Un’anima

senza impronte

 

NICK DRAKE: LA VITA, LE CANZONI

 

 

Luca Ferrari

 

 

 

 

Luca Ferrari

UN’ANIMA SENZA IMPRONTE

 

 

 

 

Sei andato troppo a fondo

Hai vissuto su aria solida

Hai perso il sonno

E ti sei mosso attraverso aria solida

Non so cosa non funzioni nella tua mente

So solo che non ti piace ciò che trovi nell’aria solida

Non sopporti quel che trovi nell’aria solida

Ti conoscerò. Ti amerò, ti sarò amico

Ti seguirò ovunque

Attraverso l’aria solida”

 

(John Martyn, Solid Air, per Nick Drake)

 

 

PROLOGO

Adesso che una vecchia band di dixieland sta suonando un po’ malferma sulle note “Clarinet Marmalade” del 1923, il “Mitico Mondo del Rock” ha assunto nelle pieghe della mia suggestionabile immaginazione personale le sembianze di un grande mostro tentacolare, agonizzante e putrido, impenetrabile nei suoi meccanismi di “consumo” e nelle sue logiche di sviluppo dialettico.

Eppure anche voi, anonimi e pazienti spettatori che da tempo ormai ascoltate dischi e avete seguito le appassionanti copulazioni letterarie del Bertoncelli dei tempi eroici, dovreste conoscerlo bene il mondo del rock. Un’insalata russa di critici in fregola di successo, promulgatori di nuove estetiche musicali (!?) ad effetto con lo spessore culturale delle pubblicità dei detersivi; di doppisensi kitsch a proposito di clarinetti e simili; di paginette patinate “usa e getta” di periodici “specializzati”, aggiornatissimi sull’ultimo “make-up” di Madonna e sulle braghette psichedeliche di Prince, per non dire dei veri o presunti flirt di Simon Le Bon; di cultura “alternativa” a base di Coca-Cola e Coca-Ina. Delle chitarre seviziate di Pete Townshend e delle mummificazioni ancheggianti di Bowie; di “roadie”,. “macho”, “groupie”, “metallari”, spacciatori di ero, pubblicitari dalla camicia pulita e dall’anima sporca, manager strizzacervelli, case discografiche multinazionali e multifilter. Poi, ancora, brucespringsteen-USA for Africa-Sanremo, mike-raffa-pippo che discettano di rock, anche in inglese...

Se tutto questo guazzabuglio (e molto altro ancora), che per alcuni continuerà ad essere “stimolante” e “affascinante” nel nome solo ed esclusivo di uno svago a buon mercato o – tanto peggio – di un’illusione di “cultura altra”, è l’essenza del Rock (o, per lo meno, la sua pellaccia viscida e squamosa), allora un musicista come Nick Drake e questo libro che di lui intende occuparsi non c’entrano.

Perché se in un’analisi sociologica la figura di Drake non sfugge a un discorso sulla “popular music” (1), soprattutto per quanto riguarda il rapporto con il sistema discografico-industriale, egli non potrà avere alcun legame con essa rispetto alle “modalità” di sviluppo di detto rapporto.

Nick Drake, musicista “folk” negli approcci, non ebbe lanci pubblicitari a sensazione, recensioni su giornali e riviste che contano, interventi televisivi o foto di copertina su “Melody Maker”, dischi nelle “top ten” discografiche. Perché non si trovò mai neppure ai fatidici “due passi” dal successo commerciale e dalla conseguente popolarità che pure avrebbe meritato.

Anche da morto, proprio per la spietata logica che nutre il mostro discografico, egli è rimasto in quell’anonimato in cui era sempre stato lasciato, al punto che oggi, se i suoi unici tre dischi non fossero rimasti nel catalogo dell’Island Records per contratto, quasi nessuno potrebbe ricordare questo ragazzotto di campagna inopinatamente deceduto a 26 anni.

Adesso che anche il Rock è morto ed è stata smascherata la sua ignobile ideologia (2), è forse possibile scrivere dell’opera di Nick Drake senza suscitare il sospetto di praticare un forzato esercizio di “retorica in musica”, rivendicando ingenuamente giustizia a chicchessia.

Resta il fatto incontrovertibile che tra i Pupi della sacra rappresentazione del “Mitico Mondo del Rock”, tra la capigliatura corvina di Jim Morrison e gli ancheggiamenti di Jimi Hendrix, non riusciremo mai a vedere quello di Nick Drake, lasciato da qualche parte in una cassa dietro le quinte.

 

Note:

  1. Per un primo approccio ai problemi e ai contenuti della “popular music” si veda il recente “What is Popular Music?”, Ed. Unicopli, 1985;

  2. un sottile e intelligente “smascheramento” del Rock è il saggio di Simon Frith “Sociologia del Rock”, Feltrinelli, 1982, e quello di Gary Herman “Rock’n’Roll Babylon”, Gammalibri 1984.

 

1. BREVE INTERMEZZO

 

Esercizi di necrologia spicciola

(Di come la critica musicale affronta il fenomeno della morte)

L’accidentalità dei fatti – l’”Imprevisto” – è da sempre nemica della critica musicale.

Create le star, inventati gli aneddoti e le leggende, introdotte loro tramite “nuove mode”, fondati i Miti, tutto il sistema musicale che si presenta agli occhi del critico è vissuto con l’angoscia urgente della ricostruzione semantica.

Tutto ha una spiegazione” è l’ingenuo assunto da cui muove ogni analisi della critica musicale anche quando – e i fatti della vita sono pronti a dimostrarlo – una spiegazione non c’è.

Sarebbe molto interessante, a questo proposito, che qualcuno si provasse a scrivere una “Genealogia dei Miti Musicali”, riconducendo cioè ogni “stella” alle sue origini: vi si troverebbe senz’altro un giornalista intento a preparare il campo d’azione di quella, a disporre le cose ben bene, ricercando nel tutto una logica consequenziale e credibile (anche se quella della credibilità è una prerogativa che il giornalismo musicale crede presuntuosamente di detenere “di diritto”...).

Lo sforzo maggiore della critica, quindi, può essere ridotto semplicemente a questo: cucire tra loro gli avvenimenti della vita musicale senza far scorgere le toppe. Dare sempre e comunque la continuità dei significati.

Ma la storia di qualsiasi “star”, fortunatamente, non è diversa dalla storia dell’uomo della strada. Cambiano semplicemente i “valori” attribuiti ai suoi gesti, mentre il “sistema” di vita è lo stesso. Nel bene e nel male. Soprattutto di fronte alla morte.

Qui i problemi si complicano: al critico musicale s’impone l’obbligo di un’autodifesa strategica perché, lui, da uomo qualunque, non sa come interpretarla.

Perché quando la “star” è in vita, aggrappata al suo Mito, al giornalismo musicale si chiede semplicemente di disporre in ordine consequenziale i tarocchi dell’esistenza per spiegarne ogni gesto. La carta della morte, nell’eventualità possa uscire, è esclusa dal mazzo.

Ma quando la star muore, la ricostruzione semantica diventa insicura e inversa: la morte del Mito presuppone una ricerca di significati diversi da quelli che caratterizzano il Mito vivente, perché un Mito che si rispetti non può morire semplicemente come una persona qualunque.

E l’angoscia si accresce, l’urgenza della ricostruzione è una ferita aperta, implacabile.

Se la morte del Mito è a prima vista inspiegabile, il critico musicale sa benissimo che, in ogni caso, un appiglio c’è sempre da qualche parte: abbandona così la consueta prassi biografica per sconfinare liberamente nella psicologia e/o nella sociologia spicciola dei ricordi scolastici. Fa congetture, analizza legando fra loro i fatti con disarmante facilità e pressapochismo.

Così Jimi Hendrix potrà morire in santa pace pagando il tributo all’epoca in cui è vissuto e diventare il Mito “perfetto”. Così Janis Joplin e Jim Morrison; così Sid Vicious e Ian Curtis. Così Charlie Parker e Bix Beiderbecke. Dovunque i Miti sono sigillati, in vetrina, per consentire al sistema di ricomporsi a prepararne di nuovi (1).

Ogni morte musicale ha trovato pronte le spiegazioni della critica anche quando spiegazioni accettabili non ce n’erano. Ogni gesto è stato così ricondotto alla sua “ragione ultima”, scomodando Freud e Lewin, introducendo teorie certo suggestive ma difficilmente dimostrabili.

Si pensi, a titolo d’esempio, a tutta la tradizione critica del rock anni Sessanta, alla massiccia strumentalizzazione filosofica dei mezzi d’espressione e degli atti convogliata in un preoccupante quanto inconcludente “ribellismo generazionale”: le droghe a significante positivo (!?!?) dell’esperienza del rifiuto sociale, della cosiddetta “controcultura”; lo spettro di Allan Poe e quello di De Quincey sempre all’erta, dentro e fiori dalla tomba... (2)

 

Nick Drake gioca una partita a sé in questo senso. Appartiene a quel genere di orecchini dalla foggia strana che si acquistano in preda all’entusiasmo incontrollato, ma poi non si indossano mai perché li si trova, d’un tratto, troppo eccentrici.

Drake è “eccentrico” non soltanto perché cantautore che sfida con la vita i luoghi comuni dell’ideologia rock: è anche “orecchino strano” soprattutto perché molti critici, dovendo “indossarlo”, hanno perduto più volte il lobo dell’orecchio.

Perché se risulta un esercizio consueto alla critica musicale quello di definire rigide categorie entro cui potersi destreggiare nella “ricostruzione”, forzando nelle etichette e negli slogan le vite e le morti delle star da essa create, diventa a lei insopportabile dover prendere coscienza della morte di un artista privo (perché privato) di ogni forma di popolarità. Ai margini del Mito.

Che fare a questo punto?

L’operazione è senza dubbio più laboriosa delle altre perché si attua in un campo del tutto sconosciuto alla critica, anche se essa sa che – come sempre – è data la facoltà di tentare la ricostruzione semantica: con il chiaro intento di ricondurre il personaggio nell’alveo di quel Mito a lui sempre negato (3).

Così, nel caso specifico di Drake, si è spesso assistito a un esercizio necrologico” fondato sul patetico sentimentalismo e legato a filo doppio con l’esaltazione della “marginalità” del personaggio (quindi come Mito ad eccezione negativa), “vittima” presunta del sistema sociale e discografico.

Ma quando i critici hanno cominciato a cedere al compromesso dell’autoanalisi, della suggestione personale, facendo di “quello che provo io ascoltando questo disco” l’unico criterio di valutazione, allora le loro finalità originarie (4) sono state smarrite.

Da quel momento il giornalismo musicale è sfociato nella retorica letteraria.

 

Note:

  1. Roland Barthes, “Miti d’oggi”, Einaudi 1968;

  2. una bibliografia che voglia approfondire questo tempo non può prescindere da quel cumulo di luoghi comuni e bieche volgarità che è “Morire di musica”, AA.VV., Editrice Savelli 1977;

  3. si veda a questo proposito il paragrafo “Business musicale e stampa musicale” in “Sociologia del Rock”, Simon Frith, cit.;

  4. Dobbiamo esaminare il significato del rock non come prodotto, ma come musica e ideologia”, in Simon Frith, cit.

 

TRE ESEMPI/TRE DI RETORICA LETTERARIA A PROPOSITO DI NICK DRAKE

 

(...) Lui morì a 26 anni. Ora, a un mese dal mio 27° compleanno, un avvenimento che è diventato simbolico per me a causa della fine di certi sogni, riesco a sentire anch’io il “cane dagli occhi neri” che sta annusando nell’oscurità celeste di Londra e so che Nick ed io siamo un tutt’uno – la sua vita e la mia sono parallele...”

(Steve Burgess in “Dark Star Magazine”, 1979)

 

(...) Credo che il vento passi tra quei capelli senza scompigliarli, ricevendo da essi quelle onde di energia ed amore che vivevano solo un palmo il viso di Nick. (...) Nick dorme, ed è risveglio pronto a portata di mano, al sole di sabato o nel cuore di una bambina, mentre il sole ti aiuta a decidere quello che devi fare nel tenere un occhio puntato alle stelle...”.

(Maurizio Baiata in “Muzak”, 1975)

 

(...) Infine, a chiusura di questo articolo, mi piacerebbe consigliarvi di ascoltare Nick Drake. Potrebbe cambiare la vostra vita; certamente ha cambiato la mia”.

(Lynda Hatt in “Deja Vu”, 1978)

 

 

2. LA VITA

Vita non romanzata di un’anima senza impronte.

Tanworth-in-Arden è un paesino nelle vicinanze di Coventry, a meno di 100 km. Da Londra. La famiglia Drake si era trasferita lì nel ’50, quando Nick – il primogenito – aveva compiuto i due anni.

Di Burma, in Birmania, dove era nato il 2 giugno 1948, era logico non ricordasse molto, anche se da bambino era rimasto affascinato dai ricordi della madre che gli aveva raccontato di quei lontani paesaggi e di Bombay, dove avevano vissuto pochi mesi appena prima di trasferirsi in Inghilterra.

Il padre Rodney, impiegato in una compagnia britannica di lavorazione del legno grezzo, aveva pensato di mandare Nick all’High School di Marloborough, già frequentata da lui e da suo padre anni prima.

Alcune canzoni di Five Leaves Left – quello che sarà il suo primo disco alcuni anni dopo – e altre mai pubblicate, Nick le compose proprio in questo periodo, dopo aver comprato una chitarra a tredici sterline, prezzo che aveva impressionato molto negativamente la madre Molly, casalinga e cantante dilettante.

C’erano state, a voler ben vedere, anche alcune lezioni di piano in quei giorni, invogliate dagli stessi genitori: ma il piano, nella gerarchia degli strumenti musicali, era già stato superato dalla chitarra, diventando simbolo in quegli anni delle giovani generazioni rock.

Le poche note autobiografiche di quei giorni, comunque, già possono introdurre nella solitudine e nelle paure latenti di Nick:

 

Sono nato per non amare nessuno

e nessuno è nato per amare me

Solo il vento tra i lunghi steli d’erba verde

(e) il gelo di un albero spezzato...”

(da “I was made to love magic” del 1964)

 

Nel 1965, poco prima di iscriversi al college, Drake trascorre un mese di vacanza ad Aix-en-Provence, dove studia il francese e si diverte molto. Con un gruppo di amici conosciuti lì, farà poco dopo un breve viaggio in Marocco, appena prima di ritornarsene in Inghilterra.

In ottobre di quell’anno, chitarra in mano, Nick si presente al Fitzwilliam College, nella zona sud di Cambridge, per cominciare un corso di studi in letteratura inglese.

Non è difficile riconoscere a Cambridge il fascino unico della malinconia, dei suoi larghi fiumi e dei monti scheletrici, di quei parchi interminabili e verdi ben custoditi.

A Cambridge, oggi come allora, tutto è rimasto come un tempo e la civiltà elettronica – quella stessa che ha modificato irreversibilmente gran parte delle città del nord Inghilterra – non ha scalfito la dignitosa corazza dei secoli passati, lasciando una palpabile lentezza a regolare il ritmo della vita di ogni giorno.

Quello di Drake è il periodo dei Beatles di Rubber Soul. I Rolling Stones si era definitivamente affermati dopo le trascorse apparizioni al Marquée Club, mentre il beat stava per lasciare posto alla nuova moda psichedelica dei Pink Floyd e dei Soft Machine.

A Cambridge, invece, la tradizione musicale era rimasta radicata al folk. Il Pop bisognava cercarlo a Londra, tra la frenesia carnevalesca di Tottenham Court Road, lo shopping di Oxford Street e le bettole di Soho.

Come musicista potenziale, quindi, Drake aveva già fatto la sua scelta restandosene a Cambridge, al Fitzwilliam College, suonando la chitarra e cantando per il diletto degli amici la sera, dopo le lezioni pomeridiane.

Ed è un momento tutto sommato felice per lui. Qui, conoscerà coloro che resteranno i suoi amici per sempre: John e Beverly Martin – oggi affermati musicisti – Paul Wheeler e Robert Kirby, tutti iscritti al college.

Qualcuno convince Nick a dare un breve concerto in una saletta studentesca “bene”, la May Balls, di fronte a una piccola folla di ragazzetti un po’ ubriachi e più interessati ad abbordare qualche giovane pollastrella.

Persino il microfono si sarebbe rotto quella sera, e le sue parole, la sua concentrazione, il suo feeling – già unico in quei giorni – resteranno sommersi dalle risate e dal rumore di bottiglie rotte.

In un certo senso, la fortuna ristabilì in qualche modo le cose, comunque.

L’allora bassista dei Fairport Convention, Ashley Hutchings, trovandosi casualmente alla May Balls, resta ben impressionato dalle capacità di questo spilungone, e decide di contattare il produttore del suo gruppo introducendolo in modo determinante nella vita di Nick.

Joe Boyd era un giovane americano di Harvard, diventato a Cambridge una specie di leggenda locale per aver scoperto e lanciato vari musicisti del circuito “folk”: i Fairport, appunto, poi Richard Thompson, l’Incredible String Band e, di lì a poco, lo stesso John Martin – erano tutti sotto contratto per la sua piccola Witchseason Production.

Non fu difficile per lui, da persona sensibile qual era, restare favorevolmente impressionato dal nastro che gli era stato recapitato da Drake stesso. Anche se registrato con un solo microfono e con modalità chiaramente artigianali, il produttore aveva colto la sensibilità penetrante e unica delle canzoni di Nick. Si era, soprattutto, innamorato della sua voce.

 

Il primo settembre del 1969 viene pubblicato Five Leaves Left, primo album di canzoni di Nick Drake. Più o meno le stesse che Boyd aveva sentito qualche mese prima su quel nastro mal registrato.

Strano titolo, Five Leaves Left: Nick l’aveva tratto dai pacchetti di cartine per sigarette Rizlas che si vendono in Inghilterra.

Mancano ancora cinque cartine”, suona letteralmente – ma il valore semantico della frase, come nei miti che si rispettino, già può lasciare presagire la soluzione accidentale ce troverà la vita di Nick.

Perché non sarebbe difficile, adesso, seguendo senza paura di sbagliare la strada aperta da certa critica effettistica, ritrovare nelle parole del titolo e dei testi delle canzoni la predestinazione degli atti futuri del musicista (1).

Qui c’è già, anzitutto, la paura di alzare la voce per gridare “io esisto”. C’è la non volontà di denunciare e combattere del tono e dei significati. E c’è persino il vuoto di una rabbia smarrita o per lo meno mai posseduta.

Nel disco tutto combacia perfettamente, oltre ogni possibile immagine preconfezionata: Nick Drake cantante, Nick Drake studente di Cambridge, Nick Drake ragazzo introverso di 21 anni, sono la stessa persona perché non riescono ad essere altrimenti.

Oggi di quel periodo è rimasta una manciata di ricordi. John Wood, uno degli ingegneri del suono più affermati degli anni ’60 e ’70, e – soprattutto – amico di Drake, ci riporta alle fasi di preparazione del disco, all’immagine di quel giovane ragazzo che ora lui ha impressa nella mente:

Il primo grande ricordo che ho di lui fu quando lo vidi alla seconda o terza session del primo album. La casa discografica aveva contattato un arrangiatore ben noto per fargli preparare alcune canzoni con un’orchestra di quindici strumentisti.

Nick cominciò ad avere sempre più caldo dotto il colletto: era molto giovane, e mi sembrava una persona facilmente manovrabile. Alcuni, mentre stanno incidendo, fanno quello che gli altri gli consigliano – ma lui si stava sempre più esasperando e, alla fine, si fermò per eliminare gli arrangiamenti.

Disse che aveva un amico a Cambridge, un certo Robert Kirby, e pensava che avrebbe meglio capito quello che lui aveva intenzione di fare. Il problema era che questo Robert non aveva alcuna esperienza in fatto di studi di registrazione, anche se due settimane dopo noi prenotammo una session assieme ad un gruppo di musicisti, un gruppo più piccolo della prima volta. Restammo veramente sbalorditi: Kirby era così bravo…!”.

Anche se qua e là gli archi emergono pesantemente ricordando Handel e i Brandeburghesi di Bach, la voce di Drake e la sua chitarra restano sempre in primo piano, consentendo di cogliere il disarmante struggimento del suo cantato.

La critica specializzata segnala bene il disco, anche se la casa distributrice – l’Island – non riesce a sostenerlo con una campagna pubblicitaria soddisfacente.

Presentando contemporaneamente due nuovi artisti, Nick appunto e il giovane e serafico Cat Stevens, la scelta del pubblico era stata chiaramente indotta e scontata: Nick si presenta come una persona schiva, malinconica, il look è anacronistico e trasandato; Stevens, invece, l’astro nascente della canzone acustica inglese, è il giovane guru che canta di misticismo alla moda con voce suadente e leggera. Oltretutto lui si presenta bene sulle fotografie dei dischi e dei giornali, ed è sempre disponibile alle interviste.

Drake ha scelto da tempo come vuole essere, anche se forse non è troppo felice di essere così. “La prima impressione che si aveva di Nick era di incredibile eleganza”, ricorda Paul Wheeler, “e solo in un secondo tempo ci si accorgeva dei lacci consunti e della giacca informe…”.

I capelli lunghi spettinati, le giacche e gli stivaletti neri, le spalle ricurve a sostenere e riparare il suo metro e novanta di altezza, la voce profonda e compassata, facevano di lui l’immagine tridimensionale delle sue canzoni (2).

L’introversione esasperata, poi, assumeva in lui contorni preoccupanti. Brian Cullman:

Una notte stavo andando in auto con John e Beverly Martin e un chitarrista loro amico, Paul Wheeler, a un ristorante indiano. Superammo Nick che guidava la sua vecchia Chevy bianca e gli facemmo segno di seguirci. Era la prima volta che andavo in un ristorante indiano. (...) Restammo lì per ore a chiacchierare, a bere il vino portato da Paul, e soltanto quando ci alzammo per pagare mi accorsi che Nick era con noi e che in effetti era stato lì con noi per tutta la cena”.

 

Uscito l’album, convinto da Boyd e dagli amici più vicini, Drake interviene al primo vero concerto pubblico della sua vita.

Con John e Beverly Martin, alla Queen Elizabeth Hall di Londra, Drake suona le sue canzoni suscitando tiepidi consensi.

La prima volta che vidi Nick fu in occasione del suo concerto alla Queen Elizabeth Hall, quando arrivò con la sua chitarra e si sedette su uno sgabello. Guardò verso il pubblico e si mise a cantare una serie di canzoni soffocate, intervallate dai ringraziamenti mormorati per gli sporadici applausi della gente che per la verità non sapeva chi diavolo fosse, e non gliene fregava molto, comunque, di sentirlo cantare. Al termine della sua canzone – stava ancora finendo di suonare le ultime note con la chitarra – si alzò dando una breve occhiata, poi se ne andò incurvando le spalle come per proteggersi dall’imbarazzo di dover incontrare qualcuno” (David Sandison in Zig Zag).

Più o meno lo stesso accadde durante la successiva tournée di otto date nel nord Inghilterra, in compagnia dei Fairport Convention.

Da allora Nick si rifiuterà di cantare dal vivo.

Boyd gli diceva che probabilmente era soltanto questione di tempo, poi il successo e i soldi sarebbero venuti. Anche lui come gli altri – diceva – si sarebbe sbloccato.

Intanto Nick era uscito dal Fitzwilliam College quell’anno, quando gli mancavano pochi mesi per ottenere il diploma. Smise semplicemente, così, senza motivo.

Fu inizialmente il padre a interessarsi di lui, con una lunga lettera in cui gli consigliava di rimanere a Cambridge “per il suo bene”. “Mi rispose che non gliene fregava niente del suo bene!”.

Londra era il Mito. Era il fermento.

Arrivare lì, per lui, giovane provinciale vissuto a Cambridge, gli era sembrato come entrare in una “stanza delle meraviglie”, ruotando la testa a destra e sinistra per vedere e capire tutto subito.

Prima vive qualche mese a Notting Hill Gate, poi si trasferisce ad Hampstead Heath, proprio di fronte al parco più selvaggio della metropoli: lì c’è un po’ di Tanworth-in-Arden, anche un pezzetto di Cambridge. Ma la camera in cui vive è quasi senza mobili, fredda d’inverno e umida d’estate.

Lui non ha la forza di uscire quasi più. Di vedere qualcuno. Nessuno oltretutto sa dove vive – e lui se ne sta chiuso lì, semplicemente guardando il muro. A pensare a quello che prova di sé.

Ed è proprio lì che, incredibilmente, nascono le canzoni rilassate del successivo Bryter Layter, disco del ’70.

I testi continuano sulla scia del disco precedente, con la velata tristezza palpabile – anche se le melodie, compromessi jazzistici con il suo cantautorato “folk”, sembrano voler convincere del contrario.

L’impalcatura sonora che Boyd e Wood erigono (“È l’unico album perfetto della mia carriera” dirà Wood) sembra voler dire: “Nick è quello che dice di essere nei testi, ma non credetegli…”.

E c’è addirittura il gusto, così poco credibile, dell’autoironia in “Poor Boy” (Povero Ragazzo):

 

Oh, povero ragazzo

Così preoccupato per sé stesso

Così preoccupato della sua salute…”.

 

Ma le risposte restano quelle di sempre, alla fine di tutto, rassegnate e confuse, scopertamente insicure.

 

“…Posso anche diventare più vecchio

Nessuno sa come tutto diventa freddo

e nessuno vede come tremano le mie ginocchia.

A nessuno importa quanto sono ripide le mie scale

e nessuno sorride quando passo sulla loro scaletta”

(da “Poor Boy”)

 

I giochi che fai fanno dire alla gente

che tu sei solo o strano…”

(da “At the Chime of the City Clock”)

 

Ti senti come una rimanenza

di ciò che è passato…”

(da “Hazey Jane”, parte 1)

 

“’Poor Boy’ è una canzone che ho prodotto senza alcun incoraggiamento da parte sua, lui non la vedeva proprio così. Ma alla fine, dopo aver ascoltato i coristi neri, il piano jazz, ha detto “Ok, mi piace”. Tergiversava molto, in genere. Così dovevo proporgli molte soluzioni per essere sicuro di trovarne almeno una che gli piacesse: “No, no, così non va”, diceva, poi subito dopo “Oh sì! Va bene!”. Penso che dopo Bryter Later avesse deciso di registrare l’album successivo senza esserne molto sicuro. Non ho mai saputo veramente cosa pensasse dei due album che avevamo fatto insieme. Quando qualcosa non gli piaceva, comunque, io lo sentivo…” (Joe Boyd).

 

A differenza di quanto avevano sperato Boyd e Wood in quei giorni, l’album non ottenne il minimo riconoscimento pubblico.

Una nuova e più incalzante depressione si impadronì di Drake, nel suo piccolo appartamento di Hampstead. Il successo non era arrivato, la sicurezza economica restava nelle sue speranze giovanili.

Poi, subito dopo Bryter Later, ci fu un’altra concomitanza negativa: Boyd, deciso a ristabilirsi in America per impiegarsi alla Warner Bros., venderà la vecchia Witchseason Production all’Island di Chris Blackwell, aggravando così la condizione psicologica di Nick.

“Penso che sia stato un grosso colpo per Nick quando Joe Boyd se ne andò. Joe era tutto quello che Nick non era: brillante, aggressivo, pieno di successo circondato da donne bellissime. E si preoccupava di Nick – in un certo modo Nick era più affezionato a Joe che a chiunque altro” (Rodney Drake).

Anche se effettivamente le cose non erano cambiate molto dal punto di vista professionale (Drake avrebbe continuato a ricevere le sue solite 20 sterline settimanali e a essere seguito e apprezzato dai responsabili dell’Island), Nick sentiva questo abbandono molto difficile da sopportare.

Entròin un nuovo e più profondo periodo depressivo, al punto che gli stessi genitori cercarono di convincerlo ad andare da uno psichiatra.

I suoi genitori mi telefonarono a Los Angeles e mi dissero che avrebbero voluto far visitare Nick da uno psichiatra – ma lui non voleva andarci perché pensava che i suoi amici avrebbero perso la fiducia che avevano in lui. Siccome lui stesso aveva fatto il mio nome, loro mi chiesero di parlargli un po’ per convincerlo. Così lo feci”.

Nick aveva un modo tutto suo di rispondere al telefono – come se fosse stata la prima volta che lo usava e fosse sorpreso di sentire una voce venir fuori da lì. Parlammo per un po’, e lui mi disse di sentirsi molto infelice; così gli consigliai di consultare uno psichiatra. Non c’era niente di male in questo, probabilmente sarebbe riuscito ad aiutarlo” (Joe Boyd).

Nick andò da un dottore che gli prescrisse degli psicofarmaci, cosa che certamente incrementò il suo opprimente disagio psicologico.

Sophia Ryde, un’amica di Londra: “Veniva nel mio appartamento e parlavamo finché lui diceva a un certo punto: ‘Ti spiace se vado in cucina a prendere le mie pillole? Mi spiace molto”.

Gli psicofarmaci attenuano il tormento ma non lo risolvono.

Ospitato qualche settimana nell’appartamento di Sophia, Nick se ne stava per interi pomeriggi seduto su una sedia a fissare la finestra del soggiorno o a guardare le sue lunghe scarpe.

L’amica, tornando a casa dal lavoro, la sera, lo trovava spesso lì, al buio, seduto su quella stessa sedia dove l’aveva lasciato molte ore prima.

 

Parentesi tonda: conseguenze di una rinuncia.

A questo punto Drake ha già rinunciato alla prerogativa costitutiva del suo essere “folk”: il contatto con il pubblico.

Perché se è vero, come scrive Simon Frith (cit.), che “la cultura folk si origina direttamente e spontaneamente dall’esperienza collettiva del lavoro”, e che “non c’è distinzione fra l’artista folk e il suo pubblico, tra produzione e consumo”, Drake è artista “folk” incompiuto.

Nick era stato in una scuola pubblica e la sua fonte di ispirazione è stata soprattutto Noel Coward. Del resto, anche sua madre scriveva canzoni dello stesso genere. In seguito ha amato anche il blues, senza comunque rinunciare alle sue radici, a quell’attitudine un po’ distante, senza emozioni, fragile. Questo interesse per il blues e la sua stessa genialità hanno determinato la sua musica” (Joe Boyd).

La sua espressione diventa “rock” nelle modalità comunicative (nel significato cioè che si rivolge a una cultura “di massa” e non ha una cultura “popolare” pur restando “folk” nello spirito e nei contenuti.

Ma il sistema di produzione-distribuzione di questi contenuti presuppone ovviamente un suo dover essere “artista rock” che non è realizzabile, un carattere di personaggio che doveva esporsi per ricavare i benefici della sua arte espressiva (poiché, secondo Rolf Ulrich Kaiser, “i dischi rientrano nella categoria dei beni voluttuari; per venderli, l’industria crea nuove esigenze, conquista una nuova clientela suggestionandola a credere che quello che le viene offerto in vendita è la novità, il “messaggio rivoluzionario” – in “Guida alla musica pop”, Mondatori 1971).

Nick Drake non è quindi ‘costituzionalmente’ un artista “rock”, né – per le modalità produttive della sua arte – un artista “folk”, anche se, suo malgrado, viene a trovarsi nell’illusione (tradita fin dall’inizio) di poter far combaciare le due diverse realtà.

Di qui, come conseguenza dell’ambiguità di fondo che regola la vita artistica di Drake, anche le ragioni dell’evidente “intrattabilità” critica del personaggio, tanto adopera del pubblico che del giornalismo specializzato.

Verso il maggio del ’71, dopo Hampstead e Sophia, Nick decide di ritornarsene nelle casa dei genitori, a Tanworth-in-Arden, facendo solo ogni tanto qualche breve capatina dai suoi pochi amici, soprattutto da John e Sheila Wood.

Drake è stremato fisicamente e mentalmente, senza difese.

I genitori, gli amici, forse i responsabili della casa discografica, cominciano solo adesso a rendersi conto che Nick ha seri problemi con la propria esistenza.

Lui non è molto cambiato, in effetti, da quando ha lasciato Cambridge. È la considerazione che gli altri hanno di lui ad essere mutata: prima lui era semplicemente “un caro ragazzo”, forse un po’ troppo introverso e taciturno; adesso è un uomo con molti problemi.

Nick dall’interno del suo nuovo guscio: “Non posso fare l’amore con qualcuno, tutte le mie difese se ne sono andate, i miei nervi sono allo scoperto”.

“Era molto solo, cominciò ad allontanarsi sempre più finché scomparve completamente”, dice oggi Paul Wheeler.

A Tanworth-in-Arden trascorre le giornate vagando per la campagna, cercandosi un posto all’ombra per star lì fino a sera e trascorrere il suo tempo (3).

Spesso la madre è costretta a cercarlo, telefonando agli amici. Ma Nick, anche quando ritorna, sta fuggendo da solo, completamente indifeso.

 

Chris Blackwell, che aveva sempre apprezzato il lavoro di Drake e pressava il cantante affinché si decidesse a comporre un nuovo disco, era riuscito a rintracciarlo e a riportarlo a Londra.

Nell’autunno del ’71, trovato un appartamentino in Muswell Hill, Nick contattò John Wood con l’idea di preparare nuove canzoni.

Nei soliti Sound Techniques Studios di Chelsea, Drake registrò le sue canzoni in due session soltanto, e alla fine Pink Moon fu pronto per essere pubblicato.

Wood – che aveva prodotto e missato il lavoro – ascoltò incredulo le nuove composizioni di Nick, chiedendogli in quale modo avrebbe voluto arrangiare la base di chitarra acustica e voce che aveva già registrato.

Non voglio arrangiarle, non voglio fronzoli” rispose categorico: la pesantezza barocca dell’amico Kirby che aveva compromesso l’immediatezza di Five Leaves Left non l’aveva soddisfatto, anzi.

Se era legittimo che queste canzoni acustiche rimanessero così come le aveva suonate lui – pietre luminose e grezze – era meno comprensibile per l’amico ingegnere perché l’album, una volta missato, fosse risultato così breve.

Non voleva aggiungere nessun’altra canzone, non aveva più materiale, e pensava quindi che non ce ne fosse bisogno. Aveva ragione – se qualcosa raggiunge una tale intensità non si può realmente misurarla in minuti…” (John Wood).

L’impresa di Drake aveva effettivamente dello stupefacente, considerati i tempi di realizzazione e la situazione psicologica in cui egli era stato costretto a registrare le canzoni.

Nella sua scarsezza inquietate, nella disperazione rassegnata che emana fin dal primo solco, Pink Moon è sicuramente il più completo dei tre album registrati, il solo a sintetizzare con sorprendente lucidità tutta la confusione, l’insicurezza, le paure vissute da Drake in quei giorni.

Le parole cantate diventano qui, probabilmente in una delle rare occasioni offerteci dal medium, completamente nude e trasparenti, senza alcun doppio senso, senza la minima autoindulgenza.

 

Sappiate che vi amo

Sappiate che me ne frego

Sappiate che vi vedo

Sappiate che non sono lì”

(da “Know”, 1971)

 

La trasparenza di Pink Moon è totale. Le ombre sono venute in superficie. Già si possono vedere le rughe della mente di Drake. I testi sono più corti del solito, ripetuti, incisivi. La chitarra non accompagna soltanto, riempie il bicchiere sonoro senza lasciarlo traboccare. Non c’è più nulla di superfluo: la sofferenza concreta è raggomitolata nella voce orgogliosa. Voce disillusa. Così la tecnica chitarristica, anche se sorprendente e originale, non è cosa rilevante quando sulle note galleggiano le emozioni (4).

Wood consiglierà a Nick di consegnare personalmente il nastro all’Island, spiegando semplicemente che quello era l’album che aveva voluto registrare, anche se si presentava diverso dai precedenti.

Arrivato negli uffici della casa discografica, di fronte alla segretaria, Drake non riesce a dire una sola parola di presentazione del suo nuovo disco. Appoggia il pacchetto con il nastro lì, sulla scrivania di lei che lo guarda con comprensibile perplessità.

Quando, qualche settimana dopo, qualcuno si preoccuperà di aprire il pacchetto e di ascoltarne il contenuto, si accorgerà del nuovo album di Nick Drake riconoscendone la voce…

Intanto, proprio in concomitanza con l’uscita del disco, il primo febbraio 1972 Nick torna per un po’ a casa dei suoi.

Ci saranno cinque settimane in aprile e maggio in cui il cantautore accetterà spontaneamente di essere ricoverato in una clinica psichiatrica, probabilmente con la speranza di ‘uscirne fuori’ recuperando la serenità perduta.

Non si hanno miglioramenti, comunque, e la trasparenza del suo caos interiore rimane limpida, brillante, la dissociazione non ancora ricomposta.

Spesso Nick va in auto nel Suffolk, da John e Sheila Wood, che lo costringono a giocare a scacchi per distrarlo un po’. Altre volte, proprio sulla strada per il Suffolk, Nick gira l’auto per ritornarsene a casa.

Una sera Sheila gli chiederà: “Se sei così infelice, Nick, perché non ti sei ancora suicidato?”.

È la prima volta che qualcuno gli parla apertamente del suicidio.

Lui risponde, come per scusarsi: “È un gesto troppo vile, da codardi… Eppoi non avrei il coraggio di farlo…”.

La situazione precipita durante il 1973. Drake se ne sta nella casa dei genitori senza far nulla, vagando solitario per la campagna circostante.

Solo Wood assicura di essere riuscito a vederlo con una certa frequenza nella sua casa del Suffolk, in visita alla famiglia.

Era abbastanza conscio dell’immagine che dava nelle sue canzoni. Non era un maniaco depressivo che suonava la chitarra. Era un songwriter in tutti i sensi” (John Martin)

 

Nel 1974 i mesi scivolarono veloci fino all’improvvisa morte di Nick (24 novembre).

In febbraio Joe Boyd era tornato a Londra per una breve visita d’affari, e aveva trovato il tempo di incontrare Drake per accertarsi delle sue condizioni di salute.

Nick gli aveva amaramente confessato di non riuscire più a comporre materiale per un nuovo album, e Boyd era rimasto impressionato dalla sua rassegnazione al punto da dirgli che stava sprecando il suo talento, che doveva smetterla di angosciarsi e che sarebbe stato meglio che riprendesse a lavorare.

Ancora una volta Boyd con il suo ascendente aveva spronato Nick, ed era riuscito a invogliarlo a cercarsi un’occupazione.

Nick, allora, prima tenta di arruolarsi nell’esercito, ma non supera il colloquio. Poi lavora per un paio di settimane in una ditta specializzata di materiali elettrici: lo mandano a Londra, e deve vivere in un albergo programmando la sua vita da solo.

I genitori sono contenti perché la cosa pare funzionare. Ma non dura. Le sue risorse psicologiche si esauriscono presto.

Wood lo riporta alla musica invogliandolo a suonare ancora, e Nick riesce a preparare quattro nuove canzoni con l’idea di registrarle.

In luglio, a una nuova visita di Boyd dall’America, Drake è pronto a entrare in studio. Ancora lui con la sua chitarra e nient’altro.

Ma “Nick non riusciva a cantare e suonare contemporaneamente”, ricorda il produttore, per cui furono costretti a fargli registrare prima la chitarra e in seguito la voce.

Le quattro canzoni registrate – le ultime canzoni di Nick – rispecchiano ancora una volta il gusto unico della sua musica, anche se qualcosa di impercettibile ne ha modificato la voce – ora smarrita, ora abulica, sempre tesa.

John Wood ricorda di aver detto a Nick durante le session: “Mi pare che tu abbia qualche problema coi testi!”. E lui: “Si… non riesco a pensare alle parole, non provo più alcuna emozione, non voglio né ridere né piangere. Sono spento, come morto dentro…”.

Le canzoni restano quattro. Tra queste, “Black Eyed Dog” è un’opprimente invocazione alla Morte, un cane dagli occhi neri che bussa alla sua porta, che conosce il suo nome.

Sto diventando vecchio e voglio tornarmene a casa”, ripete più volte Drake nella canzone – e qualcosa pare irrimediabilmente spezzato, la dolcezza e la calma rassegnata non esistono più. È rimasta solo la paura.

Boyd dovette ripartire nuovamente per Los Angeles, con la promessa di ritornare in autunno per concludere con Drake il quarto disco appena cominciato.

La promessa non verrà mantenuta; Nick verrà trovato morto dalla madre, in novembre, per una dose eccessiva di sedativo.

In un certo modo mi sentivo piuttosto frustrato, perché se da un lato ero in grado di aiutarlo e consigliarlo come musicista, dall’altro non ero mai effettivamente in grado di farlo come uomo. Non credo di avergli offerto, umanamente e affettivamente, le risposte di cui aveva bisogno” (Joe Boyd).

Nonostante queste parole, nonostante lo sbigottimento di tutti coloro che l’avevano conosciuto, negli ultimi tempi Nick sembrava essersi ripreso.

Dopo la session con Wood e Boyd e le quattro nuove canzoni che non lo avevano interamente soddisfatto, Nick era andato a Stratford-on-Avon da alcuni parenti e, successivamente, a Parigi.

Viveva in un barcone attraccato sulla Senna con alcuni amici, ed era incredibilmente felice. Aveva deciso di restare lì per un po’, sulla Senna, e di riprendere a studiare il francese che aveva abbandonato alcuni anni prima dopo il viaggio ad Aix-en-Provence. Si convinse, anche, che la carriera di musicista non lo interessava più, e che avrebbe potuto comporre qualcosa per altri cantanti (5).

Poi, d’un tratto, il ritorno in Inghilterra. La stanza di Tanworth-in-Arden, la nuda campagna autunnale.

Poi, ancora, un tubetto di Tryptizol in pastiglie e l’accidentale overdose che alimenterà, come sempre, l’idea del suicidio.

“Avevamo avuto tanta cura nel controllare ogni pastiglia e ogni aspirina, ma non avevamo pensato alle medicine che gli aveva prescritto il medico”, dice la madre.

La stanza al piano di sopra dove Molly Drake è salita alle nove di mattina con la colazione per il figlio si presenta così: lo stereo acceso con i Brandeburghesi di Bach a girare lenti sul piatto; alcuni libri iniziati sulcomodino, e il tubetto di Tryptizol per terra, mezzo vuoto. Sul letto semi disfatto il corpo di Nick senza vita dalle sei del mattino.

La perizia medica scriverà sul verbale “suicidio”, archiviando freddamente il caso e lasciando solo il dolore dell’incredulità.

Perché Drake non ha scritto biglietti o diari che potessero spiegare il suo gesto: “Pensavo che avesse voluto dirmi qualcosa”, dice ancora la madre a proposito de Il Mito di Sisifo che Nick le aveva regalato tornando da Parigi.

Ma il saggio di Camus, condannando il suicidio, ha esaltato il valore di quella stessa vita che anche Nick Drake aveva cercato di amare.

 

Note:

  1. Ultimo momento: la morte è inserita nei tarocchi, scopertamente. Un tubetto di Tryptizol in questo senso non c’entra: Nick Drake era già morto prima” (Al Aprile e Luca Mayer in “La musica rock-progressiva europea”, Gammalibri 1980);

  2. In effetti anche le copertine dei tre dischi appesantiscono l’immagine del musicista solitario, suggerendo il suo status di immobilità psicologica e sociale: la gente, le cose, le auto intorno a lui corrono veloci; lui è fermo, completamente immobile;

  3. In questo periodo l’amico Keith Morris scatterà molte foto di Nick nella campagna intorno al paese, testimoniando indirettamente la sua situazione critica a livello psicologico;

  4. Lascio, a questo proposito, la parola a un vero competente: “Ci sono chitarristi che producono lavori strumentali su cui si potrebbero scrivere pagine e pagine parlando di tecnica, passaggi, accordi e così via, e che pure mancano dell’essenziale, della Musica, di quell’entità che invece a volte appartiene proprio a quelli che sulla carta sembrano meno indicati: Nick Drake e la sua musica appartengono a questa seconda categoria… (…) L’approccio strumentale di Drake era assolutamente informale e istintivo, con una tecnica fingerstyle a tre o quattro dita e l’uso sia dei bassi alternati che di arpeggi meno ritmici e più lineari, alternati a semplici accompagnamenti a corde piene. Alcune sue introduzioni a brani splendidi quali Road o Which Will sono un capolavoro di equilibrio spontaneo e assoluta bellezza musicale, ed è stupefacente l’assoluta coesione tra l’accompagnamento strumentale e le caratteristiche melodiche specifiche di ogni brano (…)” (Maurizio Angeletti, chitarrista, in “Fare Musica” del giugno 1984);

  5. Ai tempi dell’uscita di Five Leaves Left la cantante francese Francoise Hardy aveva contattato l’Island ed espresso il desiderio di registrare un disco di canzoni composte appositamente per lei da Drake. Il progetto non venne mai realizzato per le preoccupazioni pressanti del cantautore già impegnato nella stesura del suo successivo Bryter Later.

 

Fonti consultate:

Nick Drake” di Connor McKnight, in “Zig Zag” n. 42 del 1974;

The Final Retreat” di David Sandison, in “Zig Zag” n. 49 del 1974;

Nick Drake” di Rob Kelly, in “Déjà vu” n. 3 del 1977;

A talent untold. Nick Drake” di Linda Hatt, in “Deja Vu” n. 6 del 1978;

Nick Drake” di Steve Burgess, in “Dark Star” n. 20 del 1979;

Nick Drake” di Arthur Lubow, in “Fruit Tree. The complete recorded works” (Island 1979);

Rock & Folk” di Benoit Pinet, in “Nine Teen” n. 19 del 1986.

 

 

LA NOTTE È ANCHE UN SOLE

La notte è anche un sole”

(Zarathustra)

Ancora una volta è la storiografia rock ad essere in difetto. Troppo facile e semplicistico far coincidere la morte di Nick Drake con gli “indizi” che sparse qua e là durante la sua vita. Troppo sbrigative e consolatorie le conclusioni mitizzanti e imbalsamatorie che hanno fatto di lui l’ennesima vittima della società affogata nella sua stessa poesia.

Può servire, comunque, un approfondimento della questione de Il mito di Sisifo di Camus (1) a guardare sotto una nuova luce il personaggio: Molly Drake, la madre, ha cercato spiegazioni plausibili nel libro senza riuscire a trovarle.

Eppure Camus, iniziando il suo saggio, aveva chiaramente posto la questione alimentando il sospetto di plagio del musicista: “Vi è solamente un problema filosofico veramente serio: quello del suicidio. Giudicare se la vita valga o non valga la pena di essere vissuta è rispondere al quesito fondamentale della filosofia. Il resto – se il mondo abbia tre dimensioni o se lo spirito abbia nove e dodici categorie – viene dopo. Questi sono i giochi: prima bisogna rispondere...”.

La chiara risposta, la risposta che assumerà lo stesso Drake, è che la salvezza e la felicità dipendono unicamente dall’accettazione cosciente dell’Assurdo. Dall’equilibrio tra le nostre aspirazioni di immortalità e la realtà di fatto.

La vita è l’Assurdo. Le nostre azioni, i nostri pensieri, i nostri amori, le nostre speranze, sono l’Assurdo.

Per Camus, l’unica possibilità di salvezza è quella di esserne coscienti, capire che tutti i nostri sforzi concreti per raggiungere la felicità in una prospettiva senza Dio sono assurdi.

Che spazio potrà avere, quindi, in una simile dialettica umana il suicidio?

Si può credere che il suicidio sia la rivolta, ma a torto, poiché questo non rappresenta il logico sbocco di quella ma è, anzi, esattamente il suoi contrario, a causa del consenso che presuppone. Il suicidio è l’accettazione del proprio limite”.

 

Nick Drake doveva aver letto anche queste parole, e certamente le aveva comprese.

Il suicidio non è filosoficamente e umanamente ammissibile per Camus perché il sopprimere questa vita – l’unica che l’uomo possiede – equivale a un affronto fatto a se stessi, alla propria natura. Un’atroce offesa alla vita. L’”uomo in rivolta” di Camus è Sisifo, dunque, metafora mitologica del destino umano.

La sua disperata rassegnazione cosciente nello spingere sopra la montagna il macigno per rivederlo ogni volta rotolare in basso è l’equivalente dell’inquietante calma malinconica di Nick Drake.

A Camus, di Sisifo non interessava tanto l’atto della spinta, quanto i pensieri connessi al suo ennesimo ritorno a valle, dove lo attendeva ancora una volta il masso.

Vedo quell’uomo ridiscendere con passo pesante, ma uguale, verso il tormento del quale non conoscerà la fine. Quest’ora, che è come un respiro, e che ricorre con la stessa sicurezza della sua sciagura, quest’ora è quella della coscienza. In ciascun istante, durante il quale egli lascia la cima e si immerge a poco a poco nelle spelonche degli dèi, egli è superiore al proprio destino. E’ più forte del suo macigno. Se questo mito è tragico è perché il suo eroe è cosciente. In che consisterebbe, infatti, la pena se, ad ogni passo, fosse sostenuto dalla speranza di riuscire?”.

Anche Nick Drake, tornato da Parigi e lucidamente cosciente della sua vita, era pronto a ricominciare la salita: per questo non si è suicidato”. (2)

 

Note:

  1. L’edizione a cui si fa riferimento qui è quella pubblicata nel 1980 dall’editore Bompiani nella collana “Nuovo portico”;

  2. Camus conclude così il suo saggio: “Anche la lotta verso la cima basta a riempire il cuore di un uomo. Bisogna immaginare Sisifo felice”.

 

APPENDICE

Non è molto difficile oggi, nonostante siano già trascorsi anni dalla sua scomparsa, recuperare tutto il materiale registrato da Nick Drake, soprattutto dopo la pubblicazione, nel 1986, del cofanetto quadruplo Fruit Tree.

La discografia completa del cantautore inglese, quindi, è sforzo da poco per ogni collezionista che abbia deciso di possedere “tutto” il possibile di “tutti”: nel caso di Drake, comunque, egli si dovrà accontentare dei soli tre dischi ufficiali, in mancanza di quei 45giri, promo, bootleg e live tape che alimentano le libidini del tipico “vinildipendente”.

Quello che tutto sommato dispiace è che, paradossalmente, proprio coloro che si autodefiniscono orgogliosi “cultori” dell’arte musicale, ma poi non sono altro che feticisti dell’”edizione DOC” del disco, sarebbero capaci di svilire anche questa musica con le loro manie accumulatorie, ignorandone così l’intensità e la magia che essa emana di per sé.

Ma le monete antiche si lucidano per ammirarle, proprio come le automobili. I dischi no. Sono prodotti per essere consumati a forza di ascoltarli.

Anche quelli di Drake, seppure con uno sforzo maggiore in sensibilità.

 

Discografia di Nick Drake

  1. Five Leaves Left (Island ILPS 9105, 1 settembre 1969)

  2. Bryter Layter (Island ILPS 9134, 1 settembre 1970)

  3. Pink Moon (Island ILPS 9184, 1 febbraio 1972)

  4. Nick Drake (Island SMAS 9307, novembre 1972)

  5. Fruit Tree (Island MDPS 9100, settembre 1979)

  6. Heaven in a Wild Flower (Island ILPS 9826, ottobre 1985)

  7. Fruit Tree (Hannibal Records HNBX 5302, settembre 1986)

Note:

d) e f) sono antologie singole che raccolgono materiale già edito sui tre LP ufficiali: la prima venne pubblicata solo in America;

e) è un cofanetto contenente tutti e tre i dischi ufficiali del cantautore e i quattro pezzi mai pubblicati registrati nel 1974. Oltre ad aver ridisegnato le tre copertine, che rappresentano il volto di Nick in tre momenti-tipo della sua vita (serenità, felicità e angoscia) avallando le ipotesi di un suo progressivo deterioramento psicologico, l’Island ha inserito nel cofanetto un libretto biografico corredato da varie foto;

g) è la ristampa del cofanetto Fruit Tree del 1979, con l’aggiunta di un disco di canzoni inedite comprendente le quattro dell’ultima session del 1974 e dieci brani mai pubblicati del periodo 1967-1969: di questi, solo “Man in Shed”, “The Thoughts of Mary Jane”, “Riders on the Wheel” e “Fly” sono alternate take essendo già apparse in altra versione sugli album ufficiali. “Been smoking too long” e “Strange Meeting II” (con “Fly”) vennero registrate tra il ’67 e il ’68 nella casa di Tanworth-in-Arden, mentre “Time of No Reply” (suonata nell’agosto 1969 durante un “John Peel Programme”, “I was made to love magic”, “Joey”, “Clothes of Sand” e “Mayfair” in vari studi durante il 1968.

 

3. LE CANZONI

Nick Drake è un animale strano che vive in una tana ai margini del rock. Così, non è difficile stabilire il fallimento della sua opera in termini di puro consumismo-popolarità.

Drake resta infatti oggi più che mai un artista emarginato con pochissime chances di un suo recupero critico e di popolarità a posteriori.

La dimensione linguistico-espressiva delle sue canzoni offre a questo proposito più di una chiara indicazione, proprio perché Drake, sfuggendo dai luoghi comuni della sua generazione, alla trappola culturale dell’eroe “macho” che ne ha imbottito ben bene l’ideologia reazionaria del rock (1), respira in luoghi inusitati e periferici.

La sua impronta è originale e spontanea proprio perché in termini esistenziali egli non può comportarsi altrimenti: la disarmante semplicità che permea le sue canzoni risulta tanto sorprendente in quanto autentica e personale proprio perché esprime un “vissuto” reale al di là di ogni stereotipo e canone estetico di maniera.

E il “significante musica” è assunto, come complicante, a strumento di “catarsi” prima ancora che a mezzo espressivo. Drake è poco interessato, per intenderci, alla comunicazione in sé, alla ricerca di un contatto. Se rifiutò il pubblico, se si escluse inesorabilmente (e coraggiosamente) dalle strutture obbligatorie del music business, lo fece anzitutto per ricercare se stesso. Per esorcizzare le difficoltà e i disagi del suo esistere.

 

In termini tecnici, l’uso che Drake fa della metafora è scopertamente rivelatore e indicativo di questa inclinazione: tutte le maschere che calza per nascondere se stesso sono trasparenti al punto da lasciar scorgere il suo volto, ovunque. Persino i suoi pensieri più profondi. Per questo, se non è faticoso sforzo d’analisi quello di rinvenire il musicista nelle vesti del parassita di “Parasite”, è certo più interessante sospettare di trovarlo accucciato dietro le figure femminili spesso protagoniste dei suoi testi, proteso in un atto di autoidentificazione ermafrodita (su un piano certo più spiccatamente psicologico, comunque).

La confusa Jane di Bryter Layter e la Mary Jane di Five Leaves Left sono anche il confuso Nick Drake, quindi, così come la ragazza cui allude il testo di “Man in shed” è evidentemente lui stesso in un patetico tentativo di autoidentificazione bisessuale. Dalla baracca in cui Drake si trova (metafora della sua emarginazione esistenziale) egli chiama la ragazza (cioè se stesso) alla ricerca di comprensione, amore, approvazione di sé.

Così le domande di “Which Will”, schematicamente poste a un’ipotetica donna (o, comunque, a un “altro” da sé), in realtà finiscono per essere rivolte solo a sé stesso, in un’ottica comunque mai autoconsolatoria.

 

Vi sono tuttavia metafore meno complesse per le quali l’interpretazione è come guidata, indotta: il volare di “Fly” e la strada di “Way to blue” sono l’atto (il mezzo) per ottenere la liberazione dall’angoscia – “Place to be” il luogo in cui il musicista auspica nostalgicamente di ottenerla.

La dimensione temporale, componente fondamentale della poetica drakeana, è racchiusa drammaticamente nella maggior parte dei tesi, spesso con sentimenti diversi e contrastanti.

Dall’angoscia del tempo che scorre inesorabile spazzando la vita e cancellando i ricordi (“Day is done”, “Place to be”, “Saturday sun”...), al tempo come possibilità di fuga dalla realtà frustrante (“Three hours”) o, con inquietante predizione, la consapevolezza della gloria postuma legata alla morte in “Fruit Tree”...

Ma Drake è anche il poeta della rilassata malinconia bucolica, l’uomo che canta la natura con la sensibilità e l’ingenuità di un bambino incontaminato (“Northern Sky”, “From the Morning”, “Saturday Sun”) che fa di una “pietra in un barattolo” la sua felicità.

Una natura che, se ispiratrice di immagini e di sentimenti per cantautore, non può non apparire in contrasto con l’immagine negativa che Drake ha dell’uomo. “Pink Moon”, metafora dell’eternità della natura, mette a nudo chiaramente la dicotomia vissuta dal musicista soprattutto nel verso “nessuno di voi può arrivare così in alto”, che rende impliciti i limiti della natura umana rispetto ad essa. La natura osserverà l’uomo morire dall’alto della sua immortalità...

 

L’ultimo disco, quello che rappresenta il periodo più triste della vita di Drake, è summa dei sentimenti contrastanti del suo animo. Una sintesi di angoscia, tristezza, delusione e rassegnazione esistenziale.

Place to Know” (con evidente dose di schizofrenia), “Road”, “Things behind the Sun”, “Parasite” e – soprattutto – “Black Eyed Dog” – in cui l’ingenuità della metafora (cane dagli occhi neri=morte) è equilibrata dall’intensità drammatica del cantato -, dettano uno a uno i sentimenti contrastanti stabilendone un risultato confuso e indubbiamente inquietante.

Si ritrova comunque, qua e là, l’affiorare della coscienza nella disperazione del vivere: Drake sembra essersi tolto anche l’ultima delle maschere rinunciando in ogni modo a fuorviare l’ascoltatore. Per questo nei suoi testi, venati di una brillante semplicità espositiva, si troverà l’unico Drake possibile, il musicista ingenuo e coerente con se stesso che ha vissuto, nonostante i luoghi comuni di certa biografia deteriore, la sua vita fino in fondo amandola svisceratamente.

 

Note:

  1. Gary Herman, 1984 cit.

 

 

(Nota: a questo punto del volume, seguono tutti i testi delle canzoni tradotte tratte dai tre album ufficiali e dal disco di alternate take e inediti del cofanetto Fruit Tree edito nel 1986.

Traduzioni di Abby Barker, adattamento in italiano di Luca Ferrari)

 

 

INDICE

Prologo

  1. BREVE INTERMEZZO     Esercizi di necrologia spicciola

  1. LA VITA

Vita non romanzata di un’anima senza impronte

Parentesi tonda: conseguenze di una rinuncia

La notte è anche un sole

Appendice

  1. LE CANZONI

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ringraziamenti

Daniele Ghisoni, Max Rossi, Ada (Mimi) e Stefano Boccelli.