della modificazione delle abitudini, dei riti dei giovani contemporanei.
Premesso che è comunque sempre opportuno operare distinguo rispetto alle aree di provenienza e alle età dei ragazzi considerati, i luoghi della vita giovanile sono discoteche, rave, after-hours, la strada, Internet e i nuovi media, stadio, sale giochi, concerti rock, centri sociali - luoghi essi stessi differenti tra loro (alcuni di essi restano propriamente luoghi, anche se la maggioranza si configura come nonluogo) proprio perché l'adolescenza contemporanea distingue chiaramente il tempo dell'impegno (la scuola e il lavoro) dal tempo dello svago.

Alcune osservazioni preliminari:
a. l'offerta di svago (quindi di luoghi di svago), proprio perché funzionale al consumo e all'industria dello spettacolo, è maggiore se comparata a quella della nostra adolescenza;
b. rispetto alle forme dell'offerta, si è registrato un netto, osservabile, incremento del virtuale rispetto a quello disponibile delle generazioni precedenti;
c. rispetto alle caratteristiche evolutive dell'età, i luoghi e i nonluoghi dello svago sembrano aderire maggiormente alla natura "disorientata", volubile, in progress, dell'adolescente; la plasticità/duttilità conferita dagli psicologi a questa età mi pare ben aderire alle modalità di utilizzo dello spazio, alle dinamiche di attraversamento dello stesso, a quella sorta di nomadismo ludico, vero e proprio zapping del tempo e dello spazio. "Ecco allora che la piazzola di sosta dell'autogrill, la stazione di servizio, mutano i significati della destinazione originaria: non più luoghi funzionali, ma spazi virtualmente disponibili a nuovi codici di comunicazione e di interazione" (M. Teresa Torti in Desideri-Ilardi, 1996);
d. proprio perché l'utilizzo dello spazio è dinamico, il corpo ha assunto l'aspetto di una carta di credito visiva del giovane: per accedere in determinati luoghi, il corpo è vestito e fa mostra di sè in un certo modo (tatuato, con percing, trucco...), utilizzando una gamma definita di elementi combinatori.

Premesso questo, vari sono i luoghi/nonluoghi frequentati dai giovani surmoderni che potremmo classificare, ci si passi l'evidente schematismo, in luoghi del giorno e luoghi della notte:

luoghi del giorno:
a) casa (in particolare la camera)
b) scuola
c) oratori, Centri di Aggregazione Giovanile e strutture analoghe;
d) associazioni sportive, culturali, di volontariato;
e) stadio, discoteca, after-hours;
f) Internet e nuovi media;
g) ipermercati, centri commerciali;
h) la strada

luoghi della notte:
a) discoteca, rave, after-hours
b) centri musica, luoghi di produzione musicale, concerti Rock;
c) centro sociale;
d) pub, bar, locali in genere;
e) sale giochi;
f) la strada

Tutti questi luoghi esigerebbero una trattazione approfondita a parte.
Si tratta di luoghi contigui ma non interconnessi sul territorio; luoghi che vedono i giovani, in particolare nelle ore notturne, muoversi da nomadi, cambiando più situazioni nell'arco di poche ore.
Per quanto riguarda i luoghi del giorno, potremmo affermare che si tratta prevalentemente di luoghi organizzati da istituzioni o agenzie formative. Questi luoghi rischiano quotidianamente di ridursi a nonluoghi, contenitori anonimi in cui i giovani passano del tempo, entrano ed escono (attraversano) senza lasciare alcun segno di sè. Luoghi vissuti (penso alla scuola, per alcuni anche l'oratorio o il centro di aggregazione...) come impegno, costrizione, fatica. Quindi con disinteresse, noia.
Una riflessione su come rendere questi luoghi effettivamente tali sarebbe opportuna.

Vorrei concentrare il mio interesse di oggi, però, su quei luoghi della notte che, più vicini alla contemporaneità che viviamo, aderiscono maggiormente all'idea di nonluogo, con gli annessi e connessi di cui abbiamo detto.

La strada
Una recente ricerca prodotta sulla città di Cremona (Paroni, 1996), relativa alle forme del disagio giovanile, emerge dirompente il dato che esistono in città varie aggregazioni spontanee di giovani, i cosiddetti “gruppi informali”, che popolano alcune zone della città nelle ore serali-notturne con una base stanziale definita. Questi gruppi, che fanno riferimento a piazze pittosto che a strade, a panchine o muretti, vivono una dimensione relazionale di contiguità con le agenzie pubbliche e private del territorio con limitati punti di contatto. Tale dimensione è percepita dal gruppo di giovani in termini di esclusione dal contesto sociale di riferimento (il quartiere), con elementi di forte conflittualità e antagonismo. Lo spazio di incontro, assume il valore simbolico di riserva indiana, luogo di esclusione e provocazione. Qui, i ragazzi ascoltano musica con le radio "a paletta", parlano di calcio, musica e soprattutto di sesso, in termini per lo più crudi e volgari. Raccontano situazioni accadute ai singoli o al gruppo, evocano imprese compiute nel passato più prossimo. Il livello comunicativo è superficiale, anche se per questo il nonluogo anonimo di passaggio, di attraversamento, per la popolazione residente assume connotati precisi di luogo di incontro, di scambio, di racconto.

Il Centro Sociale
Altro luogo della notte per antonomasia. A Cremona, mutuati sul modello "mitico" del Centro Sociale Leoncavallo di Milano, ne sono attivi due, benché con notevoli differenze sia tra loro che rispetto al modello di riferimento.
Storicamente, il Centro Sociale nasce come spazio di occupazione illecita da parte di giovani che intendono promuovere un progetto aggregativo, culturale e politico alternativo (non necessariamente antagonista) a quello istituzionale. Luogo di incontro connotato originariamento come contesto politico di progettazione di interventi di riflessione e di proposizione (provocatoria) di nuovi modelli di società, ha modificato nel corso degli anni Ottanta la sua identità assumendo più i connotati di un luogo di aggregazione alternativo, in cui la prima motivazione (AA.VV., Centri Sociali: geografie del desiderio, 1996) a frequentarlo riguarda la possibilità di stare insieme e fare cose comuni (ascoltare concerti musicali, teatro, pittura, writings...).
Un nonluogo (in genere capannoni industriali dismessi o fabbriche in disuso...) che ha assunto la dimensione esistenziale del luogo, con una storia, un'identità propria contribuendo alla crescita collettiva di gruppi consistenti di ragazze e di ragazzi.
Le esperienze cremonesi (Centro Sociale "Dordoni" e "Kavarna"), discostandosi dai modelli storici nazionali, hanno mantenuto fortemente le connotazioni di laboratori politici, con la promozione di iniziative antagoniste al modello di società occidentale-consumistico, dibattiti sull'economia alternativa e il commercio-equo-solidale, la cooperazione internazionale, il sostegno alle minoranze, approfondimenti sulle politiche giovanili e sulla droga...
Inevitabile elemento di deterrenza per i giovani contemporanei, per cui la dimensione del politico non suscita decisamente e dichiaratamente alcun interesse.

La discoteca, il rave, l'after-hours
Sono i nonluoghi del consumo giovanile contemporaneo. Il giovane cremonese, nella rivendicazione costante di nuove opportunità di svago e divertimento, elenca immancabilmente la discoteca come esigenza primaria per la città.
I giovani cremonesi, infatti, sono costretti all'uso dell'auto e di altri mezzi (l'autostop) per raggiungere le numerose discoteche della provincia.
Il nonluogo della discoteca, contenitore scatolare anonimo collocato generalmente nelle periferie il cui unico elementi distintivi sono il colore esterno e il nome, si riempie ogni fine settimana di giovani vestiti nei modi più vari, con le capigliature più strane, i tatuaggi, il percing... tutta la gamma di elementi distintivi combinati che ne connotano l'identità al momento dell'ingresso.
All'interno l'immagine riportata da studiosi del recente fenomeno di ecstasy, che a partire dai primi anni Ottanta cominciò proprio in discoteca ad essere consumato assiduamente, la massa di giovani danzanti assume l'immagine di una "tribù" , coi suoi riti comunicativi fatti di pura gestualità e ipercinetismo, direttamente funzionali ai diversi sottogeneri di musica proposti - progressive, acid-house... (Bagozzi, 1996).
Anche in questo caso, il nonluogo si connota come spazio del consumo: per entrare si paga il biglietto così come per le consumazioni, per le eventuali pasticche in circolazione... ed è difficile credere che in termini preventivi sia possibile alcun intervento a partire dai gestori e da coloro che hanno interessi diretti al consumo.


3. Ripristinare il luogo?
La rivoluzione surmoderna ritratta da Augè, venata di evidenti considerazioni negative, pare non solo ineluttabile quanto ormai avanzata.
Il paesaggio urbano è radicalmente modificato, i luoghi del vivere tradizionale irrimediabilmente modificati in nonluoghi svuotati (o per lo meno svuotantisi) di identità e storia.
Il centro storico delle città monumento da ammirare dall'esterno, spazio dell'acquisto e del mercato, ma non luogo del vivere sociale e politico; le periferie, d'altro canto, cresciute come infestanti senza coerenza, prive di armonia e di un'identità sociale definita, legate alla città da infrastrutture in cui, come scrive Desideri, "anche dal punto di vista della connotazione fisica dello spazio, l'architettura sembra adeguarsi alla richiesta di virtualità e ineffabilità. La grande struttura scatolare prefabbricata, il grande contenitore spazialmente indefinito (...) è il vincitore assoluto di questa nuova generazione di non-edifici." (Desideri,1997)
Se la realtà spaziale è questa, ed io ne sono convinto, è necessario prenderne atto e pensare allo spazio con occhi nuovi, diversi da quelli che ancora oggi guardano la città e la immaginano popolata della gente di vent'anni fa. Siamo convinti, per fare un esempio recente che riguarda proprio la nostra città ma che non vuole essere polemico in alcun modo, che la riconversione di piazza Cavour in piazza Stradivari (con tanto di statua cimiteriale annessa) possa essere motivata da ragioni di carattere principalmente socio-culturale, come dichiarato in origine dai progettisti?
Non è forse possibile che quella piazza, che dovrebbe raccogliere persone motivate dalla voglia di stare insieme, rischi di riempirsi soltanto in coincidenza del mercato settimanale o di altre iniziative “usa e getta” proposte occasionalmente?
Anche Cremona, mi pare, è la rappresentazione in scala ridotta della organizzazione metropolitana dello spazio urbano contemporaneo - "una forma composita che comprende differenziati spazi sociali" (Bovone e Mora, 1997). Spazi contigui, ma non necessariamente interconnessi, comunicativi. Spazi che mettono in crisi il concetto di "territorio competente" in uso a certa letteratura sociologica anche recente che interpreta il territorio come comunità di soggetti in relazione fra loro e imposta le politiche sociali su un presunto senso di appartenenza tutto da verificare nei fatti.
Allora credo sia necessario qualificare i nonluoghi reali in cui i giovani trascorrono il loro tempo extrascolatico/extralavorativo (la strada, la discoteca, lo stadio, il centro sociale...) non con l'offerta di nuovi spazi "migliori" (in quanto pensati da adulti moralisti), né con la pervicace ricerca della costruzione di una rete istituzionale, ma con una presenza degli adulti più attenta, non invasiva, rispettosa delle identità e mediatrice di creatività che possa essere facilitatrice di espressione di valori e di biografie personali.
Una funzione di ascolto, prima che di accompagnamento; di comprensione, prima che di giudizio. Nella scuola come nella strada.

(relazione presentata nell'ambito del corso di formazione "Graffiti. Tracce della comunicazione giovanile", Cremona 31 gennaio 1998)


BIBLIOGRAFIA DI RIFERIMENTO

AA.VV., Centri sociali: geografie del desiderio, Shake edizioni (Milano 1996)
Andreoli Vittorino, Giovani. Sfida rivolta speranze futuro, Rizzoli (Milano 1995)
Ansaloni S.-Baraldi C. (a cura di), Gruppi giovanili e intervento sociale, Franco Angeli (Milano 1996)
Augè Marc, Nonluoghi, Eleuthera (Milano 1993)
Augè Marc, Un etnologo nel metrò, Eleuthera (Milano 1995)
Bagozzi Fabrizia, Generazione in ecstasy, Edizioni Gruppo Abele (Torino 1996)
Bey H., T.A.Z. Zone Temporaneamente Autonome, Shake Edizioni (Milano 1993)
Bosi A. - Campanini A., La cultura dell'ascolto nel presente. Percorsi di comunicazione nella vita quotidiana e nei servizi, Edizioni Unicopli (Milano 1997)
Bovone L. - Mora E. (a cura di), La moda della metropoli. Dove si incontrano i giovani milanesi, Franco Angeli (Milano 1997)
Castellani Alessandra, Senza chioma nè legge. Skins italiani, Il Manifesto libri (Roma 1996)
Centro Studi - Osservatorio Permanente, Generazione in ecstasy, stampato in proprio (Cremona 1997)
Chambers Iain, Ritmi urbani, Costa & Nolan (Genova 1987)
Comune di Cremona- Ufficio Aggregazione Giovanile - Coop. Iride, Centri di Aggregazione Giovanile, Un Percorso tra modelli e progetti, stampato in proprio (Cremona, 1996)
Comune di Milano, I Centri di Aggregazione Giovanile. Un sistema di servizi per i giovani della città, stampato in proprio (Milano 1996)
De Luca Maria Novella, Le tribù dell'ecstasy, Theoria (Roma-Napoli 1996)
Desideri - Ilardi (a cura di), Attraversamenti. I nuovi territori dello spazio pubblico, Costa & Nolan (Genova 1997)
Higbie Dick, Sottocultura. Il fascino dello stile innaturale, Costa & Nolan (Genova 1987)
Manzoni Gian Ruggero, Peso, vero, sclero. Dizionario del linguaggio giovanile di fine millennio, EST Il Saggiatore (Milano 1997)
IARD Milano, Quarto Rapporto sulla Condizione Giovanile in Italia, Il Mulino (Milano, 1997)
Natella A. - Tinari S. (a cura di), Rave Off, Castelvecchi (Roma, 1996)
Paroni Paolo, Le compagnie giovanili tra agio e disagio. I ragazzi della panchina (... il muretto è già occupato), tesi di laurea (Milano 1996)
Perec G., Specie di Spazi, Bollati Boringhieri (Milano 1996)
Pregnolato Rotta-Loria Francesca, Spazio e comportamento. Introduzione alla prossemica, Levrotto & Bella editrice (Torino 1983)
Progetto Formazione Capodarco, L'operatore di strada, La Nuova Italia Scientifica (Roma 1995)
Tassone F. - Aduasio R., Dai giovani grunge ai cyberpunk. Sex - drugs - Rock and Roll una nuova nascita da decodificare, Edizioni CdG (Pavia 1997)

 

Un popolo "rumoroso" in movimento.

Anche la realtà del Cremonese, benché confinata in una provincia culturalmente e socialmente pigra - restìa alle trasformazioni e ai cambiamenti - offre un panorama ricco e composito di gruppi musicali che operano a diversi livelli di espressione.
L'esperienza di costituire un gruppo musicale risponde a un bisogno di aggregazione che i giovani avvertono in un momento cruciale della loro esistenza; un bisogno che ha motivazioni di varia natura ma che esprime sempre, implicitamente, l'esigenza di affermare un'identità definita, netta, che ricopra un ruolo sociale e culturale differenziato rispetto all'età adulta, comunque non necessariamente antagonista ad essa.
Gli studi sociologici più recenti che si sono occupati di "popular music" (quelle musiche, cioè, che a differenza del folk, del blues rurale, del jazz e della musica colta anno una diffusione di massa (1)) tendono infatti a superare la classica interpretazione socio-culturale basata sulla contrapposizione tra generazioni (e nello specifico tra adolescenza e adultità), secondo una dialettica che interessò i giovani dagli anni Cinquanta alla prima metà degli anni Settanta. L'idea prevalente è quella che vede l'universo giovanile come parallelo a quello degli adulti e che la temuta, avversata, neutralizzata "rivoluzione adolescenziale" che costituì le fondamenta della cultura Rock (si pensi, a titolo d'esempio, all'amaro destino del movimento Punk - l'ultimo in ordine di tempo a rappresentare le istanze contestatrici dei giovani inglesi - ben presto riassorbito dall'industria culturale e rivenduto come una delle tante mode giovanili), sia soltanto un fenomeno apparente.
Si tratterebbe piuttosto, oggi, di un universo che utilizza un linguaggio differente, "altro" rispetto a quello adulto, che frattura simboli e significati del linguaggio corrente, che alimenta una sottocultura di codici fluidi, mutanti, che non è identificabile nè con l'Arte nè con la cultura di massa (2).
Il giovane, secondo Higbie, è determinato ad avere "il suo momento", il suo "spettacolo oltraggioso", in un sovvertimento di codici linguistico-espressivi (in particolare il corpo e la parola) che vengono generalmente elusi, ignorati, rimossi, quando non duramente repressi, da adulti disinteressati ad entrare in relazione con essi. "Ciò a cui si ribella il rock'n'roll", ha scritto il sociologo Lawrence Grossberg - "non è tanto il mondo moderno, ma il fallimento del potere nel capirlo e nell'articolare modelli propri di sopravvivenza che convive con il potere, distruggendo e ricostruendo il contesto dei suoi effetti. Non è musica di libertà individuale ma di autonomia sociale" (3).
Per questo, la musica - il suonare insieme - diventa un efficace veicolo che permette al gruppo (e ai suoi singoli componenti) di esprimere un modello comportamentale, uno stile, che consenta di ritagliarsi un posto nel mondo dando un senso all'esistere stesso dell'universo giovanile come età propria della vita, dotata di una sua autonomia e di una sua logica interna. Un'età della vita con un'identità precisa, che rivendica la legittimità di essere considerata come un momento "in sè" della crescita individuale e non come mera fase propedeutica all'età adulta.
Di qui l'estrema importanza, diremmo determinante, di una ricerca come questa che intende cogliere i movimenti della grande popolazione sottoculturale cremonese, espressione di un mondo troppo spesso lasciato ai margini del quotidiano, ghettizzato nelle periferie, rimosso dalla coscienza collettiva, cui è consentito soltanto di potersi sfogare a patto di non arrecare disturbo all'attiguo mondo degli adulti.
Conoscere questo universo parallelo - comprenderne i linguaggi, i simboli, gli stili - può soprattutto rappresentare un'occasione per attrezzare la collettvità di strumenti preventivi del disagio e della devianza giovanile, in un'ottica di intervento che offra sempre nuove e mirate opportunità per migliorare la qualità reale della vita, non limitandosi alla mera funzione di controllo e contenimento.
Un'irrinunciabile occasione, inoltre, per consentirci di cominciare a indagare all'interno del rapporto lavoro/studio-tempo libero e verificare quali impulsi possono venire dai giovani nell'organizzazione e nella gestione del loro tempo - che è anche il nostro.

Note:
(1) Si veda a proposito la raccolta di studi "What is popular music?", edita dalla Unicopli nel 1985;
(2) cfr. Dick Hegbie in "Sottocultura. Lo stile innaturale", Costa & Nolan, Genova 1983;
(3) cfr. in "Vita da rock" di Carlo Bondi, Franco Angeli, Bologna 1984;


(Introduzione alla ricerca "I giovani e la musica a Cremona. Primo censimento dei gruppi musicali giovanili nel territorio cremonese", promossa dal Comune di Cremona e pubblicata nel 1996)

 

Cheap Thrills: una mostra di emozioni a buon mercato.

Quella che si è aperta il 29 maggio scorso a Cremona, nella sede del Centro Fumetto "Andrea Pazienza", non è la solita mostra per feticisti-kollezionisti del disco a caccia di perverse "freakerie". Né tantomeno una provocazione, per la verità, anche se ciò sarebbe piaciuto a qualcuno degli assertori che la musica Rock è una delle ultime espressioni artistico-culturali del nostro secolo ancora "trasgressive".
"Cheap Thrills - Emozioni a buon mercato", direttamente dal mito-Crumb, non è che una proposta tra le molte possibili a guardare alla musica Rock in un'ottica specificamente "estetica", di pura immagine, senza per questo che il tentativo debba rischiare di apparire pretenzioso ed esauriente della tematica.
Che cosa se non il fumetto, è stato l'assunto fondamentale, ha offerto a questa musica proprio l'opportunità di proporsi integralmente quale oggetto culturale durante gli ultimi trent'anni?
Il Rock, è stato acutamente dimostrato - non è propriamente un "genere musicale" (uno stile connotato), quanto piuttosto una dimensione economico-produttiva per le chiare e compromettenti relazioni che essa ha (a differenza di altre) con l'industria discografica (1).
Sebbene da questo punto di vista il dibattito sulle origini del rock e del disco paia tutt'altro che concluso (2), un'idea ormai consolidata è quella che vorrebbe questo sottogenere della "popular music" (3) "una forma cruciale delle comunicazioni di massa contemporanee"
(S. Frith, 1978), la sola a condensare tensioni, bisogni, ideali, immaginari di intere generazioni di giovani in un solo medium.
Da queste considerazioni, la proposta di un'esposizione di copertine Rock a soggetto fumettistico vuole quindi essere intesa in senso marcatamente culturale ed economico (quindi massmediologico), più che specifico, di un genere cioè che sia connotato musicalmente.
Che il fumetto sia irrotto prepotentemente nella comunicativa Rock come una necessità espressiva alternativa ad altre più ortodosse è un fatto storicamente dimostrato; che ci siano state epoche particolari in cui l'osmosi ideologica dei due linguaggi sia stata totale e diretta, inoltre, è altrettanto incontrovertibile.
Ma non era nostro intento quello di legittimare l'uso che è stato fatto dal fumetto in trent'anni di musica Rock (le risorse e i tempi non l'avrebbero consentito in ogni caso), quanto piuttosto quello, ben più elementare, di testimoniare semplicemente come dagli anni '60 ad oggi i "comics" siano parte complementare della "musica rivolta consumata e talora prodotta dal mondo giovanile" (Fabbri-Ala, 1978) e non riduttivamente abbellimento fine a sè stesso o, peggio, pretesto commerciale teso a richiamare pubblici teoricamente differenti (ma spesso coincidenti).
Anzi, proprio come il Rock, detentore di un pregio a nostro avviso fondamentale in un'arte "realmente" popolare: quello di riuscire a dispensare forti "emozioni assolutamente a buon mercato", E, scusateci, coi tempi che corrono non è poco...

Note:
(1) Ancora oggi in Italia è prassi distinguere (e difendere strenuamente) il Rock dal Pop e da altre espressioni idiomatiche quali "Disco", "Reggae", "Heavy-Metal"... In alcuni casi, addirittura, la confusione "filologica" porta il Rock ad essere sinonimo di Pop, coincidendo addirittura con il "Rock'n'Roll" (quello degli anni '50). Poiché Rock'n'Roll, Beat, Pop, Hard-Rock etc. sono espressioni che identificano musiche ben connotate stilisticamente e storicamente (almeno nelle origini), Rock è stato assunto dalla saggistica inglese di ispirazione sociologica a categoria onnicomprensiva delle varie forme suddette. Per questo Rock diventa sottogenere delle "popular music", genere che si distingue per le sue peculiarità da altri quali il Jazz, la musica "colta" (o "accademica"), il Blues rurale... proprio per la sua natura eminentemente economica, relazionata cioè all'industria discografica;
(2) cfr. il capitolo 1 di "Rock-Star system e società dei consumi" (Ed. Lakota, Roma 1987) in cui l'autore David Buxton polemizza con le posizioni sostenute da Simon Frith in "Sociologia del Rock" (Feltrinelli, Milano 1978);
(3) sull'"identità negata" della "popular music" e tutte le problematiche ad essa connesse si veda "What is popular msuic?" (Edizioni Unicopli, 1985) di autori vari.


DUE PAROLE-DUE SUI CRITERI DI ALLESTIMENTO DELLA MOSTRA.
La selezione di copertine proposta operata tra circa 10.000 dischi a 33 giri usciti dal 1960 ad oggi è organizzata in ordine cronologico sia per ovviare ai limiti dell'etichettatura in "generi musicali" (quindi assumento il Rock a categoria-contenitore), sia soprattutto per indurre la considerazione che il fumetto è stato utilizzato praticamente in tutte le epoche della breve storia del Rock e in tutti i suoi stili grafici possibili: perentoria iperbole quest'ultima testimoniata dall'apparente caoticità degli esempi proposti.
Dei molteplici campioni di copertina esponibili priorità assoluta hanno avuto quelli in cui è stato l'autore di fumetti professionista a rappresentarle, con due modalità interessanti:
- quella di aver conservato gli elementi connotativi del proprio stile senza snaturarlo (chi non riconoscerebbe, ad esempio, Andrea Pazienza sulla copertina di un disco? O Robert Crumb? O, ancora, Guido Crepax?);
- quella di aver utilizzato la tecnica fumettistica (il segno, il colore...) mettendola al servizio dell'illustrazione, senza citare in ogni caso il fumetto canonico (come Iosa-Ghini nel ritratto di Enrico Ruggeri).
Il secondo criterio applicato alla selezione è stato quello secondo cui l'illustrazione della copertina è stata disegnata da autori non fumettisti (o comunque a noi sconosciuti) che in ogni caso hanno adottato il linguaggio tipico del fumetto.
Modalità emerse in questo gruppo di lavoro sono state quelle:
- dell'uso della tecnica del fumetto e del suo "corredo espressivo" ("balloons", onomatopee e corrispondenti segni grafici, senso del movimento...): casi estremi in cui l'immagine è quasi dissolta sono la cover dei Rush o quella dei Fraternity Of Men;
- della proposizione di vere e proprie situazioni vignettistiche mutuate dai "comics" (stupende quelle sulla copertina interna del disco dei New Riders of the Purple Sage...);
- della rappresentazione di semplici disegni narranti situazioni caratterizzate da elementi assimilabili all'idioma del fumetto (come quelle in tinte forti di Jean Pierre Lyonnet che raffigurano alcune copertine di dischi di Paolo Conte);
- della citazione/parodia di classici del fumetto (è il caso della cover di "Superhits" di Marvin Gaye rappresentato nei passi di Superman, sorte toccata anche ai Missus Beastly...).
Variabile quest'ultima che ci ha indotto ad escludere tutti i ritratti a fumetto in cui, nonostante l'utilizzo spesso evidente di tecniche fumettistiche, l'immagine si esurisce solitamente in una sorta di "immobile caricatura" dei musicisti, interessando solo marginalmente i tipici contenuti del "comics" (si pensi ad esempio a quella del Lou Reed "borchiato" sull'album "Take no prisoner" o a quella di Edoardo Bennato su "Uffà Uffà").

(Presentazione dell'omonima mostra di copertine rock promossa dal Comune di Cremona-Centro Fumetto "A. Pazienza" dal maggio al luglio 1989 curata da Luca Ferrari. Il testo, qui ripresentato con lievi interventi dell'aprile 2004, era pubblicato su un numero speciale di "Schizzo", mensile edito dal centro)

 

Perle ai porci. Gelato ai corvi. Sulle relazioni tra musica e pittura nell’opera di Captain Beefheart

Chi ha amato la musica di Captain Beefheart non può non rammaricarsi oggi del fatto che egli abbia deciso di abbandonare (pare di capire definitivamente) le scene musicali per dedicarsi a tempo pieno alla pittura.
La critica specializzata Rock, cui è rimasto il mesto esercizio del tributo alla carriera, tenta arditamente di stabilire correlazioni tra la musica di ieri e la pittura di oggi, con un atto dal significato marcatamente “riparatore” che, ponendo implicitamente una continuità diacronica alla base, non ha alcun fondamento logico e culturale nell’esperienza dell’artista californiano (cfr. anche recentemente la rivista francese “Best” dell’agosto 1993).(1)
Beefheart, d’altronde, ha lucidamente sgombrato il campo da ogni equivoco dichiarando: “Preferisco la pittura alla musica perché posso passare un giorno intero su una tela e poi cancellarla. Dipingerci sopra è proprio una bella sensazione”. (2)

LA (S)FORTUNA CRITICA
Il musicista, nel corso di diverse interviste rilasciate in questi ultimi anni, ha disseminato dettagli ed indizi sul suo fare musica che ricomposti oggi in un quadro coerente ed organico non possono che suggerirci indicazioni illuminanti sul suo approccio alla materia sonora.
Analizzando le strutture dei brani composti, anche ad un ascolto superficiale, esse ci comunicano un senso generale di complessità, ai limiti della dissonanza armonica. L’utilizzo a funzione solistica delle due chitarre elettriche e del basso, sganciati definitivamente dal loro tradizionale ruolo di accompagnamento e in grado di determinare intrecci contrappuntistici; i patterns ritmici variabili della batteria (raramente improntati sui classici 3/4 e 4/4 del Rock); l’uso della voce, solo raramente melodico, il più delle volte recitativo, sono gli ingredienti superficiali di questa ricetta compositiva le cui matrici culturali provengono da blues.
Cogliendo le implicazioni strutturali e ideologiche del free jazz (Albert Ayler, Ornette Coleman, Eric Dolphy in particolare) della seconda metà degli anni Sessanta, Beefheart ha liberato gli strumenti musicali dalle loro funzioni stereotipe del Rock e del Blues per inaugurare una forma espressiva completamente nuova, ma soltanto in apparenza libera, perché vincolata a rigide regole compositive predeterminate.(3)
Tesi confermata da Gary Lucas, chitarrista nelle ultime formazioni della Magic Band, che a proposito delle modalità compositive di “Doc at the Radar Station”, penultimo disco del musicista, rivela: “Esce tutto dalla sua testa. I musicisti non suonano neanche una nota che non sia stata precedentemente scritta”.(4) Testimonianza che attesta la volontà di un approccio ai suoni di natura accademica che non ha riscontri nella cultura della popular music e che la critica specializzata ha stentato a rinvenire lasciando l’ascoltatore ad un approccio meramente “impressivo” alla musica, senza offrire cioè alcuna chiave interpretativa della forma sonora. L’ascoltatore, mi si passi la paradossale analogia, è come si fosse trovato di fronte alla Gioconda coi baffi di Marcel Duchamp (“L.H.H.Q.” del 1932) ignorando chi fosse la Gioconda.
Significativo, a questo proposito, il commento di un illustre critico americano che all’ascolto di “Licks my decals off, baby” (Warner Bros. 1970) scriveva: “Inside Captain Beefheart is a corny old ballad-singing crooner, aching to sing those some old songs of sorrow and devotion. But he knows that kind of staff doesn’t have any effect anymore. Once people used to feel their hearts turn when Sinatra sang, but now they just let his voice wash over them; any effects he might have are just conditioned responses. (...) So, using a technique already familiar in filmaking (Andy Wahrol), jazz (Albert Ayler) and painting (Francis Bacon), Captain Beefheart has chosen to reach us through ugliness. He knows that most of us will turn him off, but hopes that the few who stay o listen will get more from him than do the millions who listen (but doesn’t hear, maybe) those big bold stars...”(5).
Gillet, cui non mancava certo la competenza per interpretare semiologicamente quella musica, rinuncia in partenza ad una corretta analisi del prodotto sonoro affidandosi alla categoria “estesica”(6) della “bruttezza”, limitandosi all’impressione ricavata da un ascolto soltanto superficiale e privo di competenze specifiche.
E’ perciò inevitabile che, con il trascorrere degli anni, il corpus dell’opera beefheartiana abbia assunto un significato e un valore così fortemente politici. Rimasta inspiegata, benché comprensibile, la musica di Beefheart ha mantenuto intatta la sua dirompente forza eversiva nei confronti del suono consonante dei sottogeneri della “popular music” (Rock, Pop...). Esempio di bruttezza, di freakerie musicale e niente più, appunto, cui è stato negato il grande valore musicologico.
Così, come stupirsi di uno sfogo personale di Beefheart che, proprio in procinto di abbandonare la scena musicale, dichiarava di non essere mai stato compreso seriamente dalla critica e dal pubblico?
“Per tutta la vita mi hanno ripetuto che ero un genio. Hanno detto lo stesso delle mie sculture, battendomi la mano sulle spalle... Ma intanto hanno anche insegnato al pubblico che la mia musica è troppo difficile da ascoltare...”(7).

DIPINGERE E’ CANCELLARE
Così nel 1981 Beefheart abbandona la musica per diventare quel Van Vliet che aveva convissuto, ma in condizione di chiara subalternità (alcuni quadri del periodo sono riprodotti sulle copertine dei dischi, quasi a volerne illustrare il contenuto), con il musicista fino a quel momento.
La frattura che viene a instaurarsi tra una musica dalla rigorosa e controllata forma compositiva e il nuovo medium, appare oggi concettualmente inconciliabile.
Quando il “ritrovato” Van Vliet dichiara di preferire la pittura alla musica per la ragione più sopra esposta, l’ex musicista ci offre alcune considerazioni implicite sulle relazioni intercorrenti tra i due medium e sui rispettivi processi di significazione. Ammette, anzitutto, che esiste una divergenza fra la sua musica e la pittura sia da un punto di vista tecnico che, soprattutto, riproduttivo.
Se la musica presupponeva conoscenze specifiche in composizione, implicava la capacità di saper utilizzare tecnologie intermediatrici per tradurre le idee musicali in suoni coerenti, dotati cioè di una loro logica interna, che fosse anche comunicativa, la tela diventa come per reazione una sorta di lavagna cancellabile ad oltranza, almeno fino al deterioramento della materia.
Dipingere e cancellare, allora, diventano il processo attraverso cui si esaurisce la creazione, nell’atto stesso del suo farsi, e che non implica necessariamente un pubblico. “In realtà”, ha dichiarato nel 1988, “quello che cerco di fare è rivelare me stesso sulla tela, per congelare il momento in modo che chi osserva possa vedere quello che ho congelato. Cerco di mettere su tela quello che accade dentro di me in una natura morta di quel preciso momento”8.
Ma dipingere “è” cancellare, anche, per le potenzialità intrinseche offerte da tele e colori. Come se la tela diventasse un nastro magnetico su cui stratificare l'esperienza del segno. Senza alcuna preoccupazione per la forma conclusiva, definitiva, necessaria e predeterminata in ogni brano musicale – anche quello che fosse fondato sulla più incontrollata free-form.
Allora, se quella registrata da Captain Beefheart ci si impone criticamente, per utilizzare una categoria in uso nella storia dell’arte, come “musica concettuale”, la pittura si fa invece “retinica” e istintiva, quasi per diretta e interconnessa reazione, assumendo un forte impatto cromatico e segnico. Come se quelle idee, un tempo implose in forme rigide nella musica, fossero oggi lasciate esplodere selvaggiamente sulla tela, con un’incompiutezza, un’infinitezza che prima era solo simulata, negata dalla natura del medium e dalle logiche di un mercato potenziale di ascoltatori.
Come se le idee-suoni, inscatolate in rigidi significanti rimasti inesplorati ai più, diventassero le idee-segni liberate, alleggerite dai pesanti processi tecnico-compositivi e dall’urgenza di dover comunque essere significative e riproducibili. Di doversi conquistare, a viva forza, un pubblico9.
Con la forte vis comica nei confronti dell'industria discografica di continuare probabilmente a comporre suoni solo per se stesso, magari registrandoli su cassetta per cancellarli con nuovi suoni il giorno dopo.
“L’unica cosa che ferma un compositore dal pensare alla musica è il rigor mortis”, ama ripetere il Capitano, “ed io continuo a comporre tutto il tempo”10.
Sfortunatamente per noi, che abbiamo amato ed amiamo ascoltare i suoi dischi, i meravigliosi quadri che ci offre oggi sono soltanto "musica per i nostri occhi". Quanto alle nostre orecchie...

(saggio pubblicato in inglese sul catalogo di opere di Van Vliet “Stand up to be discontinued”, Cantz 1993. Questa versione in italiano, inedita, è una riarrangiamento del novembre 2003)

Note:
1. non è sufficiente ritenere esistano correlazioni dirette tra musica e pittura solo perché il musicista ha sempre amato utilizzare sue opere per illustrare le copertine dei suoi dischi;
2. da “Captain Beefheart ha 50 anni”, in “Rockstar” n. 126 (marzo 1991), intervista di Jim Greer;
3. una delle più accurate interpretazioni musicologiche della produzione di Captain Beefheart è riscontrabile in “The great rock solos of our time”, apparso a firma Fred Frith su “New Musical Express” nell’aprile 1973;
4. da “Il corvo e la volpe” di Dali De Clair, “Rockstar” n. 4 (gennaio 1981);
5. recensione di Charlie Gillet in “Rolling Stones” del 1970;
6. cfr. la tripartizione proposta dal francese J. Nattiez in "Il discorso musicale", Einaudi 1987;
7. da “Rockstar” n. 4 (gennaio 1981), cit.;
8. da “Captain Beefheart’s brush with art” di Rip Rense, “San Francisco Examiner” del 25 novembre 1988;
9. il pittore dipinge in una dimensione che non presuppone la riproducibilità tecnica dell’opera (cfr. Walter Benjamin in “L’arte nell’era della sua riproducibilità”, Einaudi 1955) ed è conseguentemente liberato dall’urgenza di ottenere un consenso di massa;
10. in “New Musical Express” del 6 agosto 1988.

 

"Uno dei suoi momenti. Il nichilismo hollywoodiano di Roger Waters nelle lyrics di 'The Wall'"

Quelli che seguono sono gli appunti utilizzati per l'intervento al convegno "Pink Floyd. The Wall", tenutosi il 9 e 10 marzo 2001 al Teatro Carlo Felice di Genova. L'iniziativa è stata promossa dall'Assessorato alla Cultura della Provincia di Genova, dal Comune di Genova e dall'Associazione Gli Orti di Carignano. Tra gli altri intervenuti, Andrea Liberovici e Massimo Cotto.


 1. Prologo

a. è sempre un’impresa ardua parlare di un’opera culturale a noi contemporanea perché soggetta alle continue modifiche di giudizio nel corso del tempo


2. Elementi conoscitivi sulla genesi dell’apparato testuale del disco

a. The Wall cade in uno dei periodi di maggiore crisi del gruppo (finanziaria, fiscale, di rapporti interni), a rischio di scioglimento
b. È Waters l’ideatore del concept e l’autore di quasi tutti i testi , con esigua collaborazione di Gilmour ed Ezrin
c. Gli altri componenti del gruppo (soprattutto Gilmour) non ritengono il tema del disco significativo per loro, ma lo considerano frutto dell’esperienza e della conseguente visione della realtà del solo Waters
d. The Wall è costituito da ben 26 brani + 2, molto più di quanto il gruppo avesse composto negli ultimi dieci anni
e. I testi, nel corso dell’anno di preparazione, vengono più volte riscritti, soprattutto su impulso di Gilmour ed Ezrin che li supervisionano
f. È Ezrin ha fare il lavoro di redazione del disco, a dare un collante ai pezzi, tanto che è lui a scrivere 40 pagine di storia
g. E’ sempre lui a convincere Waters a espungere dalle lyrics le date di riferimento, allo scopo di rendere il contenuto dell’album “universalistico”
h. Waters arriva addirittura a considerare The Wall un'opera “generazionale”


3. Le interviste a Waters

a. all’uscita del disco, Waters ritiene necessario rilasciare almeno tre interviste approfondite sul disco, in cui analizza una ad una le canzoni (a Jim Ladd in “Innerview ‘80” alla radio; a Tommy Vance su BBC Radio One; a Karl Dalls sul mensile "Sounds")
b. nel corso delle interviste ammette la necessità di spiegare i brani, perché, diversamente da quanto auspicato, alla fine c’è qualcosa che non scorre nella connessione della storia
c. motiva il finale del disco, "Outside the Wall", come una necessità sopraggiunta in un secondo tempo, perché “Nella primissima stesura avevamo deciso di costruire il muro e di lasciarlo in piedi. Ma poi, riflettendoci, ci sembrava una cosa troppo alienante, non la trovavamo giusta. Non l’abbiamo fatto per paura delle reazioni della gente, quanto perché come finale ci sembrava troppo duro, una specie di “vaffanculo”, che non era comunque nelle nostre intenzioni”


4. Struttura dell'apparato testuale

- la storia è divisa in 5 parti:
a. "In The Flesh?" – introduce l’ascoltatore sul piano della realtà: il protagonista sta suonando dal vivo ed è come se parlasse con il pubblico
b. da "The Thin Ice" a "Goodbye Blue Sky" – il piano temporale è quello del flashback: "ecco perché mi sono ridotto come mi vedete in In The Flesh?", sembra dire il protagonista: abbiamo una serie di quadri che sintetizzano le cause originarie del deterioramento psichico della futura rockstar, più o meno relative all’infanzia e all’adolescenza:
1. l’abbandono paterno (padre in guerra: Waters) (morte prematura: Barrett)
2. la madre oppressiva (Barrett?)
3. l’esperienza traumatica a scuola (Waters)
c. da "Empty Spaces" a "Goodbye Cruel World": qui il flashback riguarda il deterioramento psico-fisico della rockstar mentre si trova in tour:
- gli eccessi sessuali ("Young Last")
- la crisi coniugale ("One Of My turns")
- il tradimento e l’abbandono della moglie ("Don’t Leave Me Now")
- la decisione del suicidio ("Goodbye Cruel World")
d. da "Hey You" a "Run Like Hell": tempo reale, crisi della rockstar
- tentativo fallito di recuperare il rapporto con la moglie ("Nobody Home")
- desiderio di ritornare a casa ("Bring The Boys Back Home")
- intervento di manager e medico ("Confortably Numb") (Barrett)
- lo spettacolo che deve continuare ("The Show Must Go On") (Barrett)
- gruppo sostituto fascista ("In The Flesh" – "Run Like Hell")
e. da "Waiting For TheWorms" a "Outside TheWall": processo e liberazione
- nichilismo e senso di colpa ("Worms" e "Stop")
- crisi di coscienza ("TheTrial")
- rinascita/riscatto ("Outside the Wall")


5. Breve digressione sulle traduzioni dei testi dei Pink Floyd in Italia

a. prima Walter Binaghi in Arcana (anni Settanta)
b. poi mio lavoro su Octopus (dal 1979)
c. quindi ricerca testi per il libro su Barrett (1984)
d. raccolte Gammalibri e Arcana


6. Analisi critica dell’apparato testuale di "The Wall"

- lavoro ambizioso, congegnato per trascendere i limiti dell’opera rock: l’orchestrazione, da sempre ambizione di Waters, come affrancamento dalla natura rock dei pezzi (tesi di Paolo Bertrando)
- opera ridondante, sovraffollata di parole (Paolo Bertrando): ci sono certamente testi che si ripetono e che potevano essere ridotti se non addirittura esclusi
- opera disomogenea nello stile espressivo, nei generi adottati (Bertrando)
- i testi spesso verbosi, sono caratterizzati dalla perdita assoluta di quella levità che aveva contraddistinto la poetica del gruppo: non più allusiva, metaforica, lieve, psichedelica, ma diretta, greve, meramente descrittiva – i picchi assimilabili alla poesia pochi: "Vera", "One Of My Turns", con quella splendida immagine delle “radici che svaniscono” proprio in chiusura del pezzo;
- quando si adotta la metafora lo si fa in termini banali, scontati: dal muro, come isolamento-incomunicabilità, al ghiaccio sottile; dalla maschera, ai vermi;
- il registro è amaro, sarcastico, autoindulgente
- i piani narrativi sono di difficile comprensione: tempo reale-flashback, così come rispetto ai dialoghi interni ai testi: quando il disco comincia con "In The Flesh?", non è di comprensione immediata che si tratti del tempo reale, da cui il protagonista fa partire il flashback
- è concettualmente moralistica, ipocritamente consolatoria nel suo finale hollywoodiano da happy end
- è ingenuamente "comportamentista" (Pavlov) nel delineare attraverso continue cause-effetto il destino del protagonista: di qui l’assoluta autoindulgenza verso le innegabili responsabilità di Pinky, cui alla fine si consente il riscatto umano e sociale – visione PAVLOVIANA della società, delle relazioni, dello sviluppo individuale
- Waters sembra ignorare o decide di ignorare la funzione determinante dell’AMBIENTE nell’evoluzione psicosociale della persona: ogni esperienza negativa vissuta diventa semplicisticamente e forzatamente un nuovo “mattone del muro” dell’isolamento mentale e fisico di Pinky
- manca una rielaborazione da parte del protagonista, tanto che "The Trial", brano centrale nell’economia del concept, non rivela quale percorso autoanalitico abbia fatto Pinky per giungere alla sua autoliberazione/riscatto


7. Nichilismo hollywoodiano e altri nichilismi

- l’epoca di "The Wall" è l’epoca post-punk della new wave, nelle sue variegate espressioni stilistiche
- è la poetica del punk a radicalizzare il nichilismo mod degli anni Sessanta, epigono di quella "My Generation" degli Who che sconvolse il pubblico adulto: sono i Sex Pistols a lanciare l’inno iconoclasta “no future” nell’Inghilterra tatcheriana della disoccupazione ai massimi storici e della disgregazione progressiva, ma ineluttabile, dello stato sociale. Rotten, con la maglietta con scritta “I hate the Pink Floyd”, a dichiarare: “solo i falsi sopravvivono”
- gli eredi del punk, nel ’79, propongono un minimalismo musicale tecnologico e testuale che è agli antipodi dell’estetica dei gruppi della generazione precedente (progressive? Rock sinfonico?): due gruppi fondamentali, entrati nel novero del culto giovanile di questi anni – The Cure e Joy Division hanno testi taglienti, allusivi, obliqui, minimali, di un nichilismo totalizzante, senza appello; altri, penso ai Wire, accostati azzardatamente agli stessi Floyd (forse per la comunanza di incidere per la Harvest), scrivono testi di sintesi, fatti di immagini metaforiche, criptiche, psicoattive, anch’essi di una poetica agli antipodi.

D’altronde, all’uscita di "The Wall", Waters aveva 35 anni. Robert Smith, Ian Curtis, Bono, ne avevano almeno dieci di meno.
Dopo il punk, la metafora della disintegrazione psicofisica fattasi cosa reale con la fine dei Sex Pistols (morte di Sid Vicious, la grande truffa del rock and roll), il nichilismo non poteva che essere reale, tangibile: morirà anche Ian Curtis come morirà Kurt Cobain.

Di nichilismo hollywoodiano, invece, sembra si sopravviva, trionfando.

(Appunti elaborati tra gennaio e febbraio 2001 in preparazione della comunicazione al convegno di Genova dedicato a "The Wall" dei Pink Floyd)