Il Consorzio Produttori Cremonesi di Fabio Turchetti: una risposta concreta alla retorica ammuffita della “Cremona città della musica”.

 

È una favola che i cremonesi si raccontano da sempre quella di “Cremona città della musica”. Alcuni dati sono oggettivi, è vero, e non si possono negare: a Cremona è nato e vissuto uno dei maggiori liutai di tutti i tempi, Antonio Stradivari (1644-1737), e tra il Cinque e il Settecento, in città, operavano alcune delle maggiori famiglie di costruttori di violini: gli Amati e i Guarneri, soprattutto, alcune delle cui opere sono visitabili (e ascoltabili) nella Sala dei violini di Palazzo comunale.

 

Per il resto, le ascendenze nobili nella musica si esauriscono nell’ascolto dei bellissimi madrigali di Claudio Monteverdi (Cremona, 1567-Venezia, 1643), autore tra l’altro dell’opera teatrale “Orfeo”, e nelle sparute composizioni di Amilcare Ponchielli (Cremona, 1834-Milano, 1886), la cui più conosciuta, l’unica ancora presente nel repertorio delle orchestre, è “La Gioconda”.

 

Qualcuno obietterà certo che Cremona ha dato i natali anche a Mina, considerata una delle maggiori (se non la maggiore) cantante melodica italiana... ma in fatto di musica le medaglie di Cremona si esauriscono qua.

 

Quanto al resto, d’accordo: da anni è attiva la facoltà di Musicologia, unica in Europa con Lione, che sembra avere più la vocazione di formare a professioni che con la musica poco hanno a che vedere e, dal 1978, è stato istituito il Museo della Civiltà Contadina che, disertato dai più, negli anni scorsi ha promosso alcune piccole iniziative di promozione delle musiche popolari (la più riuscita è stata la mostra fotografica “L’altro volino”, realizzata nell’ambito dell’omonimo Archivio Musicale istituito con la consulenza di Giuliano Grasso dei Baraban e Maurizio Padovan ex-Ciapa Rusa) (1).

Restano le numerose botteghe liutarie, che sembrano un corpo estraneo nel tessuto cittadino e una operosa casa editrice dedicata alla musica ‘colta’, dall’evidente vocazione elitaria. La Triennale degli Strumenti ad arco è certo evento merceologico di rilievo ma, come sì è detto per le botteghe, assolutamente alieno alla cultura materiale della città.

 

Tutto qui. La fondazione del Teatro Ponchielli, chiusa inopinatamente l’unica rassegna di un certo rilievo (il festival di musica jazz), satura la sua programmazione con la proposta di cantanti mainstream, delle multinazionali del disco, da Ligabue a De Gregori, da Carmen Consoli a Massimo Ranieri e Fiorella Mannoia.

Rimossa, come altrove d’altronde, la memoria delle musiche di tradizione, che pure nella nostra area ha avuto ed ha illustri e significativi esponenti: dalle sorelle Bettinelli di Ripalta Cremasca (2) al Gruppo Padano di Piadena (paese che si trova a quindici chilometri dalla città) e ai Giorni Cantati di Calvatone, tuttora in attività (3). Certamente meno noto Giuseppe Bodini (Grontardo (CR) 1821-Pescarolo (CR), 1889), violinista e didatta di musiche da ballo, attivo nella seconda metà dell’Ottocento (4) o i portatori della tradizione dell’area di Torre de’ Picenardi, oggetto di una notevole ricerca etnomusicologica dello scorso anno (5).

 

Solo recentemente, dopo anni di onorevole attività da musicista, Fabio Turchetti, cremonese DOC, ha deciso di fondare una casa discografica – il Consorzio Produttori Cremonesi – con l’intento di promuovere le ‘altre musiche’ che, a partire proprio dalla città, hanno l’ardire di offrirsi alle orecchie del mondo contrastando frontalmente la retorica di “Cremona città della musica” millantata in ogni dove il più delle volte a sproposito. Tra queste, ed era ora, un emozionante album dei Giorni Cantati di Calvatone che documenta, dopo un’antologia curata qualche anno fa dall’Istituto Ernesto De Martino (6), quello che potrebbe essere un ‘nuovo corso’ per lo storico quartetto.

 

Lavorando a Cremona, è stato facile incontrare Turchetti e approfondire con lui il senso di questa importante esperienza.

 

Note:

(1)

(2) cfr. la ricerca di Matteo Piloni “Le sorelle Bettinelli. , edita nel 2007 dal Centro studi Gremozzi di Crema;

(3) cfr. Luca Ferrari, “Folk Geneticamente Modificato” (Stampa Alternativa, Viterbo 2003) alle pagg. e

(4)

(5) “Torre de’Picenardi. Un laboratorio di etnomusicologia (2003-2004)”, a cura di Simona Facci e Nicola Scaldaferri (Nota Geos 2 DVD Book 611, Udine 2007);

(6)

 

 

 L’intervista.

 

Come ti è venuta l’idea del Consorzio?

Nel 2004 la rivista World Music Magazine ha allegato al numero di settembre il mio cd “Da Los Arcos a Compostela”. Fino ad allora avevo pubblicato 5 cd con 5 diversi editori (fra cui la Sony , con “Famiglia Turchetti” nel 1999). Ho capito che era giunto il momento di provare ad autogestirmi. Il cammino di Santiago, percorso interamente a piedi nel 2003, mi aveva spinto ad andare alla ricerca delle mie radici, anche musicali. Inoltre aver partecipato alla “Notte della Taranta” nell’estate del 2005 con i Khaossia mi aveva fatto toccare con mano come la scena folk altrove fosse ricchissima di proposte e di musicisti. Qui a Cremona non c’era nessuno che se ne interessasse: ho deciso di farlo io.

 

Che finalità ti sei prefissato?

L’idea di etichetta che volevo era appunto questa: qualcosa che fosse concentrato sulle tradizioni musicali cremonesi. Il problema era ed è appunto quello che non esiste una scena folk locale, una tradizione viva , ripresa e coltivata anche dai musicisti giovani. Fin da subito mi son reso conto che ci si doveva aprire al confronto con i tanti musicisti che vivono a Cremona ma che vengono da fuori, anche da paesi lontani. Con il loro contributo si potrebbe creare qualcosa di nuovo,mischiando i linguaggi e mettendo nuova linfa nelle nostre tradizioni. Sono queste le finalità in fondo: una sfida se vogliamo. La nostra è una città tranquilla, ideale per viverci, ma è troppo sonnolenta, veramente poco creativa.

 

Che accoglienza ha avuto l’etichetta in città?

A livello istituzionale buono: gli Assessorati alla Cultura hanno dimostrato disponibilità ed interesse. La scena musicale cittadina, già povera di suo, credo invece che abbia ignorato la cosa.

 

 E nel resto del Belpaese?

Ho avuto riscontri sempre positivi dalla stampa italiana e con i Khaossia abbiamo fatto tanti concerti e suonato a diversi festival (Appennino folk festival, Isola folk,ecc), ma ovviamente i riferimenti più importanti sono all’estero. Ho partecipato a varie edizioni sia del Womex che di Babel Med e quest’anno il CPC aveva pure lo stand a Marsiglia.

 

Quali sono, ad oggi le principali produzioni?

A parte i miei vari progetti ho prodotto solo due gruppi: i Giorni Cantati che fanno canti popolari delle nostre campagne e i Khaossia che fanno repertorio tradizionale salentino ma vivono tutti a Cremona.

 

Come selezioni gli artisti da promuovere?

La mancanza di giovani musicisti locali che si interessino al folk è una cosa ben triste(soprattutto se confrontata con altre realtà). Con alcuni musicisti di altri paesi (arabi, cubani,brasiliani,ecc) stiamo invece lavorando a nuovi progetti. Per la filosofia del CPC (che è una etichetta sostanzialmente “territoriale” ) Cremona deve comunque restare al centro del discorso, sia per il contesto in cui questi progetti si sviluppano, sia ad esempio nella riscoperta di repertori che sono ormai sconosciuti (penso ad esempio ai “Quaderni del Cambonino”, in cui sono contenuti molti pezzi di quel violinista G.Bodini che citavi prima e che un po’ alla volta stiamo risuonando tutti inserendoli nei vari concerti)

 

Quali i canali di promozione?

La promozione la facciamo con qualche pubblicità sulle riviste di settore o mandando i cd ai giornalisti e alle radio europee.

 

 E la diffusione?

Si può fare il download da Mondomix, che è il più grande portale mondiale di world music (è in tre lingue:inglese,francese e spagnolo) oppure acquistare il cd da Radici Music, da Felmay o da Jazzos. Ovvio che il cd comprato alla fine del concerto è sempre l’occasione migliore.

 

Nel catalogo hai pubblicato anche un nuovo lavoro dei Giorni Cantati di Calvatone, una raccolta di canti sociali bellissima, davvero emozionante, che credo avrebbe meritato un risalto maggiore, almeno a Cremona... Com’è nato il progetto?

Volevo collaborare con loro già molto tempo prima di fondare il CPC. Quando è nata l’etichetta è scattata l’occasione per proporre ad Enrico Tavoni qualcosa.

 

Quali i rapporti con la Lega di Cultura di Piadena, che è strettamente legata ai Giorni Cantati?

Lui mi ha invitato alla Lega di Cultura di Piadena a proporre il progetto ma quando sono stato lì,devo essere sincero, sono stato trattato con molta freddezza, quasi con ostilità. La ragione suppongo sia che io non sono uno politicamente impegnato, non sono “un compagno”. Sono contrario alla purezza del canto popolare che deve restare incontaminato e che per me rivela un atteggiamento di chiusura culturale. Parlavamo proprio due lingue diverse. Alla fine comunque il gruppo dei Giorni Cantati in autonomia dalla Lega di Cultura ha deciso di fare questo cd (da cui nessuno ha guadagnato un euro) e qualche volta facciamo anche dei concerti assieme.

 

Come concili l’attività di produttore e quella di compositore/musicista?

Sono principalmente un musicista che si autoproduce per poter lavorare liberamente senza scendere a troppi compromessi. In questo senso il CPC ha ben poche velleità commerciali in termini di fatturato, ma ambizioni culturali questo sì, e spera di poter essere un apripista a Cremona per un cambio di mentalità .Con i “Khaossia” e con i “Capricci Cremonesi” ad esempio ho cercato di dare un certo taglio alla produzione, non limitandomi a registrare brani folk tradizionali ma facendo anche un lavoro di ricerca su musicisti del passato ormai sconosciuti da riproporre in una veste attuale alla luce di tutte queste esperienze. Ignatio Jerusalem ( un musicista leccese del ‘700 poi emigrato in Messico che abbiamo citato in “De Migratione” suonando qualche sua aria) o Tarquinio Merula (un musicista cremonese del ‘500 emigrato in Polonia a cercar fortuna su la cui musica è imperniato il progetto dei Capricci ) sono esempi di rielaborazioni in cui folk, jazz e musica antica si mischiano per dare origine a nuove combinazioni.

 

Hai già in mente qualche nuovo progetto?

Nel 2007 ho messo in musica delle poesie di una poetessa svizzera di origine rom, del gruppo jenische, Mariella Mehr. La civilissima Svizzera in anni non lontani ha perpetrato un mezzo genocidio nascosto ai danni dei rom e Mariella Mehr ha fatto di questa denuncia il centro della sua poesia. Ha vinto molti premi letterari e sono orgoglioso di aver collaborato con lei. Abbiamo registrato un cd in diretta alla radio svizzera italiana durante il Festival di Chiasso e vorrei sviluppare ulteriormente questo progetto. Inoltre sto lavorando a un oratorio con i testi di Don Luisito Bianchi, un ex prete operaio di Vescovato che ho conosciuto personalmente . L’opera da cui è tratto si chiama “Simon Mago” ed è incentrato su un argomento un po’ spinoso, il rapporto fra la Chiesa e il Denaro.  Mi piacerebbe però vederlo realizzato in grande stile, con gli attori,i musicisti e persino i ballerini. Chissà.

 

 

Il catalogo del Consorzio Produttori Cremonesi

 

CPC 0105 Firenze 1985/Luca Flores suona la musica di Fabio Turchetti

CPC 0205 Fabio Turchetti/La via degli incontri

CPC 0305 Django’s clan / Swing swing swing

CPC 0405 Capricci Cremonesi/ suite per sestetto liberamente ispirata a Tarquinio Merula

CPC 0606 I Giorni Cantati/Va va varol

CPC 0706 Capricci Cremonesi/Live al Teatro Filo

CPC 0806 Khaossia/De Migratione

CPC 0907 Capricci Cremonesi/El Zach –dieci poesie in dialetto cremonese

CPC 1007 Fabio Turchetti / Stella Splendens suite

 

Info e contatti:

www.fabioturchetti.com

www.myspace/consorzio produttori cremonesi

https://www.consorzioproduttoricremonesi.it

 

 

FOLK IN ITALIA, VUOTO A PERDERE.

 

Se l’ultimo album di Riccardo Tesi e Banditaliana, “Crinali”, pubblicato agli inizi del 2006 da Felmay, ha venduto ad oggi solo 500 copie in Italia (2000 comunque all’estero, e nel giro di poche settimane), significa che nel nostro Paese lo stato delle musiche “folk”  – o come diavolo vogliamo denominarle – è prossimo al rigor mortis.
Non ci sono storie, insomma, e non è la prima volta che lo scriviamo: già nel 2003, in occasione della pubblicazione di “Folk geneticamente modificato” per l’editore Stampa Alternativa, l’avevamo sostenuto a chiare lettere, nella forse un po’ pedante elencazione dei problemi relativi al settore. Problemi, ci veniva fatto notare (Poggio in un’articolata e un po’ pretestuosamente polemica recensione apparsa su “Blow Up”), che non erano un’esclusiva del folk italiano, ma riguardavano tutta la musica in generale.
E’ possibile che le cose stessero in questi termini, che l’approccio settoriale della ricerca mi avesse indotto ad osservare con occhio “distorto” la condizione oggettiva delle musiche di tradizione; ma è un fatto, comunque, che gli elementi critici che condizionano la diffusione della musica in Italia incidano in proporzione maggiore sulle musiche di tradizione, da qualunque indicatore si osservi il fenomeno.

 

Mass-me(r)dia
Si guardi, a titolo d’esempio iniziale, ai mass-media dedicati al folk: pochi, quasi inesistenti. A fronte di una ventina di testate rock-pop-grunge-hip-hop ecc., l’unica rivista presente continuativamente nelle edicole è “World Music”, che oltretutto dichiara di occuparsi  delle “musiche del mondo” e non solo di folk italiano. “Folk Bulletin”, il mensile “storico” attivo dall’82, continua ad essere distribuito solo in abbonamento. “L’isola non trovata”, consacrata alla musica italiana tout court, solo in poche librerie specializzate.
Quasi inesistenti i programmi radio (resiste “La Sacca del Diavolo” di Giancarlo Nostrini su Radio Popolare, per quanto a diffusione regionale…), praticamente nulla l’attenzione delle televisioni (anche satellitari): unico evento significativo degli ultimi mesi, dopo la serie di puntate estive su RAI 2 (ad orario impossibile, naturalmente) dal taglio a dir poco discutibile (= pout pourri confusivo, superficiale e acritico), è stato la proposta del lungometraggio di Luca Pastore su “I dischi del Sole” (cfr. recensione nella sezione “Articoli & Recensioni” di questo sito) da parte del canale satellitare Planet.

L’effetto evidente è che mentre anche il telegiornale delle 20 del primo canale RAI (con milioni di italiani davanti allo schermo) dedica tre minuti all’ennesimo tour di Ligabue o alla cinquantesima uscita discografica di Mina, nessuno (nessuno!) si preoccupa di informare sull’ultima produzione davvero prestigiosa dei Calicanto o sulla prossima tournee in mezza Europa dello stesso Riccardo Tesi…
La quasi totale assenza di opportunità reali costringe gran parte dei gruppi/musicisti d’ambito folk ad un’autopromozione artigianale, dai tratti provinciali, limitata al sito internet e a qualche pubblicità sulle riviste specializzate. Il “passa parola” continua ad essere lo strumento più efficace, per quanto limitato.

Se a questo si aggiunge l’annosa questione dell’incontrollato finanziamento pubblico dell’editoria (oggetto anche recente di una dura polemica di Beppe Grillo sul suo benemerito blog),  si coglie ancor di più la pesante responsabilità dell’assenza di una precisa politica culturale nazionale sulla musica.

 

E legge sulla musica? Appunto…
Responsabilità gravi che trovano l’espressione più alta nell’assenza colpevole di una legge sulla musica. Agognata da decenni, annunciata da tutti i governi del Dopoguerra, manca ancora una legge-quadro in Italia che regolamenti e promuova la diffusione della musica nel Paese. Già l’osteggiata “Riforma Moratti” aveva  relegato la musica allo status di “facoltativa” nell’ordinamento scolastico, in una contingenza storica di carenza di risorse pubbliche che ha visto in questi anni sciogliere bande di paese, ridurre organici di filarmoniche, costringere teatri a chiudere bilanci in rosso…
Il nuovo governo ha introdotto nel programma solo un timido accenno alla “volontà di finanziarla”, senza per altro precisare con quali azioni politiche e legislative…
Ancora una volta, come già ai tempi degli ultimi governi di centrosinistra, staremo a vedere… anche se gli addetti ai lavori non si aspettano comunque granché.

 

Sistema discotragico
Costi ridotti di registrazione e stampaggio del supporto e facile disponibilità a basso costo di tecnologia sofisticata hanno consentito in questi anni una maggiore e più diffusa capacità di produzione sonora. Non c’è gruppo folk, anche alle prime armi, che non abbia prodotto un CD, anche semplicemente a titolo dimostrativo (il vecchio “demotape”): è di tutta evidenza che, dopo quello della promozione, l’anello mancante della catena è quello della distribuzione: dove è possibile trovare questi dischi?
La riduzione drastica della vendita al dettaglio nel negozio tradizionale (chiudono i negozi “storici” e proliferano gli ipermercati, in cui il settore musicale propone quasi esclusivamente generi e autori mainstream…), l’incremento esponenziale della vendita “on line” (amazon, e-bay…), il fenomeno dirompente del “peer-to-peer” e dell’I-pod music hanno ulteriormente ristretto anche in Italia l’opportunità di trovare materialmente i dischi “folk” pubblicati. L’unica opportunità reale, spesso, è il contatto diretto con il gruppo (via Internet o ai concerti), l’acquista dai pochi distributori ancora attivi (Felmay, Compagnia Nuove Indie…), i rari portali di vendita (Cupa Cupa…).
E se nel mondo (più evoluto) da tempo esistono contesti imprenditoriali per implementare il settore (come ad esempio il Womad…), in Italia non esiste granché di significativo, a meno di considerare il M.E.I. un’esperienza davvero significativa in termine di “etichette indipendenti” (ma indipendenti da cosa?).

 

Spazi per fare musica
Continua ad essere difficile trovare spazi adeguati per fare musica in Italia: difficile rompere la cortina di diffidenza del sistema teatrale tradizionale, ancora appannaggio di una cultura museale (che però le Mannoia o i Fossati li invita a suonare, e a suon di migliaia di euro…); i promoter e le agenzie professionali scarseggiano e i balzelli “storici” (ENPALS, SIAE…) stritolano la musica più di quanto non facciano le compagnie petrolifere con gli automobilisti.
Negli ultimi tempi si assiste inoltre a una drastica riduzione delle risorse dedicate, che ha comportato il ridimensionamento se non addirittura la fine di esperienze significative (si veda su tutti il programma di questa estate di Folkest, uno dei maggiori festival di folk in Europa…): è diffuso il timore di non fare pubblico, di non vendere biglietti, a discapito dell’offerta artistica che imporrebbe di rischiare. I gruppi del circuito del folk continuano a suonare grazie alle (residue) disponibilità delle amministrazioni locali, anche perché i privati non sembrano credere granché nelle potenzialità commerciali di queste musiche.

 

Ma la musica e i musicisti folk?
Dalle reazioni all’uscita di “Folk Geneticamente Modificato” credo di aver comunque capito alcune cose che qui riassumo:
1. per quanto il “settore” sia prossimo al rigor mortis, qualcuno detiene al suo interno un certo “potere” ed ha comunque interesse che la situazione resti tale (per prestigio personale, narcisismo…): dibattiti, convegni, seminari, archivi, ricerche – soprattutto d’ambito accademico – continuano a “ingrassare” pochi a discapito di molti. La “manovalanza folk” è funzionale al mantenimento dei piccoli privilegi di chi, proprio in nome del folk, continua ad avere il suo tornaconto ;
2. il presunto “movimento folk” non solo non esiste (come la storia del “movimentismo” ha spesso dimostrato), ma sull’ideale di “movimento” qualcuno continua a fare le sue piccole fortune esercitando un controllo basato sull’attribuzione arbitraria di “patenti di legittimità” (fedeli all’antico motto “o con me o contro di me”): sono nate piccole “cordate” economiche, eventi in cui a partecipare continuano ad essere gli stessi nomi da anni, nella misera spartizione delle briciole di una torta sfornata già piccola…
3. il livello di autocritica tra gli “addetti ai lavori” è troppo basso per consentire una vera “rivoluzione” che sovverta questo apparente ordine costituito. In molti musicisti troppo spesso l’autocompiacimento di sentirsi e atteggiarsi da “musicisti tradizionali” porta a perdere il senso della propria esperienza, del proprio “ruolo” nell’oggi. Lo sdegnato “purismo” di taluni (musicisti, critici…), esercitato sulla base di una solo presunta (e illuministica) dicotomia autentico-non autentico, esclude ed emargina le esperienze più avanzate, limitando lo straordinario potenziale di queste musiche;
4. lo scarsa attitudine a sperimentare nuove forme espressive determina la facile  noiosa ripetizione del passato pregiudicando l’interesse in un pubblico “altro”, tangente, desideroso si suoni “diversi”;
5. la scelta di forme e repertori “folk” (o para folk) continua ad essere frutto di un approccio quasi solo musicale, solo raramente “politico”, eludendo la questione di fondo che tutti i repertori folk (sia di riproposta che di nuova composizione) sono “in qualche modo” politici per definizione, esprimendo una dimensione culturale, sociale, economica, politica, psicologica di subalternità al potere. L’assenza del “politico” in gran parte dei progetti artistici del folk è davvero inquietante, probabile causa e non effetto del suo attuale destino di marginalità.

 

Destino segnato
Il destino di queste musiche è dunque facilmente prevedibile: sopravvivranno quelle esperienze attigue alle forme della “popular music” (rock, pop…), perché è lì che ci sono risorse e si muovono interessi veri.
Quanto al folk che si presume “autentico” (nel libro lo definivo “folk roots”), verrà progressivamente svuotato anche della sua componente “culturale” di testimonianza storica quando repertori e “portatori” si saranno esauriti e le amministrazioni locali rivolgeranno la loro attenzione altrove (già lo fanno, d’altronde…).

La stagione del folk revival sembra quindi destinata a chiudersi definitivamente a meno di imprevedibili interventi normativi a tutela del patrimonio e del settore.
Resta comunque aperto il profondo scarto culturale fra il nostro Paese e il resto dei paesi sviluppati rispetto alla riappropriazione di una storia e di una cultura, appunto, che ha caratterizzato le trasformazioni sociali ed economiche del secolo scorso.
L’assenza di un reale e deliberato investimento nella formazione scolastica e post-scolastica (conoscenza della storia e delle forme del folk, apprendimento di uno strumento, possibilità di suonare…) resta in ogni caso il limite più grande di un Paese che affida le rivendicazioni localistiche al solo federalismo “in salsa padana” (definizione di Francesco Merlo, giornalista de “La Repubblica”).

(1 luglio 2006 - dal defunto sito LaDeaBicefala)

 

PLIXID, UNA MINIERA DI SUONI IN RETE ANTIDOTO ALLA RETORICA SANREMESE.

Parafrasando quel singolo dei Buggles che si ballava in discoteca - “Video killed the radio star” (Il video ha ucciso la star della radio), si potrebbe dire che Internet ha dato il colpo di grazia alla discografia tradizionale. E anche se proprio in questi giorni la De Agostini tenta di rilanciare in edicola un'attraente collezione di 50 vinili a 180 gr di classici della Deutsche Grammophon (prima uscita la Quinta di Beethoven diretta da von Karajan), c'è poco da fare: la discografia cade a pezzi e in gran parte lo deve allo 'scarico' selvaggio del Web.

Da tempo ormai sono proliferati siti, blog, community di file audio sharing (condivisione di musica) in cui dischi e brani sono scaricabili gratuitamente con il proverbiale 'semplice click'.

Certo, non è la stessa cosa che gingillarsi con un vinile tra le mani o con un luccicante CD in formato digipack: copertina, note, testi, l'idea complessiva di “opera”, un 'discorso', insomma... ma la compressione del tempo di questa contemporaneità fatta di fretta (“Che fine ha fatto il futuro?”, titolava uno degli ultimi libri dell'etnologo Marc Augé), suggerisce che anche in fatto di musica, un MP3 è più economico e pratico di un suono 'reificato' (definizione di Eisenberg) su supporto. Lo si può leggere direttamente col computer o, se si è più aggiornati, lo si può ascoltare a spasso con I-Pad, I-Pod o cellulare evitando quelle ridondanti e un po' vezzose ritualità polverose del passato.

Qualcuno obietterà senz'altro che la qualità del suono compresso in formato MP3 o MP4 non è la stessa cosa del suono analogico del vinile o di quello digitale dell'ultima generazione del CD: vero, non ci piove. Ma queste sono fecezie da audiofili che lasciano il tempo che trovano in un universo di suoni pervasivi, continui, spesso indistinti che impongono un ascolto quasi esclusivamente distratto e superficiale.

Nato nel marzo 2012, tra i giacimenti gratuiti di dischi disponibili in Rete, Plixid (www.plixid.com) è luogo delle meraviglie discografiche: una community di appassionati dall'accesso diretto, senza password o codici, anonimo, che consente di caricare (upload) e scaricare (download) musica di tutti i tipi e di tutte le epoche: dall'ultimo album di Zucchero, ad esempio, a classici imperdibili di jazz; da rarità del blues e del gospel (molti titoli della straordinaria, bellissima serie edita dalla Document Records) alle uscite più recenti di reggae, dubstep, hip-hop o a titoli oscuri della psichedelia inglese e americana, alcuni addirittura caricati direttamente dall'edizione originale in vinile (l'unica esistente). Qualche giorno fa, ad esempio, ho scaricato una favolosa raccolta di “Dance of Reinassance. European music of XIV-XVI century” registrata nel 2007 da musicisti russi con brani di John Dowland, Pierre Attaignant e Diego Ortiz...

Su Plixid ogni album è presentato con copertina originale, scaletta dei brani, genere musicale, formato, e c'è la possibilità di ascoltare alcuni estratti per farsi un'idea e decidere se scaricare o no.

Un magazzino virtuale di suoni straripante e disordinato in cui perdersi e lasciarsi sorprendere dalla scoperta casuale, l'occasione rara di costruirsi nel tempo la propria Discoteca Ideale.

In attesa che la discografia internazionale adotti efficaci contromosse e tenti di imbavagliare la Rete, Plixid è un piccolo antidoto alla settimana di canzoncine inutili che da Sanremo ammorberanno l'aria già irrespirabile di questi giorni pre-elettorali...

 

("Il Piccolo", 13 febbraio 2013)

 

IL SUONO DEL SILENZIO: PARADOSSI DEL VIVERE QUOTIDIANO.

Clap, clap, clap. Cremona dei primati. Allora, vediamo: “Cremona città dell'arte”, “Cremona città del violino”, “Cremona città dello sport”, “Cremona città delle biciclette”... Poi, non dimentichiamolo, c'è la Cremona 'storica', per la verità un po' appannata, quella che come primato ha le tre T da cartolina... Torrone, torrazzo e... beh!

Paradossi del vivere contemporaneo. Ad esempio, anche un bambino si chiede che primato è quello delle biciclette se, dati dell'ARPA alla mano, in gennaio su 31 giorni 18 hanno visto superato il limite di PM10 e sarebbe più ragionevole sfarfallare per le piste ciclabili e le strade-gruviera della città con elmetto e maschera antigas.

Paradossi del vivere contemporaneo.

Come questo CD appena pubblicato in Inghilterra, “The sound of silence” (Il suono del silenzio), prodotto dalla Chiesa di St. Peter di East Blatchington (nell'East Essex) dall'idea di Roger Bing, un parrocchiano affascinato dalla tranquillità del luogo. Ventotto minuti di cinguettii, scalpiccii, rumori in lontananza e silenzio quasi assoluto che dovrebbero conciliare con la quotidianità caotica dei nostri tempi.

Intervistato dalla BBC, il settantaquattrenne Bing ha spiegato: “Ci sono un po' di rumori qua e là, se fosse stato solo silenzio totale la gente avrebbe potuto annoiarsi”. E al Daily Mail: “Chi l'ha già comprato dice che gli è piaciuto molto. Oggi sembra che tutti vivano di fretta, concitati. Ad alcuni a volte piace sedersi e godersi un po' di pace. Il CD è perfetto per questo scopo e c'è chi sostiene che ascoltarlo sia molto rilassante. E' stato usato anche per la meditazione, una cosa splendida”.

Realizzato per raccogliere fondi per la ristrutturazione della chiesa, risalente al 1100, pare che il CD (che in realtà non ha un prezzo) stia riscuotendo un grande inatteso successo, con richieste da tutta Europa, dall'America e addirittura dall'Africa.

Ovviamente, come sa chi ha un minimo di dimestichezza con queste amenità, non si tratta di un'idea particolarmente originale. Dal dadaista Erwin Schulhoff (il suo “Futurum” è del 1919) e John Cage (il famoso compositore di “4'33” (1952) e teorizzatore del “silenzio” in musica) ad oggi, numerosi compositori, musicisti, autori hanno introdotto il silenzio nelle loro opere. Alcuni con effetti assolutamente comici, come il singolo dei No Artist dal titolo “The wit and wisdom of Ronald Reagan” (“L'acume e il buon senso di Ronald Reagan”) prodotto nel 1980 dalla Stiff Records con entrambi i lati completamente muti (come dire...); altri con sensibilità 'poetica', come nel caso del musicista inglese Robert Wyatt che sul suo “Cuckooland” del 2004 ha inserito al centro dell'album 2 minuti di silenzio pensati “per chi ha le orecchie stanche e vuole fermarsi per riprendere l'ascolto più tardi”.

Ma se introdurre il silenzio in musica ha significato più che altro lanciare una provocazione politica, enfatizzando il rapporto sempre problematico tra il suono e la sua assenza, la registrazione della St Peter's Church ordita per neutralizzare il rumore e favorire la meditazione ha un po' l'effetto della scoperta dell'acqua calda. Un'ovvietà paradossale, oltre tutto, perché per avere tranquillità sarebbe sufficiente ridurre il rumore del nostro vivere quotidiano. Non per niente tale Marielisabeth ha reagito alla notizia scrivendo ironicamente in Rete: “Spesso mi capita di imbottigliare del silenzio per un mio amico che ha quattro figli”...

Un po' come se a Cremona, per festeggiare i tanti primati della città, qualcuno distribuisse bottigliette di aria fresca da inalare. Altro che maschera antigas!

 

("Il Piccolo", 6 febbraio 2013)

 

GRATTA E VINCI... UN POSTO IN PARLAMENTO!

Ancora su inni e partiti, ultima frontiera del marketing elettorale. Dopo lo sciapido “Inno” della Nannini adottato di recente dal PD (verso-chiave del testo, pare, “mi ricordo di te”…), anche altri partiti in lizza giocano la carta della suggestione a suon di note musicali e parole d'ordine.

Sul solco di “Forza Italia”, “Meno male che Silvio c'è” e dell'”Inno dei Responsabili” di Scilipoti (ricordate il ritornello “un solo cuore un'unica idea, per un'Italia ancora tua ancora mia”?), il populismo berlusconiano conta di sedurre l'elettore con il nuovo “Gente di Libertà” (parole di Berlusconi-Rossi, musica di Berlusconi-Rossi-Mariani). Un condensato di retorica demagogica che enfatizza il protagonismo della “gente per bene”, appunto, che accerchiata deve difendersi dal ritorno dei “comunisti” invidiosi e rancorosi della libertà e del benessere altrui. La musica, quella di una canzoncina in stile Ricchi e Poveri anni '70, che ormai neanche a Sanremo si filerebbero più...

 

Gente che ama la gente,
che non prova invidia che odiare non sa.
Gente che non ha rancore
che ha come valore la tua libertà ..

Grande il sogno che ci unisce,
un sogno grande che si realizzerà,
grande la forza che ci diamo,
la forza che ci dice che il bene vincerà per sempre...

 

E se il Movimento 5 stelle di Beppe Grillo propone un accattivante folk-rock contemporaneo ispirato da stilemi popolari (cantato, fisarmonica, tammorra) con un testo zeppo di frasi da bar inteso come una chiamata alle armi contro la partitocrazia (“L'Urlo della Rete” di Leonardo Metelli e Raffaello di Pietro), l'inno della Destra di Storace è la più classica delle marcette innodiche fasciste composta a ricalco delle famigerate “Canzone dei sommergibili” e “Allarme siam fascisti!”, con l'imbarazzante riesumazione di tutto il bagaglio lessicale del Ventennio: “dio, famiglia, patria e storia”, “eroi”, “titani del pensiero”, “mito”, “fedeltà”, “figli della patria”, “giovani Italiani”, “onore dei nostri padri”... Tranquilli, non l'ha scritta Mario Ruccione nel '41 ma un contemporaneo, talmente filologico da sfiorare l'autoparodia...

    Mentre il Partito dei Pensionati affida il suo inno “Ci faremo sentire” alla voce da balera di Sabrina Musiani, autrice di musica e testo (“Noi ci faremo sentire, tutti dovranno capire...” “Fatuzzo è il nostro capo da ascoltare, è il faro che ci guida, siamo la sua gente...”), senza che l'ascoltatore riesca a farsi un'idea di cosa intenda fare in Parlamento il partito (ma sicuro che si faranno sentire!), l'elettorato UDC andrà alle urne cullato dall'efebica voce di Luca Sardella che canta “Pace e libertà”, trasognante melodia zuccherosa per anime candide, con versi che sembrano tratti dal diario della Barbie:

 

Stringiamo le nostre mani e giù dal cielo una gran pioggia di serenità...

Pace e libertà e il nostro sogno già diventa realtà

Un futuro migliore e batte forte il cuore

e nasce un grande amore

e la felicità...”.

 

E dopo aver ascoltato ammutoliti l'irritante retorica populista dell'inno di Alleanza di Centro, che sembra “I Watussi” in formato cartone animato, e il patriottismo eurocentrico di “Io amo l'Italia” (movimento politico di Magdi Cristiano Allam), cantato da un mutante Baglioni innestato in Umberto Tozzi, a chi assegnare la palma del brano più rappresentativo del definitivo declino della politica italiana e del destino dell'inno, con buona pace del tanto criticato Mameli?

L'inno del Partito Lotteria (non è uno scherzo, giuro, esiste davvero!) è un capolavoro involontario di trash musicale contemporaneo, surreale e grottesco come il partito che rappresenta, ispirato “ai valori politici della demarchia. Crede che il governo del Paese debba essere garantito da cittadini estratti a sorte nel solco della tradizione democratica ateniese di Clistene e della Repubblica Marinara di Venezia” (!).

L'incipit del pezzo, esempio di canzone popolare anni '70 (Toni Santagata), sintetizza perfettamente il programma elettorale (“il Partito Lotteria non ha nessun programma politico e non intende averne”):

 

Sei candidato non c'hai sperato
sei stato estratto ti hanno votato
Dillo alla mamma dillo alla zia
vota anche tu il Partito Lotteria

 

E se avessero ragione loro? In fin dei conti potrebbe anche bastare un gratta e vinci per scegliere il prossimo governo...

("Il Piccolo", 30 gennaio 2013), 30 gennaio 2013

 

L'INNO DEL PETTINATORE DI BAMBOLE

Sarà “Inno”, la canzone che dà il titolo all’ultimo album di Gianna Nannini uscito il 15 gennaio scorso, la colonna sonora della campagna elettorale di Pier Luigi Bersani. Ad annunciarlo con soddisfazione è stato il leader democratico su twitter, Organo Ufficiale delle Banalità Italiche: «Il nuovo disco di Gianna Nannini è bellissimo, ho scelto la sua canzone “Inno” e da domani accompagnerà il Pd».

Replica della Nannini a stretto giro di cellulare: «Complimenti per la scelta! Finalmente qualcuno che si intende di musica! “Inno” è il pezzo più bello che ho scritto negli ultimi vent'anni!»

Se avete già ascoltato questo caposaldo della canzone italiana (scritto da Nannini con Pacifico) vi siete soffermati sulle parole che hanno scaldato il cuore del ‘pettinatore di bambole’ di Bettola? Eccole:

 

Mi ricordo di te ti raggiungo ad occhi chiusi
mi ricordo di te per la strada mi incontrerai
mi ricordo di te ogni estate sono qua
mi ricordo di te tu sorridi e mi dici ciao

che bello è vivere
se vivere è con te
ora soffia il vento e soffia via con te

mi ricordo di te la tua voce nella mia
mi ricordo di te e non voglio mandarti via

che bello è vivere
se vivere è per te
ora soffia il vento, ti porta via da te


mi ricordo di te sorso d’acqua tra le dita
se ti stringo vai via pioggia o lacrima tornerai
so che ritornerai

nel tempo che verrà nel buio che cadrà
è vita sempre tornerà
nel tempo che verrà nel freddo che sarà
sei vita quasi libertà
mi ricordo di te.

 

Per limitarsi alle parole (e si sa quanto siano determinanti in un testo 'politico'), un banale inno alla vita, non c’è che dire. Un ripetitivo catalogo di ovvietà (il vento che soffia, il buio che cade, l'acqua tra le dita...) degno dello Zecchino d’Oro.

Dopo scelte controverse ma autorevoli come “La canzone popolare” di Fossati (l’epoca, ricorderete, quella vincente dell'Ulivo di Prodi), “Una vita da mediano” di Ligabue (ancora Prodi, era il 2006), “Mi fido di te” di Jovanotti (tiritera che inceppò la 'gioiosa macchina da guerra' veltroniana nel 2008) e “Onda su onda” di Paolo Conte (involontario, imbarazzante autogol del governo Prodi, guarda caso ‘naufragato’ dopo solo un paio di anni di legislatura), lo Zeitgeist di questa politica ormai logora e di questo centrosinistra è affidato all’arte di Gianna Nannini, tra le più improbabili sedicenti rocker della penisola.

Sarà anche bello vivere, come sostiene lei... ma di questo passo, visti i precedenti (ricordate il tracollo della Nazionale a “Italia '90”, colonna sonora: “Notti magiche” proprio della Nannini e Bennato?), per Bersani & C. sembra ci sia davvero poco da stare allegri…

 

("Il Piccolo", 23 dicembre 2012)

 

GANGNAM STYLE, BUFFO AUTOIRONICO TORMENTONE ELETTRO-POP

Non so se avete mai ascoltato “Gangnam Style”, quel pezzo pop cantato dal DJ-rapper coreano PSY (Park Jay-Sang) che balla simulando di andare a cavallo. Da qualche giorno, proprio mentre gli apocalittici erano costretti a rimandare il loro appuntamento con la fine del mondo, il video ufficiale su YouTube ha superato il miliardo di visualizzazioni, un record assoluto per l'universo Web, maturato dopo un prestigioso MTV Award e numerose flash mob nelle più importanti capitali del pianeta: raduni spontanei (organizzati tramite il passaparola dei social network) di giovani danzanti l'ultima moda in fatto di ballo pop.

Nei quattro minuti di video PSY - tarchiato, capelli scuri (unti), occhiali neri, giacche dai colori improbabili e cravattino, scarpe bicolore - balla e canta in ambienti tipicamente metropolitani (sauna, metro, pullman, discoteca...) in un climax iperbolico, eccitato, kitsch come un fumettone della Marvel, tanto da farlo sembrare girato negli anni Settanta.

Il testo del pezzo, che in Rete alcuni giurano essere la deliberata parodia del vuoto consumismo dei quartieri alti di Seul, un superficiale inno alla spensieratezza del vivere e al corteggiamento (uno dei topoi del genere) con versi tipo:

 

Oppa è lo stile di Gangnam

lo stile di Gangnam

Una ragazza che è calorosa e umana durante il giorno
una ragazza di classe che sa come godersi la libertà di una tazza di caffè
Una ragazza il cui cuore si riscalda quando arriva la notte
una ragazza un po' particolare

Bellissima,amabile
Si tu, hey, si tu, hey!
Ehi, donna sexy, Oppa è lo stile di Gangnam
Ehi, donna sexy, oh oh oh oh...


Facile gridare allo scandalo, indignarsi per operazioni palesemente commerciali come questa che con la musica vera sembrano aver poco a che fare. Ma il successo innegabile del brano, confermato anche dalle numerose imitazioni circolate sul Web e in televisione, non ammette snobismi e sottovalutazioni: ma perché “Gangnam Style” è piaciuta più di altri tormentoni del periodo (“Danzo Koduro”, “Ai se ue te pego”, “Tacatà Tacatà”...)?

Pur mantenendo i caratteri del ballabile elettropop contemporaneo (ritmo incalzante, efficace utilizzo dell'elettronica, ritornello che trapana la mente, onomatopee da tifo da stadio), il video è una buffa autoironica parodia del single in carriera nell'Oriente capitalista. Ha trovate ridicole (come la bomba che esplode dietro il cantante e fa saltare per aria un ballerino quasi fosse un pupazzo o PSY ripreso al trotto mentre attraversa la strada sulle strisce pedonali...), uno stile di ballo stravagante e una coralità nelle scene di gruppo che ricorda i polpettoni di Bollywood.

Altra cosa dalle mini storie sciorinate in serie dall'hip-hop dance americano, affollate di maschi latinos con pesanti catene d'oro al collo e rolex, attorniati da ragazze mezze nude su yacht, mega ville o macchine sportive. Uno stereotipo volgare, che perpetua l'immagine di una donna oggetto sedotta dai soldi e dal lusso e alimenta l'idea che il senso della vita stia solo nell'opulenza sfrenata. Tutto il contrario della cialtronesca messa in scena di PSY, woody allen coreano, che nella coda del video si ritrova a ballare con un imbarazzante dandy in completo giallo in uno squallido parcheggio sotterraneo, quando la giornata è finita e la ragazza dei suoi sogni svanita nel nulla...

(“Il Piccolo”, 9 gennaio 2013)

 

ZUCCHERO FILATO SOTTO L'ALBERO...

E' quasi Natale e sotto l'alberello è in arrivo puntuale anche l'ultimo album di Zucchero, “La sesión cubana”, dichiaratamente un viaggio nella canzone popolare dell'isola. Ad anticiparne l'uscita, il 20 novembre scorso, il singolo “Guantanamera”, totem della musica sudamericana, già tormentone radiofonico.

Dubbio n. 1: era necessaria una versione di Zucchero dopo le innumerevoli rivisitazioni in circolazione? Dubbio n. 2: cosa aggiunge l'interpretazione del Joe Cocker de noartri a questo evergreen della canzone?

Ascoltatela, se già non vi hanno costretto a farlo, e darete voi le risposte. Le mie sono queste: (1) non era necessaria, non se ne sentiva proprio la mancanza, anche perché (2) non aggiunge nulla alle versioni esistenti. Anzi, ne consolida lo stereotipo da karaoke a cui tutti, prima o poi, abbiamo finito per cedere (chi sotto la doccia, chi alla festa di sinistra, chi con l'amico cubano...) e, quel che è peggio, ne snatura il significato più autentico.

Perché se sotto il profilo armonico e melodico la canzone si tiene ben stretta sui binari della tradizione (ricalcando versioni storiche di maestri quali Peter Seeger, Joan Baez, Josè Feliciano...), l'adattamento del testo in italiano (una traduzione quasi letterale con discutibili aggiustamenti) è un modesto compitino che non rende giustizia alla musicalità e alle sfumature dei versi originali:

 

Sono un ragazzo sincero

da dove cresce la palma

E prima di morir io chiedo

un verso puro dall' "alma"...

 

Gantanamera, Guajira Guantanamera...

 

In giugno come in gennaio

coltivo una rosa bianca

perché l'amico sincero

mi da la sua mano franca....

 

Un verso è di un verde chiaro

uno di un cremisi acceso

è come un cervo ferito

che cerca pace nell'”alma”...

 

Zucchero, oltretutto, ha la bella trovata di espungere dal testo proprio le quartine più inequivocabilmente 'politiche', restituendo della canzone soltanto la dimensione 'affettiva' e facendone un banale inno ai buoni sentimenti dell'amicizia e della lealtà: d'altronde riuscite a immaginare il milionario cantante emiliano che intona “Con i poveri della terra voglio dividere la mia sorte...” senza essere sfiorati da un brivido...?

Come non bastasse, il video ufficiale è un imbarazzante concentrato di luoghi comuni che sembrano uscire dal classico immaginario grossolano del turista italiano all'Havana: Zucchero è ripreso in studio con sigarone, divisa da revolucionario d'ordinanza, barba incolta à la Guevara, in a un'atmosfera di gioviale spensieratezza, tra immagini da cartolina di Cuba che neanche i documentari del National Geographic ....

Se avete tempo ascoltate anche altre versioni del pezzo e capirete cosa intendo. Tra le mie preferite, quella dei Fugees, di Robert Wyatt, dei Los Lobos, di Compay Segundo e, su tutte, quella degli AfroCubism, trio world con l'immenso Toumani Diabate al kora.

Artisti autentici che hanno accettato la sfida di confrontarsi con questo classico di tutti i tempi riuscendo a farlo proprio pur senza snaturarne il senso profondo. Non ipocriti dilettanti travestiti da musicisti rock impegnati sotto Natale...

(“Il Piccolo”, 5 dicembre 2012)

 

GIOVANNI ALLEVI, UN AUTENTICO GENIO...

Giovanni Allevi è la perfetta incarnazione del monstrum contemporaneo. Adatto ai tempi degradati e vacui che viviamo.

Un sottofondo per una cena con l'amante?La colonna sonora del matrimonio di tua sorella? Il commento audio alla mostra d'arte della Pro Loco? La festina della scuola di tuo figlio?

Allevi arriva dovunque, a tutte le ore, come un'efficiente colf. Un sedicente genio della tastiera in servizio permanente del popolo che sfida la classicità. Perché la sua, si dice, è musica che “accarezza l'ascolto”, “colta”, innovativa. Non disturba, non distrae, è inoffensiva. E' proprio carina, arrendevolmente pop. Sta dove la metti, come certi gatti da appartamento o le bambole della nonna sui letti matrimoniali di campagna. O l'ultima delle lampade dell'IKEA che “fa sempre la sua figura”... “Hai ascoltato il nuovo album di Allevi?” “Ah, un genio!”, già si compiacciono i fan sulla Rete e i prezzolati giornalisti musicali proni al mercato.

Un genio vero.

Perché ci vuole proprio “una faccia un po' così” per continuare a comporre musica tanto inutile, pneumatica, senza grana. Perché ci vuole un talento speciale per ammantare il “prodotto” di un'aura di intellettualismo zen a suon di melensaggini da baci perugina: non a caso la pubblicità ossessiva di questi giorni ripete che “Sunrise” (uscito il 30 ottobre è già ai primi posti delle classifiche di vendita) è musica adatta “a chi sorride quando sorge il sole”...

E il potenziale ascoltatore dovrebbe farsi un'idea dell'ennesimo capolavoro del finto giovane riccioluto da piano ed archi ( www.youtube.com/watch?v=fyzDato9xiw ) che neanche la peggiore New Age anni Ottanta o certe imbarazzanti scivolate della Windham Hill...

Ma così è se vi pare. Sul nuovo disco, addirittura, un “concerto per violino” in tre parti dal titolo halloweeniano “La danza della strega”, ultimo movimento con indicazione: “Allegro con slancio”.

Proprio quel minimo movimento del braccio che servirebbe a lanciare il CD dal ponte di Po. Dove va, va. Con sollevata allegria.

Fino al prossimo imperdibile capolavoro.

(“Il Piccolo”, 21 novembre 2012)

 

HYDROGEN JUKEBOX. IL JUKEBOX ALL'IDROGENO DI GLEN SWEENEY (1976-1978).

Gli Hydrogen Jukebox sono uno dei tanti gruppi rimasti per anni in naftalina ed oggi riscoperti più per scrupolo archeologico (e – perché non dirlo – coraggioso azzardo commerciale) che per altro.

La cronaca rada dell’epoca ci informa che la band suonava “jazz del futuro” quando l’UFO Club aprì. Il resto, come spesso accade a chi sia nato dopo e non faccia finta di esserci stato, si è costretti soltanto ad immaginarlo.

Quando quel folletto inquietante che è Glen Sweeney, a cui la storia della “popular music” deve la parabola-culto Third Ear Band, ritorna confusamente a quei giorni, lo fa con la saggia nostalgia di chi da per certo che comunque non riuscirà a rendere i suoi ricordi con l’emozione che ancora ha dentro.

Era il 1967, racconta, erano i giorni dell’UFO Club, appunto, e lui sopravviveva con un duo acustico denominato Giant Sun Trolley (tranquilli, necrofili: non hanno registrato nulla!) – lui e Dave Tomlin, oggi con i sorprendenti Hazchem – con “happening” nutriti di ingenua e provocatoria estemporaneità.

Qualche tempo dopo un’inaspettatamente pubblicizzata apparizione sul palchetto di Hyde Park che aveva costretto la polizia a intervenire per interrompere le divagazioni umoristiche dei due, Sweeney si era imbattuto in un vecchio amico di Notting Hill Gate, tale Edgar Barry Pilcher, sassofonista di belle speranze in una band che non ha lasciato tracce.

Mi chiese di entrare nel suo gruppo come batterista ed io accettai. Feci un provino e a loro andò subito a genio il mio modo di suonare, così entrai in pianta stabile. Accettai di farlo anche se facevano del free-jazz, che non era proprio il mio genere preferito. Mi ero stufato di suonare lo “skiffle” e per questo mi ero messo con Dave che prediligeva più un approccio orientale…”.

 

Con gli Hydrogen Jukebox versione 1967 (Barry Pilcher, Clive Kingsley e un certo Barry, “appartenente alla comunità che in USA aveva prodotto gli MC5”), Sweeney si limiterà comunque a suonare due soli concerti.

Uno di questi, però, lo ricorda molto bene ancora oggi: “Siccome ero convinto che soltanto il ritmo potesse catturare l’attenzione del pubblico – e nella musica che facevamo di ritmo non ce n’era proprio – mi venne un’idea, sulla base di alcune cose che avevo letto a proposito di un tizio di nome John Cage: lui faceva strani “happening” dal vivo, così pensai che se avessimo avuto anche noi qualcosa di visuale con cui poter accompagnare la musica sarebbe stato molto meglio. Convinsi così una ragazza a salire sul palco e a lasciarsi spogliare! Il trombonista si mise a tagliarle il vestito e la gente rimase lì, con gli occhi incollati al palco! Fu una cosa normale che , da quella sera, diventassimo molto famosi nel circuito underground…”.

 

Nonostante il malizioso stratagemma, però, la band si sciolse di lì a poco: “Paradossalmente, continua Sweeney, “fu proprio tutta quella pubblicità a stroncarci. La gente che aveva letto tutti quegli articoli entusiastici su di noi, veniva a sentirci credendo che suonassimo rock’n’roll e invece facevamo dell’inascoltabile free-jazz…”.

Benché il batterista avesse tenuta accesa strategicamente anche la fiammella Gian Sun Trolley (“suonavamo nello stesso locale, anche se in orari diversi, per cui non c’era niente di male che stessi contemporaneamente in due gruppi diversi”), scioltisi gli Hydrogen Jukebox si ritrovò suo malgrado senza lavoro. Tomlin, stanco della situazione, era infatti partito per il Marocco e a Sweeney non restò altro da fare che tornare a ciondolare per Notting Hill Gate, in attesa di nuove occasioni.

 

Solo nel 1968 nascerà per sua iniziativa la Third Ear Band, parte della cui affascinante storia è già stata raccontata su queste pagine e successivamente ripresa in un dettagliatissimo articolo-intervista di Nigel Cross sull’ottima fantine “Unhinged”.

Per il ritorno degly Hydrogen Jukebox, invece, bisognerà aspettare il 1978, una volta che la Third Ear Band avrà esaurito il suo brillante percorso creativo con la sfortunata soundtrack per il “Macbeth” di Roman Polansky.

Sweeney: “Pur suonando nella Third Ear Band, ho sempre avuto in testa alcune canzoni. Dopo “Macbeth” ebbi persino l’idea di riformare una Third Ear Band “elettrica” per suonare del pop, ma la cosa non funzionò e non se ne fece niente. Per questo, dato che continuavano a frullarmi per la testa, decisi di registrare quelle canzoni sotto un altro nome. Era l’inizio del 1978, credo, e riformai gli Hydrogen Jukebox, anche perché quel nome l’avevo ideato io. Contattai persone diverse, stavolta, amici che frequentavo in quel periodo. In pratica, affittammo un cottage in compagna – era molto di modo a quel tempo, dopo che l’avevano fatto i Traffic – e registrammo un po’ di canzoni mie con i testi ispirati alle carte dei Tarocchi. Sfortunatamente, però, nessuno sembrava interessato a pubblicarlo, anche se si trattava di musica certamente più accessibile di quella che avevamo suonato fino a quel momento. Il master finì in un cassetto ed ora eccolo di nuovo qui: non è pura magia?”.

Negli anni a seguire, Sweeney rimarrà inghiottito dalle arcane profondità dell’oblio, e con lui il disco degli Hydrogen Jukebox, dimenticato chissà dove negli Alchemical Studios, in Kent, luogo in cui sono state officiate più recentemente le due ultime reincarnazioni della Third Ear Band (“Live Ghosts”, 1989, e “Magic Music”, del 1990).

Un disco, questo, di imminente pubblicazione, rimasto nella polvere per quasi quindici anni ed oggi, per le imprevedibili alchimie del tempo e del music biz, riapparso alla luce. Ascoltarlo diventa allora, per lo meno, un dovere storicistico.

 

Digressione storiografica n. 1:

L’articolo precedente era apparso nel settembre 1991 sul numero 133 di “Rockerilla”. Era basato su un’intervista inedita di qualche mese prima che Sweeney su mia richiesta aveva fatto a sé stesso e mi aveva spedito. Conteneva una clamorosa imprecisione, dovuta alle mie difficoltà di comprensione durante la “sbobinatura” del nastro: avevo riportato erroneamente il 1972 come data in cui si erano svolti i fatti anziché il 1978, errore che ripreso venne ripetuto da altre fonti (a cominciare dalla stessa Materiali Sonori che produsse e distribuì alla fine di quel mese il CD).

D’altro canto, le informazioni sul periodo seguito allo scioglimento della Third Ear Band in quei giorni erano ancora vaghe e nessuno dei protagonisti del tempo – a cominciare dallo stesso Glen – sembrava voler contribuire a colmare le molte lacune storiografiche.

 

In una delle sue prime lettere inviatemi, Glen aveva scritto riferendosi a quel periodo che l’eclisse definitiva del gruppo, dopo “Macbeth” e alcuni tentativi di ricostituzione in chiave “pop” (culminati nella registrazione di “Magus”, apparso solo recentemente per l’etichetta Angel), erano stati dovuti dall’ascesa del punk e dall’oggettiva caduta di interesse per il suono “esoterico” della Third Ear Band.

Nella stessa lunga intervista pubblicata sul n. 6 della fanzine “Unhinged” (primavera 1990) si era rivelato altrettanto vago e impreciso, limitandosi a dire: “Dopo il periodo sull’houseboat trovai un appartamento in Sheperds Bush e gradualmente tornai alla normalità tentando di rientrare nella musica. Cominciai a provare con Paul che aveva una casa al Green e una grande stanza al piano di sopra. Cominciai a rimettermi in sesto. Ci imbattemmo in alcuni tipi, Mick Carter era tra questi, e cominciammo a provare con vari cantanti, finché non incontrammo Jimmy Jones: a quel punto ci ritrovammo con Mick alla chitarra e un validissimo bassista, avevamo messo su un gruppo di rock’n’roll. In pratica suonavamo del rock con un po’ di effetti fuori di testa. Paul non riusciva ad adattarcisi. Non gli è mai piaciuto il rock’n’roll, lui ama la libertà. Dato che conoscevamo un tizio che aveva un piccolo cottage con uno studio e una consolle da quattro piste, andammo lì a registrare i pezzi che avevo composto. Ecco come è nato il disco degli Hydrogen Jukebox”.

 

Nel mio “Necromancers of the Drifting West” (Sonic Book), nel 1997, in mancanza di informazioni precise sul periodo ero stato costretto a sorvolare sul periodo scrivendo (pag. 49 e 50):

 

1976

Rientrato a Londra, dove ha affittato un appartamento in Sheperd’s Bush, Sweeney conosce Terry Haxton e Gary Heath (probabilmente a mezzo annuncio di giornale), due musicisti che avevano suonato in varie band di Londra con scarsa fortuna, ed accarezza l’idea di rifondare la Third Ear Band. Una nuova formazione, intorno a Sweeney e Minns, viene infatti costituita nel corso dell’anno da Haxton (basso e tastiere), Heath (sintetizzatore) e Mick Carter (chitarra) e prova per alcune settimane nei locali del Swiss Cottage Club di Londra.

Nonostante il ritrovato entusiasmo, comunque, la nuova Third Ear Band non trova un ingaggio e si scioglie nuovamente. Anche Morgan Fisher sembra fosse stato coinvolto in alcune prove, ma senza esito.

 

Maggio: pubblicazione dell’antologia “Experiences” (Harvest) nella serie “Harvest Heritage”. “Copertina stupenda”, ha commentato Minns (1996).

 

1978

Un nuovo progetto di Third Ear Band, pensata come gruppo pop-rock, coinvolge Sweeney, Minns e Carter. Molte le prove (prevalentemente nell’appartamento di Minns) pochissimi i concerti.

 

4 giugno: Hot Vultures – Roundhouse Downstairs Teathre (Londra)

Una nuova Third Ear Band si presenta in concerto con Sweeney – batteria e percussioni; Minns – oboe; Marcus Beale – violino Fender; Mick Carter – chitarra; Brian Diprose – basso. In seguito la stessa line-up suonerà in un centro sociale di Norvwich.

 

Nel corso dell’anno, dopo il definitivo abbandono di Minns, disinteressato a investire energie in un progetto di gruppo pop-rock, una nuova formazione comprendente Sweeney, Carter, Diprose e Jim “gipsy” Hayes (voce), suonerà alla Norwich University e registrerà nei Dansette Studios del Kent l’album “Apocaliptic Anthems” sotto il nome di Hydrogen Juke Box. I testi delle canzoni, nuovamente ispirati ai tarocchi, erano stati composti da Sweeney durante il periodo vissuto sull’houseboat.

Il disco, rimissato da Carter che l’aveva “dimenticato” nell’archivio del suo studio personale, verrà pubblicato in CD solo nel 1991 dalla Materiali Sonori con il titolo di “Prophecies””.

 

Digressione storiografica n. 2: il ricordo di “Rustic” Rod Goodway (1977)

Imbattutomi per caso nel sito di Rod Goodway, chitarrista e cantante dell’undergound inglese più nobile (Magic Muscle), ho avuto recentemente l’opportunità rara di coprire alcuni vuoti della storia della Third Ear Band. Nel corso di un lungo carteggio e-mail, Rod mi ha scritto:

Fu il mio amico Simon House, nel 1977, a mettermi in contatto direttamente con Glen e la Third Ear Band... Come ho scritto nella sezione “Family Tree” del mio sito (https://www.achingcellar.co.uk/pages/index.html), a quel tempo non ero in condizione di poter lavorare causa una recente separazione e gravi problemi di salute, ma Glen (e il resto del gruppo) si rivelarono molto gentili con me .... suonammo della grande musica insieme, anche se non entrammo mai in studio. Glen registrò alcuni nastri in quel periodo, ma credo che siano andati persi o cancellati. Io suonavo la chitarra e cantavo e il resto della band improvvisava sulla base di quello che stavo facendo. Una cosa molto da “flusso di coscienza”….. ma suonava selvaggia, strana e bellissima”.

 

Le informazioni di Goodway, che annuncia per quest’anno un ritorno sulle scene con dischi e concerti, sono confermate da almeno un paio di articoli apparsi sulla stampa in quei giorni.

David Ilic, ad esempio, su “New Musical Express” del 25 giugno 1977, scriveva: “(…) Una recente visita nel suo appartamento carino situato nel nord di Londra trova Glen in forma smagliante, con la voglia di parlare delle sue nuove idee e un salutare senso di ottimismo sul suo nuovo progetto. L’unica caratteristica rimasta dalle precedenti incarnazioni del gruppo è la variabilità del musicisti. Mentre erano ancora in fase di prova, vari musicisti sono andati e venuti, ma nonostante abbia il problema di trovare un bassista, la formazione del gruppo si è stabilizzata con Glen (percussioni), Paul Minns (oboe), Mick Carter (chitarra, violino) e l’ex chitarra e voce Magic Muscle Rod Goodway.

Da un punto di vista musicale le cose sembrano essere cambiate drammaticamente. L’uso esteso di strumenti ad arco è stato rimpiazzato dall’uso più inventivo di strumentazione rock convenzionale. Il nuovo materiale contiene inoltre una qualità più attraente (“un tipo di rock’n’roll medievale”, come lo definisce Glen) – in contrasto netto con il suono calmo e fluttuante del passato. Il gruppo è impegnato a provare il materiale che alla fine dovrebbe costituire il nuovo album”.

 

Da “Apocaliptic Anthems” a “Prophecies”.

Ho tenuto la bobina originale di “Prophecies” per quasi un anno, prima che Glen decidesse di farla pubblicare dalla Materiali Sonori. Sin dalle nostre prime frequentazioni (1988), mi aveva gentilmente regalato una cassetta del disco, che originariamente avrebbe dovuto intitolarsi “Apocaliptic Anthems”. L’avevo ascoltato più volte, incuriosito, ma per la verità non è che mi avesse particolarmente impressionato (un effetto analogo, ma decisamente in peggio, ho avuto all’ascolto del recente “Magus”…).

Non concordavo con l’idea di Vittore Baroni (uno dei primi a scriverne in Italia, su “Rockerilla” n. 135 del novembre 1991) che il disco fosse “avvolto da una sensibilità moderatamente ‘progressiva’, accomunabile a certe pagine melodiche (ma di tutto rispetto) dei Caravan di Canterbury”.

A me, più che altro, sembrava un tentativo ambizioso di suonare come i Doors senza Morrison e i Velvet Underground senza le anfetamine e la viola di Cale.

 

Può interessare sapere, al di là dei punti di vista sulla qualità del materiale, che le due versioni del disco differiscono nella titolazione dei brani (ma con Sweeney questa non è mai stata una novità…).

 

Prophecies” (CD – Materiali Sonori , 1991)

Kingdom of the Brave”. “Life is an Art”. “Crysalis the Man”. “Voidoid City”. “Shoe Suede Blues”. “Ab-ra-ka-dab-ra”. “Prophecies”. “To be Continued”.

 

Apocaliptic Anthems”/”Voidoid City” (nastro – pre-realise)

Abracadabra”. “Folded Up the Afternoon”. “Join the Fairys of Fate”. “Kingdom of the Brave”. Signspots of the Occult”. “Don’t whistle while you piss”, “I saw Buddha smile”. “Voidoid City”.

 

Esiste una prova di copertina a colori, opera dello stesso Glen, qui riprodotta, che confermando la cosa, suggerisce addirittura che ad un certo punto intenzione del percussionista fosse quelle di intitolare il disco “Voidoid City”.

Consultato Mick Carter, che curò nel 1978 la registrazione del disco nei Dansette Studios del Kent e nel 1991 il definitivo missaggio negli Alchemical Studios (sempre del Kent), non esistono out-takes o versioni alternative dei brani.

 

(20 gennaio- 15 febbraio 2006)

 

 

PSICHEDELIA". UN ATLANTE PER PERDERSI, INVOLONTARIO TRIBUTO (PSICHEDELICO?) AL LEWIS CARROLL DI "A CACCIA DELLO SNARK"... (Sulla precarietà delle categorie critiche del giornalismo ‘popular’ applicate alla ‘Psichedelia’, araba fenice del Rock)

 

In vacanza in un paesino della riviera ligure, a corto di letture ‘da spiaggia’, nell’unica libreria esistente acquisto un volume della collana “Atlanti Musicali Giunti” dedicato alla psichedelica con il 30% di sconto sul prezzo di copertina (€ 6.90, “I libri definitivi del rock”, secondo la pubblicità della promozione…).

Edito nel 2001 sulla base di un precedente edizione del 1999, a cura di Cesare Rizzi, consta di 127 pagine patinate a colori e dichiara orgogliosamente sul retro di copertina:

 

94 voci di solisti e gruppi. Oltre 3000 dischi recensiti e valutati. La psichedelica originale, le derivazioni odierne. Il mito di San Francisco e del “14Hour Technicolor Dream”. L’acid rock. Con rare illustrazioni e poster d’epoca”.

 

Il tema, almeno in Italia, è stato affrontato in modo organico solo poche altre volte: un recente “All’ombra di Sgt. Pepper. Storia della musica psichedelica inglese” (Coniglio Editore, 2007 pag. 227) di Federico Ferrari; l’”Almanacco Psichedelico” di Matteo Guarnaccia edito dalla Nautilus nel 1985; “Il rock psichedelico” che lo stesso Rizzi, in collaborazione con Claudio Sorge, pubblicò nel 1986 per l’editrice Arcana e “UK Psychedelia” a cura di Federico Ferrari, allegato al numero del mensile “Rumore” del luglio 2006.

 

Araba fenice della pubblicistica rock, la “psichedelia” è uno dei terreni sfuggenti su cui misurare il grado di precarietà delle categorie critiche applicate alla ‘popular music’.

Nella sua introduzione al volume, Rizzi precisa che “’Psichedelia’ è termine di radice greca: ‘psuché deléin’, “mostrare la coscienza”, svelare l’anima. È il sogno o meglio la febbre, l’ossessione che scuote il rock a cominciare dagli anni ’60, quando la piante cresciuta dal semino di Elvis e di Chuck Berry è diventata grande, frondosa, e punta a toccare il cielo” (pag. 5).

 

In realtà, nelle sette facciate introduttive, non seguono altre definizioni che circoscrivano il tema trattato: con il consueto stile che ha fatto la fortuna di Riccardo Bertoncelli, infatti, Rizzi adotta il registro iperbolico-narrativo tipico del giornalismo rock italico degli anni settanta (1), limitandosi a una descrizione ‘impressionistica’, sovraeccitata, dai timbri adolescenziali, di alcuni dei gruppi a suo dire più rappresentativi delle scena ‘psichedelica’:

 

È la tinta elettrica che gli Electric Prunes portano alla ribalta alla fine del 1966 con ’I Had Too Much To Dream (Last Night)’, uno dei primi inni psichedelici non solo per le strane oscillazioni della musica ma anche per le allusioni del testo. (…) I Prunes sono un perfetto gruppo di garage, il rock schietto e spontaneista che fiorisce nelle cantine e appunto nei garage della provincia americana come opposizione alla musica decisa nella stanza dei bottoni delle majors” (pag. 6).

 

E ancora: “L’annus mirabilis della psichedelica è il 1967 e l’epicentro del terremoto è nella California settentrionale, a San Francisco. Centinaia di bande impastano il rock in forme nuove impiegando spesso e volentieri le spezie delle droghe. È per quegli “additivi” che le sigle dei complessi prendono complicati nomi di fantasia (…), che i testi parlano di viaggi favolosi nel quotidiano distorto o in qualche immaginario Paese delle Meraviglie, che le canzoni schiudono i loro limiti di durata e gli album diventano scatole magiche, ricche di sorprese” (pag.7).

 

A pagina 12, prima delle schede di cui si compone il libro, il curatore avverte infine il lettore sulla reale natura dell’atlante: “Questa non è un’Enciclopedia del Rock Psichedelico ma una Guida più limitata e spiccia; come tale aiuta a orientarsi, a capire i principali luoghi e confini di un genere, ma non ha pretese di completezza. Sono stati quindi privilegiati i nomi e le opere più importanti, e di maggior diffusione, e tralasciati per questioni di spazio numerosi piccoli gruppi che pure molti amerebbero vedere trattati con dovizia di particolari. Per scelta e comodità di trattazione, il volume si concentra sul periodo della psichedelica classica, il triennio 1966-1969…”.

 

Al solito, il relativismo culturale che ispira la selezione, orfana come si evince facilmente di una chiara definizione dei criteri, comporta che alcune assenze possano essere addirittura clamorose; e discutibili, per converso, alcune inclusioni.

Tra le prime, anche solo a una lettura superficiale balza agli occhi l’omissione di gruppi importanti anche in questo ambito come KINKS, Beach Boys, HOLLIES o ZOMBIES, mentre vengono riproposti, reiterando certi logori luoghi comuni della stampa rock anglosassone, gruppi minori e assolutamente ininfluenti come i SYN, capitati per caso nella scena dell’UFO Club e ricordati più che altro per una trascurabile celebrazione dell’evento più famoso della Londra underground (loro il 45giri “14Hour Technicolor Dream” del 1967), o i risibili STRAWBERRY ALARM CLOCK.

 

Quando i criteri di selezione del materiale proposto sono vaghi, il risultato finale presta fatalmente il fianco alla critica: un ‘atlante’ come questo, che come si è visto si propone cautamente solo come strumento per un primo orientamento, a chi può realmente servire?

Non certo all’appassionato che abbia già molti ascolti alle spalle (e altre fonti più rapide e approfondite a disposizione - da Wikipedia ai portali di vendita on line tipo Amazon.com, che offrono intriganti collegamenti fra i dischi selezionati, o ai siti di esperti quali “PSYCHEDELIC 100” - home.austarnet.com.au/petersykes/psych60s/top100.html). Né, crediamo, al neofita che, se non ben instradato, rischia di prendere le fatidiche “lucciole per lanterne”… (2)

 

Un altro esempio?

Prendiamo un album famoso e a suo modo paradigmatico del periodo quale “THEIR SATANIC MAJESTIES REQUEST” dei Rolling Stones (Decca 1967), solo “una curiosità nel catalogo Stones”, secondo Rizzi.

Il curatore lo include come unico contributo del gruppo al ‘genere’ ‘psichedelico’ con la seguente motivazione: “Un disco tridimensionale e irriverente (…), con un’iconografia poco solenne e un po’ satanica, una storica copertina in 3D e un grande collage che sta tra la parodia a Sgt. Pepper e un rifacimento incolto del Giardino delle delizie di Bosch…” (pag. 107). Un lavoro “non memorabile ma famoso”, che i Rolling avrebbero deciso di registrare sentendosi “in dovere di partecipare alla stagione psichedelica, un po’ per divertimento, un po’ per emulare i Beatles” (pag. 106).

Perché “Their Satanic Majesties Request” sia comunque da considerare un disco ‘psichedelico’, però, Rizzi non lo spiega chiaramente, né intende considerare la possibilità che – precisando meglio i criteri della sua selezione – possano essere inclusi quali ‘psichedelici’ altri dischi degli Stones (eccetto che per l’ammissione all’inizio della scheda: “Qualche traccia era già affiorata nella primavere del 1966, con il sitar di “Paint it Black”… che suggerirebbe l’equazione SITAR=PSICHEDELICO…). Ad esempio il di poco antecedente “Between the buttons” (Decca 1966), chiaramente ispirato dal considerevole consumo di droghe…

 

Altri criteri, tanta confusione.

 

Non che altre fonti, da questo punto di vista, siano esenti da critica.

Il contributo di Federico Ferrari sulla ‘psichedelia’ inglese, ad esempio, per quanto ricco di preziose indicazioni (3), nella parte introduttiva ipostatizza il concetto di ‘psichedelia’ adottando un registro narrativo limitato solo ad alcuni timidi cenni ‘tematici’:

 

La musica del periodo fu splendida e ricca di novità e cambiamenti. Molte bands arrivarono alla definizione di uno stile completamente inglese nelle composizioni, nei testi e nelle soluzioni strumentali. Le parole talvolta prendevano ispirazione dalla letteratura fantastica del secolo precedente, senza sconfinare peraltro in ambiti gotici o fantasy fatti propri anni dopo da comunità come quella del british metal o dell’ambito progressivo. La psichedelia inglese abbraccia maggiormente la causa del “fantastico onirico” per poi tornare spesso alla realtà nella descrizione di scene apparentemente inconsistenti della vita quotidiana. Un quotidiano tutto inglese, formato dalla realtà di micropersonaggi e di persone comuni, di artigiani nascosti nei loro laboratori o di artisti incompresi nascosti nell’isolamento delle loro stanze in qualche strada di periferia” (pagg. 3 e 4).

 

E ancora: “Certamente si gioca anche con il “viaggio” e la recente scoperta di qualcosa di più intenso di una rilassante sigaretta di marijuana. Il “viaggio” è spesso usato come dispositivo di scardinamento strutturale dei testi, giocando con le parole e i doppi sensi come faceva Lewis Carroll o più seriamente componendo canzoni basate sulle suggestioni offerte dallo studio dei Tarocchi o da testi di mistici orientali” (pag. 5).

 

(…) Esplode la scena musicale psichedelica e con essa nuove musiche e linguaggi che ne contengono tutte le caratteristiche più evidenti: amore per la ricerca melodica originale e diversificata nell’ambito delle singole canzoni, tematiche oniriche e fiabesche, utilizzo di nuove soluzioni strumentali e di arrangiamento. Il sitar, l’uso dell’orchestra o degli archi da un lato, le chitarre inacidite e sempre più originali dall’altro, il phasing, il mellotron, i nastri incisi sovrapposti o fatti girare al contrario… tutto si presta alla causa del nuovo verbo psichedelico, dell’amore per l’oriente e di una rozza ma genuina filosofia pacifista non violenta” (pag. 15).

 

Anche un testo autorevole come “Storia della Musica”, a cura di Favaro e Pestalozza (Nuova Carisch/Warner Bros Music, San Giuliano Milanese (MI) 1999) non contribuisce a sgombrare il campo dagli equivoci, riducendo la scena ‘psichedelica’ al movimento di gruppi americani nati dagli ‘acid test’ del circuito dei GRATEFUL DEAD e identificando la ‘forma psichedelica’ nella composizione improvvisata dilatata anche fino a 30 minuti...

 

Con l’ingresso in scena di Dylan, dei Beatles e della psichedelica californiana, il rock, da puro sfogo fisico, si dà una cultura. Anticipato dalla Beat generation, il movimento ‘underground’ attirala gioventù bianca accomunata da un ideale ‘bohémien’: droghe, arte,, controinformazione, vita comunitaria, misticismo, politica, abbigliamento, sessualità, linguaggio e musica sono i luoghi dove la controcultura penetra a fondo, favorita dalle teorie di Wilhelm Reich, Herbert Marcuse, Timothy Laery. La musica è quella più svincolata dalle regole dell’industria: è un rock molto improvvisato che viene chiamato acid o psichedelico, ma comprende esperienze acustiche che si rifanno al folklore. Prende forma durante gli “acid test” dove centinaia di gruppi suonano sotto l’influenza di acidi sintetici come l’Lsd (l’acido lisergico). Armonie, ritmi e timbri vengono scossi alle fondamenta da distorsioni, accelerazioni e rallentamenti che riproducono in suono l’esperienza della droga, dilatando le canzoni per intere mezzore” (pag. 150, cit.).

 

Nel suo stimolante e bislacco "Almanacco Psichedelico", d’altro canto, lo stesso Guarnaccia, tra i maggiori conoscitori della materia (anche perché protagonista egli stesso dell’arte psichedelica negli anni '70), include tra i musicisti Beatles, Barrett, Grateful Dead, 13th Floor Elevators… - in genere considerati musicisti ‘psichedelici’ – ma anche Brian Wilson, David Allen, Amon Duul, Fugs, Burt Bacharach… - che al contrario in genere non vengono considerati tali.

Fatto che non sorprende, comunque, dal momento che per l’autore “la psichedelica è solo uno degli ultimi avatar di quella ricerca mistico-evoluzionista che ci accompagna dal neolitico, il cui scopo è quello di ricordarci di prestare attenzione alla Danza Cosmica a cui siamo stati invitati”.

(…) Una cospirazione sotterranea che nel corso del tempo ha cambiato d’abito (più o meno a fiori) un numero infinito di volte, cercando incessantemente di armonizzare il sociale col biologico” (pag. 3).

 

Lettura che si può assimilare a quella di impostazione socio-politica del musicista Chris Cutler, che nel suo fondamentale “File Under Popular” (Novembre Books, Londra 1985), sempre a proposito della ‘psichedelia’, scrive:

 

(…) Quando l’hippismo, il flower power e la filosofia dell’Amore irruppe in America, si portò dietro una nuova musica, in parte derivata dal fenomeno Folk e da Dylan, in parte dal Blues e dal Pop; per gran parte acculturata, interamente basata su strumenti elettrici, sul volume, sullo stile di vita di gruppo, sulla possibilità offerta agli strumenti elettrici di suonare liberamente dal vivo a un vasto pubblico; una musica che non esprimeva né rabbia né claustrofobia, ma ripetizione, invenzione, estemporaneità e rilassato edonismo. Una musica assolutamente non aggressiva e non preoccupata di vivere pienamente il suo tempo. Era adatta al clima temperato e all’epoca della West Coast americana. Altro elemento della nuova musica era la sua profonda associazione con le droghe psichedeliche. La marijuana era stata usata per decenni, pillole di ogni tipo erano connaturate a molta della musica Mod inglese, ma l’LSD era nuovo e provocava effetti totalmente differenti. Inoltre, non meno delle altre droghe, era legale. Ma prometteva di cambiarti. Perciò fu soltanto quella gente che voleva cambiare ad essere coinvolta con quanto stava accadendo… E in Inghilterra l’LSD era inseparabile dal nuovo movimento progressivo: la Psichedelica” (pag. 182).

 

(…) Assieme all’espressione ‘progressivo’, usato in realtà come suo sinonimo, venne ‘sperimentale’. Questo movimento era nuovo; nuove esperienze, nuove immagini e nuovi suoni. Il lightshow accompagnava la musica al chiuso, aggiungendo stimoli e bombardamenti alla globalità delle sensazioni. Il ‘tu’ smetteva di esistere e diventava parte del ‘tutto’. Si trattava di un rifiuto crudo, simbolico all’individualismo ed era contrapposto confusamente al rampante individualismo caratterizzato da tronfio edonismo. Ma aveva un aspetto radicale e progressista e all’epoca era l’unica cosa che ci importava.

 

La musica della West Coast si rivelò ininfluente in Inghilterra, per non dire inadatta. Ma lo stile di vita, la filosofia e gran parte delle droghe si diffusero attraverso uno strato della gioventù inglese come un incendio. Una cultura pop cosciente, intellettualmente accettabile, ma ancora ribelle, alla fine era arrivata in Inghilterra (l’America aveva già avuto la ‘protesta’). Come i contestatori, noi non volevamo solo abbattere o far tramontare la coscienza del ‘vecchio’ mondo; eravamo pronti a costruirne uno nuovo. Forse ebbe l’effetto di un fiocco di neve in un forno, ma fu una benedetta estate ottimista, l’estate del 1967” .

 

Uno dei primi contributi organici al soggetto, “The Acid Trip. A complete guide to Psychedelic Music” (Babylon Books, UK 1984), opera di Vernon Joynson, già tradisce tutte le difficoltà del caso, tanto che l’autore scrive nell’incipit: “Che significato ha per voi la parola ‘psichedelico’? Una musica che espande la mente congegnata per superare i limiti musicali della sua epoca o spazzatura pretenziosa? Comunque la pensiate, mettetevi a leggere… arrivati alla fine di questo libro dovreste aver acquisito considerevolmente più conoscenze da farvi la vostra opinione” (pag. 5).

 

Nonostante l’obiettivo dichiarato del suo autore sia quello di consentire al lettore di farsi un’idea sul soggetto del libro, Joynson introduce l’argomento con chiari riferimenti culturali suggerendo da subito alcune precise coordinate:

 

(…) Il termine ‘psichedelico’ significa, letteralmente, ‘espandere la mente’ e venne utilizzato per la prima volta dal dottor Humprey Osmond all’Istituto Neuropsichiatrico del New Jersey per descrivere gli effetti dell’LSD o ‘acido’ come in seguito venne più comunemente conosciuto. Dal 1966 questa droga era in uso in America e il termine ‘psichedelico’ era utilizzato per descrivere quella musica che intendeva ricreare le condizioni sperimentate in un ‘viaggio acido’” (pag. 5).

 

E ancora: “La musica psichedelica si sviluppò attraverso molteplici influenze – folk, blues, beat, rock’n’roll e punk (nel significato attribuito ai fenomeni della metà degli anni sessanta). La psichedelica portò elettricità, misticismo e libertà musicale fino ad allora sconosciuta a questo caleidoscopio di stili. Da questo fenomeno nacque una nuova cultura rock con una sua specifica ideologia e un suo pubblico, caratterizzato dagli hippy”.

 

(…) I musicisti cominciarono a considerarsi degli artisti e la preoccupazione di realizzare canzoni pop da tre minuti venne soppiantata in favore della sperimentazione e dell’improvvisazione. Venne introdotto per la prima volta un intero nuovo spettro di strumenti – sitar, theremin, wind chimes, vari dispositivi elettrici… Il pop non sarebbe stato più lo stesso, tanto che dall’epoca psichedelica sarebbe apparsa la musica progressive”.

 

Diversamente dalla maggioranza delle fonti italiane, questa di Joynson offre un vastissimo panorama di gruppi e musicisti (4), rimanendo (nonostante l’esiguità di alcune schede, limitate a poche righe) uno dei pochi riferimenti disponibili del genere.

 

La difficoltà di definire l’ambito di indagine.

 

Per quanto possa sembrare ovvio, come si è visto è indispensabile in lavori di questo genere (enciclopedie, dizionari…) definire l’ambito di indagine limitando al massimo i margini di discrezionalità e di genericità (se il criterio si limita a considerare l’”espansione della coscienza” come topos del genere ‘psichedelico’, a quel punto chi può dire che l’ascolto di un brano dei Soft Machine non ‘espanda la coscienza’ quanto un pezzo delle Supremes?).

Nel caso in oggetto, dunque, è fondamentale assumere e dichiarare sin dall’inizio a quale idea di ‘psichedelia’ ci si intende riferire e collocare conseguentemente gli autori che aderiscono a quell’idea.

 

Dal punto di vista filologico, un qualsiasi dizionario può rappresentare una base significativa di riferimento.

Il Devoto-Oli, ad esempio, alla voce “psichedelico” recita:

 

Di quanto aiuta a stimolare e a disinibire la psiche, a evadere dalla realtà anche a costo di conseguenze negative; detto spec. degli allucinogeni; part. Arte p., il prodotto artistico ottenuto sotto l’effetto degli allucinogeni; estens., l’arte che cerca di esprimere (con parole, suoni, immagini) l’esperienza della evasione provocata artificialmente ~ Luci p., che per il continuo alternarsi di colori vivacissimi e contrastanti creano un’atmosfera alienante e allucinante ~ Musica p., genere di musica pop fondata sui suoni elettronici e accompagnata da luci che, variando di intensità e colori a seconda delle frequenze sonore, riproducano visivamente il ritmo. [dall’inglese psychedelic ‘rivelatore della psiche’, comp. Dal greco psykhé ‘psiche’ e dimun secondo elemento prob. connesso al verbo deloð ’mostrare’].

 

(G. Devoto-G.C. Oli, “Il dizionario della lingua italiana”, Le Monnier Firenze, 1992, pag. 1504)

 

Il significato assunto dai linguisti verte quindi sul rapporto fra produzione espressiva-droghe psichedeliche (LSD e psicoattivi affini)-spettacolo visivo (uso delle luci colorate): musica e light-show, dunque, secondo quanto generalmente attribuito a gruppi quali i Pink Floyd, i Soft Machine, i Grateful Dead o i Jefferson Airplane.

Una musica e uno spettacolo finalizzati ad ‘rivelare la psiche’ stimolando le facoltà percettive del pubblico, esso stesso assuntore di droga.

 

Concetto riassumibile nella formula:

 

musica psichedelica = suoni elettronici (‘pop'=popular music=rock) + light-show

 

Prendendo per buona questa definizione, emergono comunque alcune questioni interessanti che confermano la difficoltà di pervenire a una definizione inequivocabile delll’oggetto di studio:

 

  1. la musica psichedelica non è confinabile in un periodo storico preciso, ma trattandosi di un genere musicale è potenzialmente rinvenibile in tutte le epoche della storia del rock, per lo meno da dopo l’avvento dell’LSD sulla ribalta giovanile: alcune guide (Joynson, 1984; Rizzi, 1986, 1999 e 2001; Ferrari, 2007 e 2008) non a caso espandono la trattazione anche a periodi successivi, con artisti e dischi della cosiddetta ‘neo-psichedelia’ e del ‘paisley underground’ americano. Non solo: la scoperta di espressioni contemporanee ai Sessanta e più recenti, suggeriscono l’evidenza che la ‘psichedelia’ non è confinabile neppure territorialmente alle sole USA e Inghilterra. Interessante, ad esempio, la storia musicale dei brasiliani Os Mutantes, il cui disco eponimo d’esordio (1967) può essere considerato un vero e proprio ‘classico’…;

  1. in quanto genere (o ‘sottogenere’, secondo la classificazione di Simon Frith e dello IASPM) definito della ‘popular music’, escluderebbe tutte le altre forme: Jazz, Blues, Folk, Classica…. O meglio, come precisano Cutler (1984) e Joynson (1984), la ‘psichedelia’ come forma musicale si interseca soprattutto con il Blues (in America) e con il Folk (in Inghilterra);

  1. la stretta connessione di suoni-luci (colori, immagini) enfatizza implicitamente la dimensione ‘live’ come dimensione espressiva privilegiata della comunità ’hippy’: il disco ‘psichedelico’, quindi, quintessenza della natura ‘popular’ (Rock) in quanto prodotto dell’industria culturale ed espressione della comunità ideale di riferimento, detiene ancora di senso estrapolato dal tempo e dell’ambiente in cui è stato prodotto? E cioè: se ha avuto un senso per il pubblico ‘impasticcato’ dei Grateful Dead ascoltare “Aoxomoxoa” (Reprise 1967) dopo l’esperienza di un loro concerto live, oggi quel disco ha ancora lo stesso significato?

 

Indagare la realtà dei fatti.

 

Se può fungere da ulteriore elemento di riflessione emblematico e di provocatoria problematizzazione, confermando l’impressione che guide/enciclopedie siano fallaci e in fin dei conti fuorvianti nel tentativo ingenuo di definire con precisione il loro campo di indagine, va ricordato che i Pink Floyd – considerati in genere tra le maggiori espressioni della ‘musica psichedelica’ - negarono sempre di essere un ‘gruppo psichedelico’ (5), soprattutto quando l’aggressione della stampa perbenista e scandalistica (“News of the World” in testa) cominciò a rivelarsi un ostacolo potenziale al loro successo commerciale (marzo 1967).

 

Come ebbe modo di precisare lo stesso Barrett, ridimensionando la percezione della scena londinese, "la posizione di un appartenente alla comunità giovanile di Londra, o come vuoi chiamarla, non era effettivamente percepita come tale - underground - e capita dalla gente. Non lo credo, soprattutto dal punto di vista dei gruppi. Mi ricordo che all'UFO una settimana c'era una band, la settimana dopo ce n'era un'altra; un continuo andare e venire in cui ognuno presentava il suo set, e non penso che la cosa fosse così attiva come avrebbe dovuto essere... Quello che stavamo facendo era in pratica un microcosmo di quella specie di filosofia che circolava a quei tempi e che era un po' troppo superficiale" ("Melody Maker", marzo 1971).

 

Il batterista Mason nel gennaio 1967: “Noi non ci consideriamo un gruppo psichedelico né sosteniamo di suonare musica psichedelica. È soltanto la gente ad associarci ad essa, soprattutto perché partecipiamo ai vari concerti alternativi che si organizzano qui a Londra. Guardiamo le cose come stanno: non esiste in verità una chiara definizione del termine "psichedelico". È qualcosa che ci sta attorno ma che non ha niente a che fare con noi".

 

E Roger Waters: "Siamo semplicemente un gruppo pop. Ma dato che usiamo le luci colorate sul palco un sacco di gente immagine che la nostra intenzione sia quella di suggerire messaggi sgradevoli o, addirittura, demoniaci" ("New Musical Express", luglio 1967).

 

Si trattò quindi, più semplicemente, solo di una delle tante mode passeggere tipiche della storia del Rock innescate da giornalisti e discografici nella spasmodica ricerca di nuovi temi di cui scrivere e pubblico a cui vendere dischi? Quali gruppi furono autenticamente ‘psichedelici’ e quali, al contrario, approfittarono della nascita di una scena dedicata?

 

 

Note:

(1) A. Carrera, “Musica e pubblico giovanile in Italia” (Feltrinelli, Milano 1980);

(2) riserva che comunque non riguarda solo questo titolo della collana… Altro ‘terreno minato’, ad esempio, i volumi sul ‘Progressive’ curati dalla stesso Rizzi (Giunti, 1996 e 2003);

(3) mentre il volume curato da Rizzi propone “94 voci di solisti e gruppi”, con un ottimo apparato iconografico (riproduzioni a colori di molte copertine, foto d’epoca, poster…), il volume curato da Ferrari (in bianco e nero), limitato alla scena inglese, offre al lettore una selezione di 46 schede, con una sezione conclusiva dedicata all’”arte del perfetto 45 giri” e una ai principali personaggi del periodo;

(4) il volume di Joynson offre ben 216 schede, comprensive anche dei gruppi che non hanno all’attivo un album;

(5) le dichiarazioni che seguono sono tratte da “Pink Floyd. Dizionario A-Z” (Arcana Editrice, Milano 1990) a cura di Luca Ferrari.

 

(21 agosto 2009, dal sito defunto La Dea Bicefala - https://www.lucaferrari.net)

 

 

STORIA ABBREVIATA (& PARZIALE) DELLA MINIATURIZZAZIONE SONORA.

 

1. L’idea di “miniaturizzare” i suoni.

 

È un po’ come in certi film del cinema muto: da un’auto escono uomini, animali, oggetti in una sequenza interminabile, come se lo spazio interno dell’auto fosse inesauribile. Era l’idea di utilizzare il medium al massimo delle sue possibilità, sortendo effetti paradossali e grotteschi. In certe comiche in bianco e nero, poi, due personaggi trasportano un tronco d’albero talmente lungo che il primo che esce dallo schermo rientra dalla parte opposta sortendo un effetto certamente esilarante.

 

L’idea di miniaturizzare i suoni è, anzitutto, una provocazione nei confronti dei limiti del supporto discografico e del suo uso: all’epoca del vinile, e fino agli anni Ottanta, 40-45 minuti era il tempo massimo utilizzabile prima che lo spazio disponibile distorcesse il suono.

In un album tradizionale, tarato su brani tra i tre e i quattro minuti, ce ne potevano stare un massimo di 10-15, non di più, a meno di ridurne la durata. Nel corso degli anni Settanta, in piena isteria “Progressive”, i musicisti arrivarono addirittura a dilatarne talmente i suoni da ridurli a un solo brano per facciata: “Echoes” dei Pink Floyd, ad esempio, che uscì nel 1972, dura . La suite “Atom Heart Mother”, invece, occupa il lato A del disco omonimo del ’70 e dura ben 23'45.

 

Altri tempi, si dirà. Tempi in cui la dilatazione dei brani sfidava coraggiosamente i crismi della composizione classica ricalcata spesso maldestramente sulla suite ottocentesca. Il vinile, soppiantando il 45giri che aveva dettato legge nelle decade precedente, consentiva sperimentazioni del genere, imponendo una pratica alternativa dell’ascolto in reazione alla cultura “mordi-e-fuggi” del juke-box.

A partire dagli anni Ottanta, con l’affermazione della disco music e del video clip, si registrò un drastico ritorno all’estetica del brano da tre minuti, soprattutto in ambito pop. Lo stesso Rock soppiantò la sperimentazione rivolgendo la propria attenzione alla composizione breve, comunque non oltre i 4-5 minuti.

 

2. “Miniatures”, l’antesignano.

 

Curata nel 1980 da Morgan Fisher, già tastierista degli Hope The Mottle, la raccolta “MINIATURES. A sequence of fifty one tiny masterpieces” (Pipe Records PIPE2, UK 1980) rappresentò una straordinaria novità in ambito “popular” per l’idea originale di coinvolgere 50 musicisti intorno all’idea di composizione originale breve, “non superiore al minuto”.

Il progetto di Fisher non era totalmente inedito, per la verità. L’anno prima lo stesso si era infatti imbattuto casualmente nell’ascolto di “The Goofing-Off Suite” (Folkways FA2045), un 10” di Peter Seeger pubblicato nel 1955 che conteneva una serie di brani della tradizione popolare e classica (tra cui il celebre tema della Nona Sinfonia di Beethoven) riarrangiati per banjo e mandolino solo. Seeger, anche a causa del formato limitato a disposizione, aveva pensato di comprimere quelle versioni in esecuzioni inferiori al minuto, un’eccentricità per i tempi (per quanto debitrice della diffusa pratica in ambito “classico” e “operistico” di proporre estratti delle opere…), certo, ma di indubbia efficacia espressiva (si ascolti l’edizione in CD del 2003, l’unica attualmente disponibile, che raccoglie anche un altro disco, “Darling Corey”, del 1950).

 

La peculiarità di “Miniatures”, comunque, fu quella di stimolare la composizione di brani originali senza preclusione di genere, appaiando musicisti d’avanguardia (Geesin, Nyman, ad autori di “popular music” (Wyatt, Fripp, Residents…) e a non musicisti (ad esempio il famoso ‘antipsichiatra’ Ronald Laing) in totale libertà espressiva. Il disco (rieditato in CD nel ’94) risulta tanto vario quanto affascinante, assolutamente inedito ad ogni ascolto.

Tra le numerose prove degne di rilievo, memorabili a questo proposito la trasposizione della “storia del rock” di Andy Partidge, mente degli XTC, riassunta in assoli di chitarra elettrica-tipo e la rilettura parodistica di Sinatra nella Rangers in the nightdi Robert Wyatt.

 

 

3. La variante Residents.

 

Nell’anno di “Miniatures” i Residentes esplorarono l’idea della “miniaturizzazione sonora” applicata al jingle pubblicitario con “COMMERCIAL ALBUM” (LP - Ralph Records, USA 1980). Si trattava di 40 composizioni originali immaginate come possibili sigle pubblicitarie, strumentali o vocali, comunque della durata non superiore al minuto.

 

(…) Il gruppo sentì la necessità di muoversi in una direzione più luminosa e brillante… qualcosa di più ‘commerciale’”, spiegano le note di presentazione dell’edizione celebrativa in CD apparsa nel 2004. “Con questo in mente, i Residents presero in considerazione il termine “commerciale” e in breve giunsero alla conclusione che significava breve, attraente e, quasi sempre, . Quindi, dal momento che la maggior parte della musica “commerciale” ha, nella migliore delle ipotesi, troppo poco contenuto o creatività da giustificare il tempo in cui viene consumata, decisero che l’approccio migliore alla cosa era quello di limitare le loro canzoni “commerciali” a un minuto – sessanta secondi – la lunghezza standard dei tipici inserti commerciali”.

 

Il risultato – una brillante, avvincente concatenazione di brani traboccanti humour e intelligenza – scardina sarcasticamente i principi standard della composizione del pezzo rock fondati sulla “strofa” e il “ritornello”. Strofa e ritornello, generalmente, sono ripetuti due-tre volte in un pezzo da tre minuti (AB-AB-chorus-AB-chorus-coda): riducendo le ripetizioni i Residents limitano il brano al verso o al ritornello con un’operazione di taglia incolla. I risultati migliori, non a caso, riguardano micro canzoni complete, come fossero state compresse – “Japanese Watercolor” o “Picnic Boy”, ad esempio.

 

Come ha brillantemente scritto il sociologo Paolo Prato, “il disco celebra la forma del jingle pubblicitario come ultimo possibile contenitore di una creatività ormai compressa e costretta nel tempo, un tempo immemore della propria emancipazione “progressiva” della forma-canzone, che ripiega su se stesso arretrando verso le soglie minimali della significazione. È una creatività aforistica, quindi, che ha la verve degli “Sport et Divertissements” di Satie e l’unità stilistica dei “Mikrokosmos” di Bàrtok”. (P. Prato, 1985)

 

4. Idee clonate

 

Sul modello di “Miniatures”, nel 1993 l’inglese Martin Archer concepì l’operazione “NETWORK”, giunto ad oggi a due volumi editi in formato CD dalla Discus Records. Il primo, “NETWORK Volume One: 55 music miniatures” (Discus Records CD3), della durata di 78 minuti, raccoglie 55 musicisti dalle disparate provenienze di genere (elettronica, rock, avanguardia…) impegnati in composizioni originali di 90 secondi l’una. Il secondo volume, pubblicato nel 1995 (Discus Records CD5), propone 54 musicisti sulla base dello stesso criterio-base.

 

Nell’anno, il 1995, in cui Morgan Fisher bissa il progetto “MINIATURES” con il secondo volume intitolato “MINIATURES 2. A sequence of sixty tiny masterpieces” (Cherry Red CDBRED165, UK 1995) - che raccoglie, stavolta su formato CD, 60 artisti d’ambito disparato (rock, jazz, folk, classica contemporanea, avanguardia…) impegnati in pezzi della durata di un minuto – gli americani RAKE pubblicano il doppio CD “THE ART ENSEMBLE OF RAKE”/”TELL-TALE MOOG” (VHF, USA 1995) sul cui secondo disco propongono 75 pezzi sotto il minuto che sono fulminanti paradigmi di genere (dallo space-rock al progressive, dall’ambient music alla psichedelia…). Una freakeria, considerato che usualmente il gruppo si cimenta in composizioni a lunga durata debitrici di Pink Floyd, Mahavishnu Orchestra, Jimi Hendrix.

 

Nel 1999 l’etichetta punk californiana Fat Wreck Chords ha lanciato sul mercato la raccolta “SHORT MUSIC FOR SHORT PEOPLE”, 101 gruppi a cimentarsi con brani originali di 30 secondi l’uno. Nel disco (un 12” in vinile) gruppi noti (The Damned, Bad Religion, Blink 182, Circle Jerks, Offspring…) e meno noti si cimentano con l’idea di “musica breve” per “gente brevilinea”: in mancanza di un “manifesto” (il libretto in bianco e nero allegato si limita alla carrellata dei gruppi coinvolti), l’idea ispiratrice del progetto è suggerita dalla bella copertina a colori di Brian Clarke – un gruppo di piccoli alieni dalla grande testa che ballano al ritmo di una fonovaligetta portata da un’umana appena sbarcata dalla sua navicella.

Per quanto ben curato e confezionato, in termini di ‘prodotto culturale’ il disco è poca cosa: l’effetto all’ascolto è quello di un susseguirsi di brani punk/hard rock senza soluzione di continuità tra pezzo completo compresso (AB-chorus-AB) e la sigla da jingle televisivo. Comune denominatore la velocità dell’esecuzione, che conferisce al disco un climax di permanete eccitazione.

 

I They Might Be Giants, gruppo americano votato sin dagli esordi alla miniaturizazione sonora, con il loro breve album “APOLLO 18” del 1992, costituito da 38 pezzi di cui gran parte sotto i due minuti, registrano “Fingertips”, un pezzo di 5 minuti composto da venti micro-brani della durata inferiore ai trenta secondi (ben quattordici durano meno di 10”!).

 

Gli italiani Dario Antonetti e Massimiliano Dolcini, hanno lanciato nel 2002 il “VEGETABLE MAN PROJECT”, giunto sinora al quarto volume, con il folle intento di pubblicare 1000 esecuzioni dell’inedito brano di Syd Barrett entro il 2010. Un’uscita speciale in vinile formato 10” del 2003 (OV002), riprende concettualmente l’idea di “Miniatures” proponendo ai musicisti coinvolti di registrare esecuzioni dello stesso brano di soli 10”. Il disco, della durata complessiva di 10 minuti, raccoglie 60 gruppi di genere (rock, elettronica, avanguardia…) e provenienza geografica disparata (Italia, Inghilterra, Canada, Olanda, USA, Svezia…) con l’effetto conclusivo di suonare come una colonna sonora in cui il tema di “Vegetable Man” emerge periodicamente dal un sedimento di suoni e rumori contemporanei…

 

5. Tipi di miniaturizzazioni

 

Dagli esempi disponibili si deduce che i modelli di riferimento si riducono in buona sostanza a due:

  1. in termini compositivi, il pezzo è riprodotto in scala ridotta, pur mantenendo gli elementi e la struttura del pezzo da tre-quattro minuti: nel disco dei Residents, ad esempio, alcuni pezzi sono minuscole opere complete di intro, strofa e ritornello, secondo lo standard della forma-canzone. Struttura tradizionale e durata sono elementi integrati e determinanti;

  2.  

 

6. Significati culturali

 

Nel 1938 Marcel Duchamp disegnò un’ingegnosa scatola in pelle, una specie di museo personale per riproduzioni in scala ridotta di sessantotto sue opere. La scatola serve a garantire la sopravvivenza delle sue idee, che per lui sono sempre state più importanti delle stesse opere che la scatola conteneva…

 

7. Discografia selezionata

Peter Seeger – “Goofing-Off Suite” (10” LP - Folkways FA 2045 40018 mono, USA 1955)

Rieditato nel 2003 in CD con l’album “Darling Corey” (Smithsonian/Folkways 40018, USA)

AA.VV. - Miniatures. A sequence of fifty one tiny masterpieces” (LP – Pipe Records PIPE2, UK 1980)

Rieditato nel 1994 su CD dalla Cherry Red Records (

The Residents - “Commercial Album” (LP - Ralph Records, USA 1980)

Rieditato nel 2004 su CD dalla Ralph Records/Cryptic (n° catalogo: 0 724387 434820).

AA.VV. - “Network. Volume One: 55 music miniatures” (CD - Discus Records CD3, UK 1993)

Esaurito, è disponibile in copia CD-R al sito

AA.VV. - “Network. Volume Two: 54 music miniatures” (CD - Discus Records CD5, UK 1995)

AA.VV. – Miniatures 2. A sequence of fifty one tiny masterpieces” (CD - Cherry Red Records CDBRED165, UK 1995)

Rake – ”The Art Ensemble Of Rake”/”Tell-Tale Moog” (2CD – VHF, USA 1995)

They Might Be Giants – “Apollo 18” (CD - , USA)

Contiene il brano “Fingertips”, suddiviso in 20 parti.

AA.VV. – “Short Music for Short People” (LP - Fat Wreck Chords , USA 1999)

AA.VV. – “The Vegetable Man Project” (10” LP – OV002, ITA 2003)

 

8. Riferimenti bibliografici

 

Richard Hamilton, “The Bride Stripped Bare By Her Bachelors Even” (Editions Hansjorg Mayer, London 1976)

Versione tipografica curata da Hamilton della famosa scatola verde di Marcel Duchamp. Inizialmente pubblicata nel 1960 in tiratura limitata a 1000 copie, venne rieditata nel 1963 sempre in 1000 copie e nel 1976 in 2500 c

Paolo Prato, “Il Kitsch musicale. Incontri ravvicinati tra pop e musica classica”, in “What is popular music?” (Unicopli, Milano 1985)

Enrique Vila-Matas, “Storia abbreviata della letteratura portatile” (Sellerio Editore, Palermo 1989)

 

 

(Invitati alla ventesima edizione del Busker Festival di Pelago, splendido borgo medievale a 20 chilometri da Firenze, a intervenire il 5 luglio al forum “1968-2008: la contestazione in Italia”, abbiamo pensato di proporre una riflessione sul destino della canzone di protesta nell’Italia di oggi. Quelli che seguono gli appunti che hanno guidato l’intervento)

 

C’È ANCORA SPAZIO PER LA CANZONE DI PROTESTA IN ITALIA?

Confesso di essere poco appassionato all’idea di una celebrazione dei presunti fasti del ’68. La nostalgia non è un lusso che mi posso permettere, in questo caso, considerato il limite anagrafico (nel ’68 avevo 5 anni) e la propensione a guardare avanti, a pensare al presente in prospettiva futura.

Parto da un assunto: le forme di contestazione in passato hanno sempre utilizzato, tra le altre, il canto come strumento di lotta. Oggi che per molteplici cause non si canta più, o nei sempre più rari cortei si cantano solo canti ‘storicizzati’, servirebbero nuovi canti ad accompagnare le necessarie forme di lotta. Servirebbero… se.

In un mio libro del 2003 dedicato alle nuove forme di folk revival, chiedevo a uno dei maggiori studiosi di canto sociale – Cesare Bermani –  se riteneva ci fosse ancora spazio per una nuova canzone di protesta. Mi rispose di sì, la cosa era certamente possibile.

Lo stesso Alessandro Portelli, in un’altra intervista, era fiducioso al riguardo: sosteneva che anche i giovani di oggi avrebbero trovato prima o poi la loro strada, i loro canti.

Se ci soffermassimo a pensare, però, a quale canto in questa  vischiosa contemporaneità è deputato a rappresentare un movimento di lotta, un’istanza rivendicativa, saremmo  credo in difficoltà.

Ho l’impressione che non esistano nuovi canti di protesta, oggi. Nuovi canti condivisi, che inducano a identificarsi, a riconoscersi. Non è un caso, infatti, che nei pochi cortei che ancora si organizzano nelle strade e nelle piazze italiane, i canti che si cantano si riducono a  “Bella Ciao” (nella versione partigiana), “L’Internazionale” e “Compagno Che Guevara”.

E pensare che solo negli anni Settanta, un’intensa stagione di lotta sindacale, politica, sociale certamente figlia del ’68 inaugurò un canzoniere ricchissimo, facendo salire alla ribalta dei movimenti di lotta gruppi e autori nuovi, fino ad allora quasi sconosciuti.

 

Fausto Amodei, autore tra le tante altre di un canto epocale che purtroppo oggi è in disuso – “Per i morti di Reggio Emilia” (1960) – non era propriamente sconosciuto arrivando da un’esperienza cruciale per il destino della canzone italiana quale fu Cantacronache. Movimento che, proprio grazie a Amodei e Sergio Liberovici nato a Torino alla fine degli anni Cinquanta (1958) come contestazione della canzonetta sanremese (tra gli altri, Franco Fortini, Umberto Eco, Italo Calvino), avrebbe generato il Nuovo Canzoniere Italiano (dal 1962) di Roberto Leydi e Gianni Bosio, più interessato alla raccolta e alla riproposizione di canti popolari tout court che alla nuova composizione. Promotore di centinaia di spettacoli per la penisola tra cui “Bella Ciao”, “Ci ragiono e canto”, “Pietà l’è morta”, di un’etichetta discografica (I Dischi del Sole) e di un vero e proprio movimento di autori e intellettuali.

Da quelle esperienze, comunque, negli anni Settanta i Dischi del Sole e la Vedette (in particolare con la collana Albatros), dischi rigorosamente in vinile, lanciano numerosi gruppi e autori di nuova composizione: Amodei, appunto, Ivan Della Mea (“O cara moglie”), Paolo Pietrangeli (“Contessa”), Michele Straniero, Virgilio Savona, Gualtiero Bertelli (“Nina”), Rudi Assuntino (“Le basi militari”) Alfredo Bandelli e il fenomeno dei Canzonieri, vero e proprio laboratorio di nuova composizione: il Canzoniere delle Lame di Bologna, il Canzoniere Pisano, il Canzoniere del Valdarno, il Canzoniere Internazionale di Roma (con Leoncarlo Settimelli e Dodi Moscati), il Canzoniere Popolare del Veneto (con Gualtiero Bertelli, Luisa Ronchini, Alberto D’Amico), il Canzoniere del Lazio (Sara Modigliani, Piero Brega, Francesco Giannatasio, Carlo Siliotto), il Canzoniere di Rimini, il Canzoniere Femminista (di Padova). Gruppi che riprendono alcuni si i ‘classici’ della canzone d’autore di quei mesi ma che, soprattutto, compongono nuove canzoni di protesta e le propongono per le piazze, nei festival dell’Unità e dell’Avanti, nei circoli ARCI, nelle Case del Popolo… Compongono a partire dalla loro precisa collocazione e attività di militanti politici di sinistra: Pino Masi, uno dei maggiori  autori di quegli anni, costituisce il Canzoniere Pisano (in seguito Canzoniere del Proletariato) che diventa il ‘braccio musicale’ di Potere Operaio a Pisa; Alfredo Bandelli, uno dei maggiori compositori del periodo, è operaio della Piaggio a Livorno, il Canzoniere delle Lame è strettamente legato al PCI…

L’idea di una nuova funzione della canzone, erede più di Cantacronache che del beat, è chiara sin dai ‘manifesti’ espressi sulle copertine dei dischi.

Dal disco “Il bastone e la carota. Canti di ribellione dei giorni nostri” (1971) del Canzoniere Internazionale, ad esempio:

 

“Agnelli chiude il bilancio della Fiat commentando che “è necessario produrre di più”. A Roma 150.000 lavoratori del Meridione si riuniscono in Piazza del Popolo per ricordare combattivamente la loro presenza. Centocinquantamila, come “l’autunno caldo”.

Nella musica l’ondata beat e protestatoria all’acqua di rose lascia il posto alla canzone che dice davvero i problemi:

di chi lavora in fabbrica

di chi va all’università

di chi è figlio di contadini

di chi cresce in una famiglia  di gente che crede di essere quello che non è e non accetta un ruolo passivo

I fantasmi del passato rispolverati per mettere paura

Le sirene della polizia

Il meccanismo della repressione

C’è tempo per l’amore, dopo le catene di montaggio?

Ascoltare una canzone d’amore non  basta”.

 

La funzione d’uso di quella musica, erede del canto tradizionale, prevedeva che il canto finisse su disco solo dopo essere stato proposto nei diversi contesti ‘sociali’. Era cantato e vissuto, condiviso. Diventato oggetto di confronto e dibattito, materia viva, strumento di analisi e di elaborazione. Poi lo si ritrovava sul disco, come documento, come oggetto di rivendicazione e di appartenenza a un movimento di idee, a un preciso ambito culturale. I Dischi del Sole, per fare forse l’esempio più illustre, erano lontani dall’avere una logica commerciale, di mercato. Eccetto qualche raro caso isolato (ad esempio lo spettacolo “Bella Ciao” che sarebbe arrivato a vendere le 100mila copie), anche i dischi più gettonati del periodo il primo anno non superarono le 2.500 copie.

Esistevano con l’obiettivo di costituire un corpus di materiali politici, anzitutto, al pari dei libri e dei documentari, trasmessi quasi solo oralmente. E i contenuti avevano in genere a che fare con la realtà vissuta, con fatti precisi, eventi circostanziati come nella tradizione degli hobo d’America (Woody Guthrie, Joe Hill, Peter Seeger, il ‘primo’ Dylan…) che suonavano a sostegno degli scioperi e delle manifestazioni sindacali.

La spinta dei Settanta si attenua fin quasi ad esaurirsi. Nel ’77 il ’68 sembra già una promessa tradita.

Il Canzoniere delle Lame dedica proprio all’eredità del ’68 una canzone di nuova composizione nell’album “Per un discorso comune”. Titolo “Del ’68 resta…”. L’analisi è spietata ma realistica:

 

“(…) Del ‘68

Restan le rotture e la rabbia,

ma resta anche la muffa,

ma resta il non abbattuto,

resta la Vecchia, Astuta Cultura.

Da quel ricordo di alba

emerge nitida

la nostra coscienza,

maturata e cresciuta

come un frutto accanto al suo seme.

Del ‘68

restiamo noi,

uomini giovani

che siamo stanchi,

che ci sentiamo irrisolti,

che più di allora

ci sentiamo spersi, traditi.

No, non soltanto per quel lavoro

che non riusciamo a trovare,

per quella scuola

che non riusciamo a cambiare,

ma perché dopo tanti anni

molto è in noi come prima,

ma perché in tanti anni

non s’è imboccata la strada

che ci conduca lontano

da questo vivere male,

da questo vivere soli;

perché non s’è aperto

nessun discorso comune

e assieme non s’è tentato

di dare qualche risposta

alle angosciose domande

che il nostro essere giovani

grida smarrito.”

 

Accade che, come racconta Bermani nel seminale “L’Orda d’oro” di Nanni Balestrini e Piero Moroni (Feltrinelli, 1978), l’esperienza del Nuovo Canzoniere Italiano e dell’etichetta principe – I Dischi del Sole – che pubblicherà, fino al 1980, ben 276 LP – entra in crisi quando il PCI (grazie al quale si organizzano il 70% degli spettacoli), interessato ad entrare come azionista nelle Edizioni Avanti! (le edizioni musicali del NCI), impose tra le condizioni quella di poter controllare l’attività e i repertori dei gruppi. Anche l’esperienza di Cantacronache si era conclusa proprio quando, agli inizi degli anni Sessanta, il PCI aveva tentato di fare di Italia Canta, l’etichetta discografica, un business di successo al pari della canzonetta commerciale che era stato proprio l’obiettivo da contrastare…

Dagli anni Ottanta, comunque, anche in Italia si continuano a registrarei esperienze importanti sul fronte della canzone ‘politica’. Un recente volume di Bordone e Testani “Oggi ho salvato il mondo. Canzoni di protesta 1990-2005” (Arcana 2007), repertoriando una sessantina di canzoni tra italiane e straniere, dimostra che la produzione è continuata praticamente fino ad oggi, per quanto confinata nell’ambito del mercato discografico.

Nonostante l’esperienza fondamentale dei centri sociali sorti nel corso degli anni Novanta (oggi in evidente crisi), che hanno rappresentato nuovi contesti di espressione dell’antagonismo giovanile soprattutto attraverso la cultura Hip-Hop, lo scenario contemporaneo si presenta decisamente ridimensionato in termini di pratica militante e rifunzionalizzazione della canzone di protesta com’era intesa nei Sessanta e Settanta.

In questi anni YouTube e MySpace, e tutta la sottocultura degli internauti, hanno offerto indubbiamente nuove opportunità, suggerendo potenziali strumenti alternativi di ‘lotta’ politica: l’esperienza del Blog di Beppe Grillo coi suoi 100.000 accessi quotidiani e i “Vaffanculo Day” è forse uno degli esempi più significativi, ma è raro il caso di un fenomeno contestatario che nato sul Web abbia ricadute di massa nella realtà dei vissuti quotidiani.

C’è fermento, è indubbio – anche perché almeno sul piano teorico non mancato nuove ragioni di lotta -, ma ben lontano però dal minacciare lo strapotere del mainstream, della Cultura Ufficiale che detiene il monopolio dei media e orienta opinioni e consumi.

Le multinazionali del disco, pur in palese crisi di fatturati, detengono ancora quasi il 90% del mercato. Le briciole sono lasciate alle cosiddette Indie, indipendenti, che di fatto lo sono in funzione di questo sistema e solo di questo. Esistono circuiti alternativi ma assolutamente minoritari, invisibili ai più.

E dunque perché tanta impotenza nell’articolare con strumenti nuovi l’incoercibile diritto a protestare utilizzando anche la canzone come strumento?

 

Concludo abbozzando un’analisi delle possibili cause del fenomeno:

1. crisi della politica dei partiti, un tempo (a Sinistra) traino della contestazione dal basso: tramonto dell’idea di collettivo e di comunità, di partecipazione, ‘ideali’ diventati improvvisamente ‘vecchi’, ‘fuori moda’, impronunciabili;

2. sostanziale diffidenza dei partiti della Sinistra nei confronti del movimento no-global (culminato nell’infamia del G8 di Genova);

3. crisi economica e conseguente restringimento delle risorse disponibili per la cultura (meno festival, meno concerti, meno contesti di espressione in genere…);

4. pesante condizionamento dei media (soprattutto televisivi) come megafono del mercato (consumi): è inimmaginabile oggi riuscire a ‘incidere’ sulle coscienze collettive senza dover fare i conti con il potere della comunicazione televisiva che impone degli standard fissi cui adeguarsi;

5. polverizzazione degli spazi fisici ridotti a non luoghi (Augè): per Bauman questi anni registrano il passaggio a un mondo-metropoli, “liquido”, in cui la massa ‘sciama’…

6. è l’età della surmodernità (Augè): era dell’‘eccesso’: viviamo sommersi da troppe immagini, troppe informazioni, troppi oggetti e l’effetto è quello dello spaesamentp e dell’accecamento.

 

Oggi “strada” è diventato sinonimo di “paura”, “pericolo”, “minaccia delle libertà” e le politiche governative, proprio come negli anni Settanta, utilizzano queste ansie ingiustificate per ottenere consenso e garantirsi il controllo dei cittadini, quindi il potere.

Bisognerebbe ripartire dalla strada, quindi, (ri)occupare lo spazio pubblico. Tornare a rendere pubblico il privato come si cantava una volta.

(25 giugno 2008)