Recensioni musicali

Recensioni di dischi ascoltati negli ultimi anni. Un esercizio di stile, una sfida, un confrontarsi con l'impervio, insormontabile dramma critico dell'analisi della musica contemporanea dove ogni categoria di riferimento è fatalmente fallace e non si può, come ha scritto Celine, che rimanerci secchi...

 

MO KOLOURS - Mo Kolours" (CD - UK 2014)

Giovane cantante, percussionista e produttore mezzo mauritano e mezzo inglese, Mo Kolours esordisce con un album vero e proprio dopo tre EP stimolanti. La formula, la stessa che ci aveva già conquistati: soul, dub, hip-hop, elettronica, le radici ben piantate nella musica Sega delle isole Mauritius.

Il tutto shakerato in uno stile unico per inventiva e musicalità in cui alla musica tradizionale dell'Oceano Indiano, espressa soprattutto nel gusto per le percussioni e le timbriche, si sposano disparate influenze rock (Jimi Hendrix? Beck?), soul (Lee Perry), new wave (A Tribe Called Quest, Massive Attack) e ska (The Specials).

Un'arte dell'ibridazione sonora, non nuova, intendiamoci, che ha ascendenze lontane e si deve alla straordinaria varietà etnica britannica, al coraggio di certi artisti inglesi nel sintetizzare una varietà di stili che sono espressione di una diversità identitaria che nel tempo ha generato fenomeni straordinari come il reggae (Bob Marley venne scoperto e lanciato dall'Island, etichetta inglese), lo ska o la world music anni '70-'80 che rianimò il rock ormai esangue (grazie al genio di David Byrne e dei Talking Heads, Brian Eno e Peter Gabriel) e lanciò sottogeneri popular come certo funk/soul radicale imbastardito col free-jazz (The Pop Group e Rip Rip & Panic, due gruppi da riscoprire assolutamente!).

Mo Kolours, nel solco di queste esperienze decisive, registra diciotto brani brevi, alcuni sotto il minuto, caratterizzati da brillante senso ritmico (acustico ed elettronico), scintillante radiosa vocalità, geniale capacità combinatoria (loop, delay, campionamenti...), un gusto originale per le timbriche sintetizzate che lo rendono un documento perfetto della contemporaneità liquida che abitiamo: frammentata, caotica, sovreccitata. Sincretica e digressiva come non possono che essere le opere d'arte dell'oggi che raccontano il vagare nomade delle idee, l'incontro/collisione di mondi lontani, l'irrefrenabile potenza emozionale dell'immaginazione, il caos contro l'ordine che è consuetudine, routine, morte...

Qui troverete pezzi apparentemente esili come “In Her Eyes” (due minuti e venticinque) fatti di mani che battono segnando un semplice ritmo in due tempi e campanellini, le voci che si rincorrono frammentate da vocalità sovraincisa in loop; o gioiellini con “Child's Play”, in cui sul sottofondo di bambini che giocano nel parco (dal titolo) un lieve ritmo di piatti si accompagna ad accordi minimali e iterati di pianola.

Cose così, insomma, che a tratti (ad esempio nell'ossessiva “Other Day House”) mi hanno ricordato un grande sottovalutato capolavoro del 1998, “Whoops I'm An Indian” di Hal Willner (non l'avete ancora ascoltato? Correte subito a comprarlo!).

(28 marzo 2014)

 

NICHOLAS TOMLINSON - "Another Planet" (CD - Canada 2014)

Di Nicholas Tomlinson, canadese, non circolano notizie. Solo qualche rara foto in Rete che lo ritrae come un hippy fuori tempo massimo: chitarra acustica, barba lunga incolta, cappellaccio e camicia colorata, l'aria svagata di chi sembra trascorrere il suo tempo sdraiato in un campo a osservare il cielo che cambia. Nell'arco di pochi anni ha già registrato otto album, tra autoproduzioni e piccole etichette sconosciute.

L'ultimo “Another planet” contiene dodici pezzi, “registrati il 4 marzo 2014, un modesto giovedì”, il più chitarra acustica, piano e voce, con sparuti abbellimenti di violino, tastiere e seconde voci.

La sua, una voce antica, gemella per timbrica ed estensione di quella, mai abbastanza valorizzata, di Tom Rapp (leader dei Pearls Before Swine, band straordinaria da riscoprire nelle giornate d'autunno, la nebbia di fuori, il taedium vitae e una tisana fumante tra le mani...). In alcuni brani ricorda la grana di Devendra Banhart, idiosincratica e visionaria.

E benché si sarebbe indotti a classificare il lavoro sotto la facile etichetta di 'folk', in realtà la musica è tanto varia da sfuggire alle semplificazioni giornalistiche di maniera: dalla ballata lisergica in perfetto stile californiano (“Hard Road”) all'old-time da fiera di paese (“Welcome to where Livings Made Easy”), dal pop acustico ispirato a Bowie (“The Reaper”) alla country-song con slide a due voci (“Sea Lion”), l'album è un campionario di armonie retro ben congegnate, imbastite con un gusto spiccato per l'imperfezione e una cura al dettaglio per la trasandatezza.

I testi, piccole apologie di vita on the road (“Camminavo per la strada, non avevo tempo di badare a dove andavo, ma avevo tempo di galleggiare pigramente su un fiume lento...”), amore trasfigurato (“La mia ragazza sembra credere alla magia, aiutami a crederlo, se corressi libero avrei solo lei in mente; parlami delle sue scintille, dimmi come fa un cuore a non essere mai fermo, noi proviamo ad arginarlo”), incantamento per la natura (“Ricorda i giorni magici seguiti da notti infinite, ogni
esile meravigliosa biografia giace nel vaga oscurità estesa del regno...”).

Lo strumentale “Green Mountain”, proprio in coda all'album, piccolo capolavoro senza tempo: tre minuti di chitarra elettrica arpeggiata su un discreto tappeto sonoro sintetizzato nello stile, rimasto quasi inimitabile, dei Durutti Column (era il 1980 e sul piatto di casa mia girava costantemente il loro “LC”...). Sinistro, evocativo, trasognante. Musica da un altro pianeta.

(21 marzo 2014)

 

SPAIN - "Sargent Place" (CD 2014)

Per farvi un'idea di cosa è diventata la popular music contemporanea in termini di evoluzione dello studio di registrazione e delle sue tecnologie il nuovo album degli Spain è un valido banco di prova.

Basti sapere che la produzione è stata affidata a Gus Seyffert (già con The Black Keys, Beck, Norah Jones) e il missaggio a Darrell Thorp (genietto al servizio di Beck, Radiohead, Atoms For Peace, Paul McCartney). La band ha lavorato nello studio di Echo Park (California) di Seyffert che si trova in Sargent Place, da cui il titolo del disco.

Inserite il CD nel lettore e ascoltate il primo pezzo, “Love at first sight”, un insinuante, morboso due tempi lento, cantato con l'intonazione maliziosa di un Lenny Kravitz: introdotto da un giro di contrabbasso in stile jazz, il brano si arricchisce via via di tastiera, batteria e, soprattutto, chitarra, in un assolo disarticolato degno di un Gary Lucas con la Magic Band di Beefheart o di un Marc Ribot con il Tom Waits del pirotecnico “Franks Wild Years”...

Se la cosa non vi convince, potete sempre passare al brano che segue, “The Fighter”, un gioiellino in stile Anni Cinquanta tipico dei cantanti 'confidenziali' americani (avete in mente Paul Anka, ad esempio? O i Platters?).

I suoni sono cristallini, i livelli equilibrati, le timbriche scintillanti, la costruzione armonica ineccepibile. Suoni anni Duemila, nulla lasciato al caso. Confezionati per colpire l'ascoltatore e metterlo kappaò. Altro che Lo-Fi, suoni sporchi, sperimentazione... Qui si fa mainstream di classe, signori e signore! Ogni cosa è al suo posto, lucida e spolverata come si conviene.

Formatisi a Los Angeles agli inizia degli anni '90 grazie a Josh Haden (figlio del leggendario Charlie Haden, 'il' contrabbasso del jazz contemporaneo), gli Spain sono un quintetto chitarra elettrica (Daniel Brummel)-batteria (Matt Mayhall)- tastiera (Randy Kirk)-basso (Haden)- chitarra acustica (Dylan Mckenzie).

Ormai alla settima uscita, il gruppo ha suscitato attestazioni di stima (un loro brano è stato reinterpretato nientemeno che da Johnny Cash per il suo favoloso “Unchained”) e collaborazioni prestigiose (Wim Wenders ha voluto un loro brano nella colonna sonora di “Crimini Invisibili” del 1997). Per il critico Mark Deming (All Music.com) il loro è “un rock alternativo che spesso coniuga immagini di tarda notte e cuori infranti grazie a una musica di basso profilo ma emotivamente potente, ispirata da jazz d'annata con un approccio privo di ironia”.

I dieci brani in scaletta dicono questo, infatti, attraversando con impressionante maestria blues (“From the dust”), pop rock (come in “Sunday Morning”, dove è Prince a far capolino...), rock anni cinquanta, folk elettrico (“In my soul”, brano da ricordare).

 

(14 marzo 2014)

 

ANN MARIE HOWARD - "Flowers and Dyes" (CD - 2014)

Vince l'oscar “La grande bellezza” ed è un prevedibile tripudio di peloso orgoglio nazionale. Il presidente della Repubblica: “Splendida vittoria per l'Italia”. Renzi: “Orgoglio italiano ci sta tutto”. Addirittura Nino d'Angelo esulta in nome della città del Vesuvio: “Gioia per tutti i napoletani”, così la cremonesità più provinciale: “Il massimo riconoscimento al regista Paolo Sorrentino, che nel cast si è avvalso del lavoro di un attore di Isola Dovarese: Dario Cantarelli” (da CremonaOggi.it). Insomma l'oscar è anche un po' cremonese. In qualche modo, è come si volesse affermare, il film è espressione di una identità specificamente italiana.

Ma è poi così vero?

A giudicare dalle fonti di ispirazione del regista, per la verità, si sarebbe indotti a credere altro: Fellini, Maradona, Talking Heads e Scorsese sono limitabili in un territorio preciso, una nazione, un popolo o sono piuttosto prodotti culturali del mondo?

Sarebbe come dire che la Gioconda di Leonardo è italiana (infatti è esposta al Louvre) o che Mina è una cantante 'cremonese' (infatti abita in Svizzera da una vita). E l'ultimo album di Anne Marie Howard, uscito nei giorni scorsi, può legittimamente rappresentare il suono di Liverpool, città in cui vive?

Dieci pezzi soltanto, in prevalenza per chitarra e voce, con sparuti, dosati incisi di sintetizzatore, chitarra e seconda voce di Karl McCann, produttore del disco.

E si sentono le ascendenze dichiarate nelle rare interviste - PJ Harvey, Kate Bush e Tori Amos.

La voce è calda e spessa, d'accordo, ma le melodie delicate, gli arpeggi complessi, sostenuti da una tensione dall'attitudine rock, a tratti ispirata alla tipica digressione vocale di Jeff Buckley o alla perentorietà recitativa di perfetti sconosciuti (ma talenti puri!) di certo folk inglese d'autore imbastardito col punk (ricordate Patrick Fitzgerald? Ricordate Kevin Hewick, ad esempio? Il suo CD “Tender Bruises and Scars”, che raccoglie i primi lavori datati 1980-81, è pietra rara, di quelle che quasi non si ascoltano più...).

Nata in Galles e trapiantata sin da piccola a Liverpool, la Howard ha iniziato a 16 anni a suonare la chitarra, a 21 a comporre pezzi suoi. Pezzi che esprimono una vena malinconica e riflessiva, come “My Dream”, quattro accordi su una cadenza a tempo lento che rimandato al folk jazzistico dei Pentangle o, addirittura, per lo meno negli attacchi vocali, alle atmosfere lisergiche dei Jefferson Airplane. Il testo, una breve poesia ripetuta in due strofe: “Mistero delle acque, braccia gentili, l'eredità che continua, ne siamo tutti parte... fuori c'è una luna bianca, tantissime stelle, una luna bianca, sto ascoltando con il cuore...”.

(7 marzo 2014)

 

SABINA - "Toujours"

C'era qualcosa di sinistro nell'ascesa di Renzi (39 anni) al governo del Paese nei giorni in cui sul primo canale della TV di stato si celebrava l'ennesima replica del requiem della canzone italiana. Specchio deforme di una nazione mai diventata adulta, in cui il comando è da sempre saldamente nelle mani dei vecchi, proprio mentre in nome della 'rottamazione' e del ricambio generazionale il sindaco di Firenze sbaragliava avversari e compagni di partito per salire a Montecitorio, Fazio e Litizzetto (finti giovani bolsi e retorici) incoronavano giovani-vecchi come Rocco Hunt e Arisa davanti a milioni di italiani esausti e assonnati. Da non capirci più niente. Perché se è vero che chi partecipa a Sanremo non rappresenta necessariamente l'avanguardia del movimento della canzone in Italia, certo si trattava di un Paradossale Ben Triste Spettacolo se rapportato alla miriade di musicisti, cantanti, produttori, tecnici del suono, direttori d'orchestra e via dicendo costretti qui da noi a un'eterna gavetta, senza sbocchi, vissuta nel quasi assoluto disinteresse della politica che in settant'anni di Repubblica non ha promulgato una legge decente che regolamenti il fenomeno e, soprattutto, non ha prodotto alcuna forma di efficace incentivo per chi intende farne una professione senza dover svendere se stesso.

Nell'attesa che Renzi risolva tutto, condizione della musica compresa, se non volete indulgere nella malinconia e nella rassegnazione una ventata di aria fresca, giovane per davvero, fortunatamente esiste. Sabina Sciubba è una dei tanti 'cervelli (o dovremmo dire ugola?) in fuga' dal Paese, che nata a Roma da madre tedesca e padre italiano è vissuta in Germania, Francia, Stati Uniti, prima di ritornare a Parigi con l'idea di morirci (parola sue). Nomade, poliglotta, già ballerina e cantante delle Brazilian Girls, acclamate dalla stampa americana, in questi giorni pubblica il suo primo album solista intitolato “Toujours”, cantandolo in lingue diverse (inglese, francese, italiano, tedesco) e mescolando generi e stili con intelligenza e spregiudicatezza. Come un caleidoscopio ispirato agli anni Sessanta, l'album è una divertente giostrina di idee e sorprendenti soluzioni armoniche: dal Tex-Mex di “Tabarly”, al pop elettrico di “Viva l'amour”, per non dire di “Long Distance Love”, velvetiana a partire dal cantato declamato à la Nico e della bossa nova di “Toujours”, affogata nei magici suoni del Farfisa, il disco gira dall'inizio alla fine senza flessioni, documentando una strabordante creatività davvero rara di questi tempi. Un esempio perfetto di come si può (e si deve) vivere senza Sanremo immersi gioiosamente nella realtà vera.

(28 febbraio 2014)

 

LINDA PERHACS - "The soul of all Natural things" ( CD - USA 2014)

Con smottamenti, inondazioni, terremoti, crisi di governo ogni anno in Italia ecco che torna puntuale anche il Festival di Sanremo, parata milionaria di cariatidi e giovani di belle speranze in ostaggio delle esangui multinazionali del disco, ormai imbalsamati in una forma-canzone decotta, antistorica e misera.

Per rinfrancarsi dal rimbambimento dilagante che accoglierà come un vate Ligabue (che rifà De Andrè...) e celebrerà l'urticante ipocrisia post sinistroide del guru della retorica televisiva Fabio Fazio, l'unica è rifugiarsi dove la musica si suona davvero, senza imposizioni del Mercato e sindromi da talent show, con l'unica urgenza di esaltarne l'incoercibile natura espressiva, il peculiare potere di penetrare l'intimo umano e scuoterlo lasciandolo sgomento.

Linda Perhacs, davvero inaspettatamente, torna a quasi quarantacinque anni dal suo primo e unico album con un piccolo capolavoro di arte senza tempo. E se un merito si può ascrivere alla cultura Web è senz'altro quello di aver consentito il recupero a posteriori di artisti straordinari, riscattandoli dall'oblio definitivo. Perhacs, californiana, di professione odontotecnico, nel 1970 registrò quasi per scherzo il suo unico album che vendette pochissime copie e sparì in fretta dai negozi diventando da allora una rarità collezionistica. Ristampato grazie all'intraprendenza di un fan per una piccola casa discografica americana nel 2003 , “Parallelograms” sedusse molti per la poesia delle armonie e dei testi, l'utilizzo avanguardistico delle voci che sembrava ispirarsi alle ricerche di Caty Berberian e di Tim Buckley, un'idea di folk progressivo disinvolta e coraggiosa nel tentare di percorrere strade ancora poco esplorate.

Disseppellito questo tesoro ai più sconosciuto, alcuni artisti dell'ultimo neo-folk (tra loro Devendra Banhart) la vollero nei loro dischi costringendola a rientrare sulla scena, fino a questo inatteso secondo capitolo di nove canzoni figlie di un rilassato, raffinato pop dalle venature folk interpretato con la voce di allora, calda e melodiosa, e una rara compenetrazione nei testi, esili poesie ispirate da uno sguardo eccentrico della realtà. Come favole arcane le nuove canzoni rapiscono e confondono, turbano e seducono, evocano immagini di boschi segreti immersi nella nebbia in cui le voci si rincorrono (“Prims of glass”) o nevrosi metropolitane (la ritmica ossessiva di “Immunity”) in cui “diventiamo sempre più duri e refrattari”, sordi al richiamo dell'”anima di tutte le cose naturali” - davvero un bel titolo per un album... Non è detto che a settant'anni suonati si possa tornare a battere i palchi, rilasciare interviste , fare notte in sala di registrazione, ma è una grande lezione che Linda Perhacs sia tornata per sfidare mode culturali e stili con la semplicità e la magia delle grandi opere...

(21 febbraio 2014)

 

JESUS SONS - "Time" (CD - MP3/FLAC - USA 2014)

Deflagrati generi e stili in quel fiume carsico putrescente che è il Rock può capitare di imbattersi in una giovane band che rispolveri il 'garage', antesignano del punk. Non è semplice, dopo tutto, perché non si tratta soltanto di scopiazzare le forme e l'ardore interpretativo di quella variante muscolare del rock'n'roll nata nelle autorimesse della suburbia americana tra il 65' e il 67', ma come sempre bisogna sentirlo il groove, man - dicono i neri del funkysoulblueshiphoprap ecc. - e tradurlo in suoni. Questi Jesus Sons (da un verso di “Heroin” dei Velvet Underground), sgarruppati come giovani holden del Duemila ai margini di un mondo che non li vuole (perché questo non sarà un mondo per vecchi, come si continua a dire, ma sicuramente non è un mondo per giovani...), sputano elettricità dagli amplificatori, ammassano feedback e rullate, battono i piedi e sudano nel garage sotto casa, periferia di Los Angeles. Potete giurarci che sono stati allattati con pesanti dischi in vinile di Seeds, Electric Prunes, Thirteen Floor Elevators, Shadows of Knight, Blues Magoos (per un ripasso consiglio quella giostrina di suoni che è “Nuggets”, rieditato in CD nel 1998), ma ci mettono del loro nel ripensare a quei suoni brutti, sporchi e cattivi, l'essenza dello Spirito Più Autentico del Rock. Nove i pezzi, adrenalinici, anfetaminici, dirompenti, con evergreen tipo “You Put A Spell On Me”, “Out of Time” e “Goin' Down”, rivisitati con sorprendente originalità, e pezzi loro convincenti come “Don't wanna die”, “Melt” e “All These Furs”, che ricorda i primi Velvet dell'epica “Run Run Run”.

Sul profilo di Soundcloud si presentano così: “Le canzoni che scrivono i Jesus Sons servono da documentazione esplicita del vivere nell'America contemporanea. I testi sono pieni di personaggi loschi dei bassifondi di San Francisco. Quelli che si nascondono dietro gli angoli bui del tuo bar, che fanno lunghi tiri di sigaretta. Che hanno il fiato che sa di whisky da quattro soldi. La musica è il risultato delle origini geografiche di ogni singolo membro del gruppo. I due che arrivano dall'Idaho si cimentano alle voci, alla chitarra, all'armonica e alla batteria, i due di Los Angeles suonano il basso e la chitarra, mentre quello che viene dallo Iowa suona l'armonica e la solista. I cinque Jesus Sons raccontano in ogni canzone l'esperienza di crescere in un tempo incasinato. C'è come un'inquietudine nel loro essere giovani, la perfetta colonna sonora per le corse in moto, la guida veloce, il bere birra e whisky, la ricerca della libertà dei ragazzi di oggi e di domani”.

Un piccolo trattato di antropologia giovanile, insomma, per capire, se ancora non l'avete capito, quanto sanno essere incazzati certi giovani d'oggi...

(7 febbraio 2014)
 

JESS MAC CORMACK - "Music for the soul" (MP3/FLAC - Canada 2014)

Lasciate perdere psicofarmaci e spinelli, tisane e massaggi ayurvedici, yoga e tantra. E' la musica la sola vera cura per l'anima, non ci sono storie. “Music for the soul”, il primo solo di Jesse Mac Cormack, è quello che ci vuole per tirarsi su dopo una giornata ad annaspare nella Realtà abbrutita di questo irriconoscibile presente. Un mini-album, quattro brani in tutto, solo 18 minuti, per immergersi in una musica senza tempo, acustica, che fa vibrare le zone più profonde e porta lontano da qui, dove tempo e spazio non hanno più valore ed è l'emozione a riconciliarci con noi stessi.

Cormack è un polistrumentista di Vancouver, voce solista degli sconosciuti Mak, band devota a un post-rock meticcio, tra jazz, progressive ed elettronica. Qui, invece, come un Robert Johnson contemporaneo, come il Jonathan Wilson di “Fanfare”, come Brychan in “Vexed Fanatica”, come... il cantante suona un blues liberato dai limiti di genere – chitarra acustica e pianoforte i suoni di un minimalismo volutamente scarno che mette al centro la vocalità e abolisce le narcisistiche ridondanze del machismo rock.

Registrato tra il luglio e il dicembre dello scorso anno con la collaborazione di Gabriel Drolet al contrabbasso, Pietro Amato al corno francese e Thanya Iyer agli archi, il disco respira di un'intimità rara, ha l'atmosfera racchiusa di un dialogo interiore, nella delicatezza delle forme, in una insospettabile classicità. Come nella conclusiva, brevissima “Ensemble”, introdotta da un arpeggio di chitarra su cui si sovrappone il corno francese per lasciar spazio alla voce che intona in farsetto una manciata di versi mentre nel ritornello si inseriscono violini.

Ma il capolavoro di questo elzeviro sonoro è l'iniziale “Where we meet”, sette minuti di ballata che dovrebbe esser annoverata tra le perle della migliore musica westcoastiana, assolutamente degna di CSN&Y.

Quando, poco prima di morire, Nick Drake lasciò sul banco all'ingresso della casa discografica il suo ultimo capolavoro “Pink Moon”, i discografici rimasero sorpresi da tanta brevità. Il tecnico del suono avrebbe spiegato tempo dopo: “Non voleva aggiungere nessun'altra canzone, non aveva più materiale, e pensava quindi che non ce ne fosse bisogno. Aveva ragione – se qualcosa raggiunge una tale intensità non ha alcun senso misurarla in minuti...”.

Anche Cormack sfida con “Music for the soul” le leggi ammuffite del Mercato e si affida alla piattaforma di Bandcamp (www.bandcamp.com) consentendo addirittura il download a offerta libera.

(31 gennaio 2014)

 

SOUTHERN TENANT FOLK UNION - "Hello Cold Goodbye Sun" (CD-MP3/FLAC - UK, 2013)

Formatisi a Belfast nel 2006 da un'idea del suonatore di banjo Pat McGarvey che aveva tratto il nome per il gruppo da un sindacato multirazziale rivoluzionario di mezzadri fondato in Arkansas negli anni Trenta (il Southern Tenant Farmers’ Union), la band di Edimburgo è una delle realtà più in vista del suono folk e bluegrass contemporaneo. Per dirne una, il Guardian ha definito il loro ultimo album “l'uscita più potente dal loro precedente del 2010”, mentre il Sun scrive della musica che “è un incontro affascinante tra celtico e influenze americane”.

Alla quinta prova, dopo alcuni cambiamenti di formazione, i Southern Tenant Folk Union suonano più vari e coesi che mai anche grazie alla scelta di registrare i pezzi in presa diretta con alcuni microfoni al centro della sala di registrazione per catturare l'atmosfera rutilante e coinvolgente dei loro concerti dal vivo: violini, chitarre, banjo, clarinetto, armonica, contrabbasso, percussioni rendono un suono acustico ricco di timbriche, brillante, davvero trascinante, a dispetto dei testi, ancora una volta in gran parte ispirati da un certo humour nero orrorifico, che non appartengono certo alla tradizione folclorica angloamericana e costituiscono l'aspetto mutante di questo folk roots contemporaneo (a partire dalla stessa copertina, più vicina a un libro Urania che a un disco dei Chieftains...).

Si sentono echi di Pogues, nelle metriche più tirate; affiora un'anima pop alla XTC (“English Settlement”, per intenderci), i più ovvi, forse, Mumford & Sons, o la purtroppo sconosciuta (almeno qui da noi) québécois Bottine Souriante, mantenendo comunque una solida ispirazione originale, davvero personale.

Come nell'eterea ballata “Dark Passenger”, che evoca atmosfere da folk d'antan (Trees, Pentangle, Anne Briggs), con la chitarra arpeggiata a guidare la voce delicata di Carrie Thomas e i violini che insistono sulle stesse due note; o la lenta “Relic of a Reasonable Mind”, chitarra e voce con contrappunti di violini country degli Appalachi. ‘Crash’, ispirata a un racconto di J. G. Ballard, è una galoppata sperimentale in cui il banjo simula l'effetto di un sequencer rudimentale con violini “cinematografici” che incombono minacciosi proprio come le auto del racconto dello scrittore inglese.

In Days By The Seaside With Ice Cream”, con banjo e voci saltellanti, si racconta il litigio di marito e moglie finito con un'ascia nella testa del marito e la moglie che deve far sparire il corpo.

La mamma è al posto di guida, il papà è dietro, non può dire più niente ormai, coperto com'è in un sacco”, cantano. L'auto si dirige verso la spiaggia... “Mi chiedo dove sia adesso papà, mentre sta avanzando la marea, la mamma ci compra il gelato, alcune cose le si dimentica in fretta...”.
(24 gennaio 2014)

 

MARISSA NADLER - "JULY" (CD/LP - Sacred Bones Records SBR-103, USA 2014)

Marissa Nadler ha qualcosa di più delle ormai inflazionate cantautrici anglo-americane che hanno invaso il mercato discografico in questi ultimi tempi. Alla sesta prova dal 2004, anno dell'esordio, la cantante di Boston conferma l'assoluta peculiarità del suo modo di intendere la musica.
Gli undici pezzi del suo “July”, in prevalenza chitarra acustica e voce, conquistano per la semplicità armonica e la scarnezza dell'arrangiamento che rivalutano per contrasto la tradizionale formula della folk ballad, rinnovandola. Non ha caso, in Europa, il disco, previsto per gli inizi di febbraio, sarà pubblicato dalla Belle Union, l'indie creata dai Cocteu Twins.
C'è qualcosa di sinistro nella sua musica, qualcosa di arcano (un suo vecchio album, echeggiando Cohen, si intitolava “Ballads for living and dying”...), una classicità delle forma, esaltata da una voce da soprano, cristallina e diretta, sulle note più alte, che collega la storia del cantautorato americano forse meno conosciuto (non Linda Ronstadt o Hemmylou Harris, per intenderci, ma Linda Perachs e Karen Dalton) con armonie della tradizione scoto-irlandese (si direbbe 'celtica' per semplificare) e la musica popolare degli Appalachi, trattandole con sensibilità cupa e una visione disincantata del reale.
L'attacco di “Desire”, proprio in apertura del disco, con la voce che viene raddoppiata, poi triplicata, come nelle straordinarie sperimentazioni di Linda Perhacs nel suo ormai leggendario “Parallelograms” (un disco raro e prezioso del 1970 da riscoprire...): all'arpeggio ripetuto dell'acustica, la voce si staglia in  primo piano subito accompagnata dal controcanto di due voci sovrapposte e lo spazio sonoro evocato è quello suggestivo della conta erratica delle emozioni che ha reso celebri alcuni dischi degli anni settanta (vengono in mente ad esempio “Lorca” di Tim Buckley o “Just another diamond day” di Vashti Bunyan).
Si potrebbe, a torto, considerare l'approccio di Nadler alla composizione irrimediabilmente retrò, con quel sentimento spregiativo che soprattutto tra i giovani si riserva alle cose del passato, in cui vecchio diventa sinonimo di “superato”, “datato”, “fuori moda”.
Al contrario, la musica di questa cantante è merce rara perché riesce nell'impresa, più spesso impossibile, di suonare antica e moderna insieme, con un'aura di classicità che è delle opere imperiture, destinate a rimanere nella memoria.
Esagero? Sono ormai tanto vecchio da cedere alle lusinghe della nostalgia per quel suono che fu e mai più tornerà? Giudicatelo voi, ascoltando questi brani, a patto di lasciarvi andare al flusso carezzevole di questa voce che è voce delle voci, inscritta nella lunga, appassionante storia del folk.

(17 gennaio 2014)

newalbumreleases.net/61920/marissa-nadler-july-2014/

www.youtube.com/watch?v=oujt6RBhmog

bellaunion.com/2013/11/welcome-marissa-nadler-new-album-july-released-in-february-on-bella-union/

 

I AM YOUR AUTOPILOT - "THE STILLNESS OF THE SEA" (CD-MP3/FLAC download - UK 2013)

Conoscete musicisti ancora disposti ad esprimere sé stessi prescindendo dal mercato, costi quel che costi? A parte nelle discariche televisive dei talent show o sui palchi dei premi di cartone della discografia internazionale che tanto piacciono a canali tipo MTV, dove sta andando veramente la 'popular music' contemporanea? Difficile dirlo, ad essere onesti, tanto è polverizzata in miriade di rivoli che disorientano l'ascoltatore, sommerso da suoni, immagini, biografie, notizie provenienti da Internet, telefonia mobile, televisione, radio, carta stampata... Sul Web, dove sembrano accadere molte delle cose più interessanti, gli inglesi I Am Your Autopilot con il loro secondo album ci accompagnano in rassicuranti territori di armonie che potremmo definire 'classiche', riferite come sono alla cinquantenaria storia della musica giovanile inaugurata dal rock'n'roll e pervenutaci più spuria che mai in una spumosa mareggiata di stili e generi molteplici, mode culturali, utopie, sogni, rivoluzioni tecnologiche. “Classiche” nel senso, anche, che rimandano esplicitamente a certo pop d'autore (Beatles, Beach Boys, Simon & Garfunkel, XTC...) pur non rinunciando ad ardite sperimentazioni nel solco di Laurie Anderson e Brian Eno o dei misconosciuti, sorprendenti Animal Collective, arrivando addirittura a disseminare qua e là insospettabili riferimenti al compositore colto Francois Couperin.

Nell'album, quindi, tredici pezzi originali che il trio di Manchester (Ben Evans, voce, chitarra e percussioni; Jasper Wilkinson, tastiere, effetti elettronici e percussioni e Graeme Brooker, basso e contrabbasso) confeziona con cura certosina esaltando attraverso un'affascinante coralità vocale, un gusto davvero personale nelle tessiture orchestrali, un intelligente misurato impiego del sintetizzatore e della drum-machine, la delicatezza di chitarre acustiche arpeggiate appena.

I sei minuti dello strumentale “Deep Water Horizon”, con l'incipit di viola che evoca i fantasmi sinistri di John Cale in “Venus in furs” dei Velvet Underground (era il 1967, l'album, epocale, quello con la banana 'sbucciabile' disegnata da Andy Warhol), il compendio di una sensibilità compositiva a dir poco esemplare: le tre note ripetute sulle corde elettrificate vengono progressivamente sommerse da un giro armonico al sintetizzatore (tra Terry Riley e i Kraftwerk) fino alla deflagrazione del brano in una nota prolungata alla tastiera che potrebbe essere campionata da uno degli album elettronici dei Radiohead (“Kid A”? ). Nella coda, introdotta da una chitarra elettrica con riverbero, lo spettro musicale si allarga ancora fino a che l'”orizzonte di acqua profonda” del titolo si profila proprio davanti a voi. A patto di aver chiuso gli occhi per i sei minuti e aver cercato immagini con la mente...

(10 gennaio 2014)

iamyourautopilot.bandcamp.com/album/the-stillness-of-the-sea

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BEN OTTEWELL - "RATTLEBAG" (CD - UK 2013)

Qualche mese fa aveva lanciato una campagna di raccolta fondi attraverso la piattaforma IndieGoGo.com per finanziare il suo secondo album. Ha raccolto 22mila sterline e alla fine, andando oltre le sue stesse aspettative, il disco si farà. Ben Ottewell, cantante, compositore, chitarrista, una delle tre voci dei Gomez, band dell'underground inglese conosciuta per il suo rock obliquo e il disinvolto uso delle armonie vocali (tra i piccoli gioielli della discografia da ascoltare “Liquid Skin” “ e ), ha composto gli undici pezzi di “Rattlebag” nell'arco dell'ultimo anno e mezzo. “Più di un'influenza blues, probabilmente più urlato e con più assoli di chitarra”, ha anticipato alla stampa per fissare le distanze dal precedente disco del 2011, il primo da solista.

E' la voce di Ottewell ha segnare indelebilmente l'identità dei Gomez e i pezzi di questo disco per la potenza del registro e la grana grossa, tenorile del cantato, tanto che sin dall'inizio della carriera, in uno dei primi profili dedicati al gruppo, Rolling Stones ebbe a scrivere che “il neanche troppo celato segreto dei Gomez è Ben Ottewell. La sua voce profonda, roca, fa venire la pelle d'oca... più come fosse un bluesman proveniente da altri mondi che un inglese con la faccia da bambino”. “La voce di Ottewell non è di questo mondo”, gli faceva eco GQ, “è un profondo, rispettoso baritono, il genere di voce che fa ballare i vetri delle finestre”.

La modalità originale con cui ha finanziato il progetto (“Uso IndieGoGo perché mi sembra un modo onesto per fare un disco. IndieGoGo promuove un tipo di trasparenza che normalmente non esiste nell'industria musicale”, ha dichiarato sul suo sito internet) ha consentito al musicista la necessaria libertà per esprimersi senza alcun condizionamento da parte dell'industria discografica (per altro più esangue che mai).

Si potrebbero definire 'blues contemporanei', tra rock melodico e folk, i pezzi dell'album: nessun inutile virtuosismo, nessun colpo ad effetto, nessuna strizzatina d'occhio al facile ritornello radiofonico, solo onesti blues, senza pretese, interpretati con autenticità ed emozione che pagano un evidente tributo al suono americano (ad esempio lo Springsteen di “Nebraska” che aleggia in “Red Dress” o il gusto per la ballata di London Wainwright III in “Starlings”...). Brano-capolavoro in scaletta, “Patience & rosaries”, un sabbioso blues sincopato in stile Giant Sand da cui affiorano vapori del deserto, cactus, serpente a sonagli... un orizzonte abbacinante a perdita d'occhio avvolto dall'afa su cui si profila in lontananza un carro trainato da buoi. Cigolante e pigro, proprio come questo “Rattlebag”.

(3 gennaio 2014)

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BRENT ARNOLD - “NIGHT, EXQUISITE” (CD-MP3/FLAC download - autoproduzione, USA 2013)

Registrato tra New York, Francia e Danimarca, il nuovo album di Brent Arnold, violoncellista e compositore americano, è la prova più efficace che la musica contemporanea non sa che farsene delle etichette di genere, degli stili, della critica che attribuisce voti e stellette e riduce l'arte a classifiche e competizioni equestri.
Uno strumento classico come il violoncello, suonato come una chitarra elettrica, arpeggiato come fosse un'acustica, filtrato da effetti elettronici, ritardato, raddoppiato, amplificato e distorto fa venire la pellagra ai puristi del suono 'colto', indigna i cicisbei dei salotti che affollano teatri come fossero musei paleontologici. Ma tant'è. Arnold, alla sua terza prova solista, sembra non curarsene più di tanto, preoccupato com'è più a definire un climax sonoro ampio e inatteso, addirittura spiazzante, che a rispettare fredde consuetudini da accademia incipriata. Un po' come l'enfant terrible Nigel Kennedy, virtuoso del violino appassionato (anche) di rock anni settanta (suo un memorabile disco dedicato ad alcuni hits di Jimi Hendrix che fece gridare allo scandalo qualche anno fa); o come il genio del pianoforte jazz Brad Mehldau, votato alla tecnica contrappuntistica, che è riuscito nell'impresa di far incontrare Bach e Bill Evans in un pub fumoso...
In “Night, Exquisite” sono otto le composizioni, tutte strumentali, che tratteggiano un paesaggio sonoro in cui l'espressività è al centro del progetto con echi al minimalismo anglo-americano (in “At the lake, the birds”), un po' Michael Nyman un po' Steve Reich) o alle passate sperimentazioni timbriche di Stephan Micus. Alcune forme toccano anche un'idea di folk progressivo à la Penguin Cafe Orchestra (“10.000 Dolphin Angels”) e il post-rock dei Japan (qui in “Rattlesnake I Am”) che scavallò la new wave da FM per realizzare un'idea precisa di 'suono aperto' nella successiva stagione creativa di David Sylvian.

Cinematico e di un fascino coerente”, ha scritto della sua musica “Time Out”. “Arrangiamenti intricati carichi di emozione”, gli ha fatto eco “All Music”. La definizione migliore è probabilmente quella di “Alternative Press” che descrive la poetica di Arnold come “il mix perfetto di genio compositivo e fascino in bassa fedeltà”. La conclusiva “Giant Moth Perishes”, un sovrapporsi di onde sonore in distorsione, le corde del violoncello amplificate che si intersecano con gli effetti elettronici facendo deflagrare il brano e rompendo definitivamente i limiti fisici della materia. Come riesce solo alla musica migliore.

(21 dicembre 2013)

brentarnold.bandcamp.com/

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FANNO CREEK - "MONUMENTS" (CD-MP3/FLAC download - Sohitek Records, USA 2013)

Abbiamo già scritto in questa rubrica di Portland, terra promessa della nuovo suono indipendente. E' da lì che sembra provenire tutto il meglio del rock contemporaneo underground. Tra le band attive da qualche anno, i Fanno Creek sono la prova del nove che il suono non ha davvero più confini e dal tempo della British Invasion (inaugurata dallo sbarco dei Beatles in America del '64 che mandò in delirio un'intera generazione...) i semi volati un po' ovunque hanno attecchito e prodotto dei mutanti di spiazzante bellezza.

Ascoltando il loro ultimo lavoro, “Monuments”, il primo album dopo una manciata di EP, la domanda è una sola: ma sono davvero americani? Perché i dodici pezzi in scaletta, pop melodico allo stato puro, sono percorsi da una sottile vena malinconica da new wave inglese anni Ottanta, raffinate tessiture timbriche che sembrano provenire dal folk, un accattivante intreccio vocale che ricorda gli episodi luminosi delle ballad dei Byrds o certe armonizzazioni dei Love, addirittura accenni di doo-wop qua e là...

Un repertorio ampio di suggestioni, insomma, che sbalordisce per varietà e continui riferimenti alla Sacra Storia della Popular Music: in “Page”, ad esempio, il trio di Portland (Quinn Mulligan, Evan Hailstone e Dane Brist) resuscita i Beach Boys di “Smiley Smile” con quattro minuti di suoni dondolanti, un tre tempi ubriaco che esordisce con un arpeggio di acustica e le voci sovrapposte per svilupparsi in una melodia alla XTC ultimo periodo e tuffarsi in un ritornello segnato da una tastierina psichedelica in sospensione. Quando il suono sembra come svanire nel nulla, l'arpeggio iniziale riporta il trenino deragliante sui binari della strofa d'apertura. Qui i fantasmi evocati sono tanti, a volerli elencare: i Beach Boys, appunto, gli XTC anche, ma evidenti sono le sintonie con certe soluzioni melodiche dei Gomez (altro gruppo da (ri)scoprire!) e il capriccio di stuzzicare la memoria con indizi degni della premiata pasticceria Simon & Garfunkel...

Volete spiegare a un ventenne cos'è stato lo Spirito degli Anni Sessanta? Selezionate “Bones” sul lettore e avrete in tre minuti scarsi un compendio perfetto della linea genealogica che passando per Elliot Smith torna alla matrice beatlesiana (qui è il fantasma di Harrison ad aleggiare). “Cos'è lo stile doo-wop, papi?”. Fategli ascoltare “Body, Brain”, a questo punto, e tutto diventerà chiaro: ballata lenta in ¾, voce solista e controcanto in falsetto, coda con assolo di tromba – dal Frank Zappa di “Love of my life” (1981) fino ai Larks di “I live true to you” (1952). E non manca neanche, proprio in coda all'album, subito dopo la bellissima “What I Am Thinking”, un blues accorato come ghost track.

(14 dicembre 2013)

sohitekrecords.bandcamp.com/album/monuments

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AA.VV. - CHRISTMAS ALBUM(S)

Tanto per non darvi la soddisfazione di credere che a Natale i dischi li registra solo Mina, eccovi una carrellata (davvero parziale) di album natalizi, pronti a deliziare o straziare – a seconda dei gusti – le festività prossime venture. I Bad Religion, smentendo la vulgata che considera i musicisti punk brutti, sporchi e cattivi, escono in questi giorni con “Christmas Songs”, una raccolta di tradizionali natalizi suonati e cantati ai trecento all'ora, proprio come ci si aspetterebbe. Anche Mario Biondi ci regala una sua personale reinterpretazione del repertorio con il vocione e gli arrangiamenti hot jazz che l'hanno reso famoso: come incipit del suo “Mario Christmas”, la deliziosa autoironica “Mario wishes you a Merry Xmas” cantata da un coretto a cappella di voci femminili... E tra un'antologia e l'altra, immancabili sugli scaffali, anche l'album di Clare Teal (titolo: Jing Jing-a-Ling), una delizia per appassionati dello stile crooner che sembra registrato cinquant'anni fa. E come non citare, tra tanti album seri consacrati al Natale, anche quello demenziale della Famiglia Robertson? Intitolato “Duck the halls: A Robertson family Christmas” è un guazzabuglio in stile zappiano di rivisitazioni di classici in chiave country, mainstream, canjun, ballata folk... con tanto di papere starnazzanti a sottofondo di “White Christmas”...

I Piano Guys, con i dodici arrangiamenti del loro “A Family Christmas”, sono l'esempio più convincente di come anche la tradizione 'popular' natalizia se frullata in suoni sdolcinati e banali può risultare all'ascolto davvero straziante. Un po' come capita con i dischi di Giovanni Allevi.

Per riprendervi, potreste ascoltare l'album natalizio dei Sidewalk Prophets (“Merry Christmas to You”), una spumeggiante sequenza in chiave pop soul che diverte, scalda il cuore e fa battere il piede come in un pub irlandese. Non può mancare anche il Natale interpretato da uno dei fenomeni dell'XFactor edizione americana: con la sua voce pazzesca Susan Boyle ha registrato “Home for Christmas” che, statene certi, venderà un sacco di copie. A proposito di sfide, il disco di Mary J. Blige (“A Mary Christmas”) arriva nei negozi addirittura con un brano in duetto con Barbara Streisand, mentre tra gli zombie televisivi dell'ultima generazione non può mancare il cast di “Glee” che interpreta il Natale con “The Christmas Album”...

Vabbè, pensatela come volete, ma a Natale tradizione vuole che siamo tutti più buoni, desiderosi di fare e ricevere regali: il mercato, che lo sa da sempre, è pronto a sfornare musica per tutti i gusti. E' possibile che tra le novità di quest'anno ci siano grandi cose destinate a diventare col tempo 'classici' del genere, ma cautela e crisi economica consigliano di andare sul sicuro: se proprio non riuscite a rimanere senza canzoncine natalizie mentre addobbate l'albero, il mio consiglio è di buttarvi sugli evergreen di Bing Crosby, Elvis Presley, Johnny Cash, Louis Armstrong, James Brown, Bob Dylan, Nat King Cole... Per quanto mi riguarda ho già deciso e quest'anno riascolterò il “Christmas Album” dei Beach Boys!

(7 dicembre 2013)

 

SIR PSYCH - "The Sir" (CD-MP3/FLAC download - USA 2013)

Figlio di un musicista itinerante, sin da piccolo Sir Psych viene educato al violino con il metodo Suzuki. Assente il padre, è la madre a introdurlo nelle magiche stanze dei classici e oscuri album rock anni Sessanta. “Dai Beatles a Dylan, di tutto e di più”, racconta, “sin da bambino sono stato educato a una profonda conoscenza non solo della musica degli anni sessanta, ma della musica in genere. Per quanto possa ricordare, la mia prima collezione di dischi era costituita dai vinili di mia madre: la colonna sonora di “Hair”, ad esempio... Immaginate cosa ho potuto provare a otto anni, ascoltando quella musica. Ha orientato i miei gusti musicali in una direzione completamente diversa”.

Allattato a classici della psichedelia, Sir Psych è proprio un interessante esperimento musicologico: il divertimento, ascoltando il suo ultimo mini album, sta nel trovare i riferimenti disseminati nei brani, le citazioni, più spesso allusioni; in tutte le composizioni è presente un climax preciso che rimanda a quel particolare suono emerso dagli studi di registrazione tra il 1966 e il 1969: la voce cantilenante, distorta della ballata 'lisergica', nutrita con LSD e hashish, raddoppiata, modificata, innervata in un tessuto sonoro di suoni elettrici in cui l'organo (in genere il Farfisa) incontra il sitar piuttosto che la dodici corde o la spinetta.

A parte il divertimento dell'ascolto dei sette pezzi (probabilmente l'unico aspetto che conta veramente al di là delle possibili analisi), assolutamente assicurato, tornano ad affiorare le domande di sempre: che senso può avere oggi tornare in maniera tanto filologica a rivisitare uno stile del rock che ebbe una ragion d'essere in un determinato periodo storico, oggi inimmaginabile? Ha ancora una ragion d'essere, nell'anno 2013, comporre una sonata alla maniera di Bach? Vestire con gli abiti di Carnaby Street? Arredare la casa in stile Bauhaus? Scrivere con penna, tampone e calamaio?

Ascoltando “The Sir”, i fautori del suono vintage non crederanno alle loro orecchie, i maniaci dell'ultima 'novità' storceranno il naso inorriditi... Ma il tempo è lineare o circolare? Aveva ragione Gian Battista Vico o Eraclito...?!

Certo è per lo meno spiazzante ascoltare un pezzo come “Certain Circles”, che sembra uscito da un album degli Zombies (“Odissey”, tanto per citare...) o degli Electric Prunes, sapendo che ad averlo composto è un trentottenne texano nato un attimo prima del punk e vissuto nell'epoca del cosiddetto post-rock... Ma ad ascoltare la musica con gli occhi chiusi per quello che è, ignorando tutto, limitandosi ai suoni che penetrano dalle orecchie e raggiungono la mente, non si è rapiti dalla più potente Macchina del Tempo esistente? Una delle poche, se non la sola, a trascinarci realmente in universi alternativi alla Realtà conosciuta?

(29 novembre 2013)

sirpsych.com/

sirpsych.bandcamp.com/album/the-sir

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HOLY SONS - "My only warm coals" (CD-MP3/FLAC download - USA 2013)

Per riprendervi dall'indigestione di torrone, ecco un nuovo piccolo capolavoro di discografia outsider, di quelli che non sentirete in TV/radio o di cui leggerete sulla stampa nazionale (impegnata com'è a battere la grancassa per promuovere vacuità musicali da mettere sotto l'albero...).

Ellis Amos, in pratica gli Holy Sons, è un polistrumentista di Portland, evidentemente Terra dei Miracoli del post rock del nuovo millennio. Prolifico bricoleur di suoni (sembra abbia composto più di un migliaio di pezzi), ha suonato in un buon numero di band underground americane nate negli anni Ottanta all'interno del cosiddetto 'movimento lo-fi' e, da solista, registrato e prodotto una decina di album tra cui “The decline of West”, considerato dalla critica uno dei manifesti dell'avant-folk. Questo “My only warm coals” uscito nel 2010 in formato cassetta, ritorna oggi in CD riveduto e corretto con alcune bonus track tentando, forse un po' ingenuamente, una maggior diffusione. Diciannove sono i brani, tutti sotto i tre minuti, come estratti della colonna sonora di una mente a briglia sciolta, straripante di sottogeneri popular, sperimentazione di suoni elettrici, sovrapposizione di voci, campionamenti, sovraincisioni, rumorismi d'ambiente... come si conviene a un'opera musicale libera da condizionamenti, aperta alla sperimentazione di nuovi linguaggi, antidoto alla dittatura della strofa-ritornello-strofa che ha massificato l'ascolto.

Un'idea sottesa di aleatorietà che avvince, come in “Wasted warped”, sul finire dell'album, dove le corde della chitarra sono percosse pigramente su una base di voci campionate da cui sembra staccarsi la solista per intonare il pezzo: due minuti e 8 secondi senza un apparente filo logico, il cantato svagato, a tratti raddoppiato, e la musica che presto deraglia e incespica rimanendo sospesa...

Ma il cilindro di Amos è anche pieno di canzoni mai finite secondo tradizione: in “Black Sheet”, ad esempio, con un attacco degno dell'Eric Burdon di “Winds of change” e ammiccamenti ai Beach Boys di “Smiley Smile”, il ritornello è preso a sberle e lasciato tramortito a terra, mentre voci che si sovrappongono ricordano sul finale i vaniloqui geniali di Skip Spence (eccentrico della premiata ditta Moby Grape: l'album-culto di questa settimana è “Oar”, signori e signore, da mandare a memoria!); “More Flophouse Blues”, invece, è un moncone di song psichedelica westcostiana di sicuro successo, se solo il musicista fosse disposto a vendere l'anima a una major: elettrica in stile 13th Floor Elevators, cantato à la Beck (che canta nel tinello di casa alla maniera di Jim Morrison) che incespica e si ingarbuglia con le corde della chitarra...

(22 novemvbre 2013)

holysons.bandcamp.com/album/my-only-warm-coals

www.holysons.com/

 

ROBIN ADAMS - "Wilt"  (CD-MP3/FLAC download - autoproduzione, UK 2013)

Penserete che siamo alle solite. Ancora un emulo di Nick Drake o Elliot Smith che si profila all'orizzonte! La storia recente del folk anglo-americano, d'altronde, ne ha affollato le cronache più per quel senso di nostalgia per i tesori perduti per sempre, irrecuperabili, che per meriti reali. Forse avete ragione, ma Robin Adams sembra dotato di un'identità unica, irripetibile perché solo sua, originale. Sul suo sesto album intitolato “Wilt”, questo scozzese di Glasgow, una decina di anni anni spesi a suonare tra pub e folk club, con nove pezzi in minore a cadenza lenta, prevalentemente chitarra acustica e voce, tratteggia un climax cupo, autunnale.
Hanno il sentimento della minaccia che incombe, le canzoni, tradiscono un fiero intimismo impenetrabile, sin dalla bella copertina 'gotica' di Myriam Lacey che  allude a simbologie folcloriche (gli alberi, le radici). Ed è persino limitativo considerarlo, come fa la rivista trendy inglese “Q”, con un'analogia certo intrigante, “ruminazioni strimpellate degne di un John Martyn”: a volerli cercare per forza i riferimenti, invece, ci si trovano anche le cupezze di Elliot Smith e Drake (ma quello di “Pink Moon”), appunto, lo spirito 'dark' dei dischi più ossessivi dei Cure (tipo “Pornography” o “Faith”), attimi del Brychan dell'esordio (un album fenomenale,  “Vexed Fanatica”, caduto presto nell'oblio...) o certe intense intonazioni di Eric Wood, altro esempio imperdibile del nuovo folk inglese...
Costruiti solo con chitarra e voce,  nei pezzi Adams  inserisce intelligentemente qualche effetto qua e là (come il synth sullo sfondo di “Sorrow Tree” o la seconda chitarra arpeggiata in “Forever Shining”), badando all'essenziale per far emergere la voce rotonda, dalle venature folky, diretta, dal registro dolente. Veicolo di una dimensione psicologica personale in cui i testi, poetici e trasognanti, descrivono i luoghi di un'anima torturata, sospesa, come destinata a un'ineluttabile deriva (wilt, il titolo, significa 'avvizzire', 'deperire', 'appassire').
“Gentilmente alla deriva, tutto solo, in una barca dorata su un mare di sofferenza, mentre ascolto questo vento matto che soffia, un diavolo triste fischia una tonalità funerea, sento l'aria che è quella dell'inizio del tramonto, vedo il crepuscolo argenteo che arriva strisciante, sotto la coltre dell'eterno sbadigliare... Sto forse sognando? Sto forse sognando mentre il corpo tornato a casa sta ancora respirando?”.
Anche Adams, come altre brillanti 'sorprese' di questa rubrica, non sarà certo destinato al successo planetario... ma che importa, in fondo? Come ha scritto su Facebook qualche settimana fa annunciando il nuovo disco: “E' accaduto per caso... Mentre stavo facendo qualcos'altro”. E' così che nascono, spesso, le cose migliori...

(15 novembre 2013)

robinadams.bandcamp.com/album/wilt-2

 www.facebook.com/robinadamsband/posts/10151588145181105

 

BRAD LANER - "Nearest Suns" (CD-MP£/FLAC download - Hometapes, USA 2013)

E' più probabile che siate morti voi senza esservene ancora resi conto se continuate a credere che il rock sia finito dagli anni Ottanta e che quello che circola in questi anni è solo stanca ripetizione. Al contrario, la musica è più viva e varia che mai, irregolare, disorientante, instabile come i tempi che viviamo. Basta battere strade poco frequentate, seguire traiettorie meno ovvie, lasciare al Mercato televisivo il bluff dei talent show (che corrompono i giovani come l'alcol venduto ai minorenni nei supermercati...), all'esangue industria discografica italiana gli zombi musicali da feste comandate (tranquilli: tra un  po' è Natale e puntuale come l'influenza arriverà il consueto doppio CD della tigre-di-carta di Cremona!).
Sfoghi a parte, il terzo album di Brad Laner, già fondatore dei californiani Medicine, è il depliant giusto per visitare il paesaggio sonoro contemporaneo e farsi un'idea dello stato di salute della popular music a quasi sessant'anni dagli ancheggiamenti pelvici di Elvis. Dodici pezzi di pop elettro-acustico che discendono dalla stirpe nobile del Pop Anglo-americano – Beatles, Kinks, Beach Boys, Elvis Costello, il Brian Eno degli esordi, gli XTC, fino ai Blur e ai Gorillaz di Damon Albarn e, perché no?, ai Residents – trattati con la carta vetrata dell'ultima tecnologia: la melodia e la vocalità sommerse in rumori elettronici, loop, delay, campionamenti, raddoppi vocali, feedback. Laner ha un talento raro nel costruire intorno a un semplice brano pop, che funzionerebbe comunque, un ordito di timbriche ed effetti che rendono l'ascolto affascinante, calandoti in una stanza degli specchi piena di suoni-sorpresa - l'album un autentico “Magical Mistery Tour” che dietro a ogni angolo tende agguati, spaventa, deforma, rassicura. Ecco un esempio: “None of the Above”, una ballata acustica delicata dall'intonazione harrisoniana, è 'sporcata' dal rullante che insiste in un assolo fino all'ingresso della batteria in cui il pezzo assume l'identità di un classico 4/4 rock lento con ritornello a più voci (in stile Elliot Smith, tanto per dare un'idea) che dopo quasi 3 minuti si schianta contro un muro di rumore elettronico (distorsioni di chitarra acustica e feedback), prima di riprendersi in una specie di coda rallentata... Il tutto per 6 minuti e 16 di puro pasticcio sonoro: altri con le tre sezioni che compongono il pezzo avrebbero registrato altrettanti brani autonomi...
Ed è questa probabilmente la virtù più evidente di Laner: come uno Zappa dei giorni nostri, il musicista trabocca di idee originali e intuizioni rare, inventa grappoli di note giocando a stravolgere gli stereotipi della pop song di derivazione 'psichedelica': alla fine l'album si ascolta più volte, senza stancarsi, rapiti in un mondo di magie da cui diventa davvero difficile decidere di riemergere.

(8 novembre 2013)

bradlaner.bandcamp.com/

www.bradlaner.com/

home-tapes.com/Hometapes/Brad_Laner.html

 

GUILO - "Incline Thine Years" (EP - Maeg Music, UK 2013)

Vi sentite giù di corda da non aver voglia di uscire di casa? Dalla finestra Cremona vi sembra un quartiere di Gotham City? Pioviggina e l'umidità vi è entrata nell'anima?

Beh, volendo un antidoto c'è. Inserite nel lettore l'EP di Guilo, un duo londinese all'esordio che compone brani solo strumentali con chitarra acustica, programming (Simon Christophers) e oboe (Alice Westlake). Un azzardo, penserete. Certamente una sfida, di questi tempi. Una piccola follia d'ingegno.

Perché il lavoro funziona, eccome. E ammalia. Otto brani sotto i tre minuti che sono altrettante micro colonne sonore per viaggi della mente, fonte di ispirazione primaria la mai abbastanza valorizzata Penguin Cafe Orchestra del leggendario Simon Jeffes (cinque album tra il '76 e l''88 che hanno indicato un percorso unico, ai confini della 'popular music', dove i generi si sbriciolano e rinascono in una forma inedita, inclassificabile).

Il fascino di “Incline Thine Ears” (titolo tratto dalla Bibbia) è nel gusto con cui suono acustico e elettronico si incontrano definendo un equilibrio davvero raro: e si coglie l'ascendenza di Christophers per le sonorità classiche, benché temperata e modificata da una chiara propensione alla sperimentazione elettronica, ispirata dal minimalismo americano (cellule sonore ripetute) con evidenti riferimenti alle composizioni di René Aubry (un album su tutti: il magnifico “Invités sur la terre” del 2001) e alle colonne sonore di Yann Tiersen o, in brevi incisi, addirittura alla Third Ear Band della reunion italiana (ascoltare l'iniziale “Arctic Sound” per credere).

Con una musica così congegnata, in genere il rischio è quello di scivolare nello stucchevole, nelle melodie carezzevoli della 'muzak' (quella musica funzionale alla pubblicità, diffusa nei cosiddetti non luoghi dell'Occidente capitalista – ipermercati, aeroporti...) o nelle paludi monotone della cosiddetta new age che dagli anni ottanta ammorba lo spazio sonoro diffondendo l'idea di un mondo pulito e cristallino, vergineo, incontaminato, ad uso esclusivo delle classi medie alla ricerca di rilassamento dallo stress del vivere contemporaneo.

Qui, al contrario, siamo in un universo che inquieta e appassiona, fa innamorare e divide, indica orizzonti che si modificano mentre la mente crede di averli afferrati: in “Incline Thine Ears”, per fare un esempio, alla batteria pulsante in 2/4 si sovrappone un arpeggio iterato di estrazione folk su cui volteggia l'oboe con libere improvvisazioni sullo sfondo. Il climax è inizialmente rilassato, gioioso, poi nel ritornello si fa minaccioso, e l'ascoltatore, convinto di aver imboccato un viottolo che porta a un prato fiorito, si ritrova improvvisamente in una discarica fumante vapori tossici. Proprio come in certe esperienze della vita di tutti i giorni...

(1 novembre 2013)

maegmusic.bandcamp.com/album/guilo-incline-thine-ears-e-p

www.maeg.co.uk/

 

JONATHAN WILSON - "Fanfare" (CD - Bella Union, USA 2013)

Con gli irriducibili cultori di “Deja Vu” e “Four Way Street” di Crosby, Stills, Nash & Young, per non dire del Santo Gral del suono californiano anni Settanta - “If I could only remember my name” di David Crosby, come si dice “il tempo è stato galantuomo”. Ripagati per la lunga attesa, risarciti della perdita, finalmente consolati per la struggente assenza di 'quella' musica.

Quarant'anni dopo, eccolo qui, Jonathan Wilson, 38 anni dal North Carolina, capelli lunghi, barba incolta, vestito come capita a chi è refrattario (per davvero!) alle mode, metter insieme un album con tredici gioielli di rock classico, che più classico non si può: chitarra elettrica e acustica, basso, batteria, voce - quella giusta -, controcanti westcoastiani (sì, proprio quelli là), testi ispirati, cantati con la perentorietà dell'artista destinato a un culto, certo ristretto ma duro a morire, di veri appassionati.

Fanfare”, in uscita proprio in questi giorni, riesce addirittura ad andare oltre le meraviglie dell'esordio “Gentle Spirit”, uscito più o meno due anni fa, e a emozionare come riesce a fare la grande musica sin dalle prime note.

Dentro questa straordinaria scatola dei suoni che non si ascoltano (quasi) più, c'è tutta la musica che ha fatto sognare più di una generazione, orfana di Woodstock: brani perfetti, costruiti secondo la sapiente ricetta che dalla fine degli anni Sessanta hanno saputo immaginare CSN&Y in un pugno di vinili passati alla storia, ballate elettriche e acustiche ad accompagnare armonie vocali impeccabili, tra country-folk ed erraticità psichedelica californiana. Con echi del primo inarrivabile Dylan (evidenti in “Love to love”), morbidezze lisergiche à la Grateful Dead, ballate nervose di un Bruce Palmer (quello di “The cycle is complete”... chi se lo ricorda questo viaggio nelle stanze più remote della mente, dove la polvere e le ragnatele sono squarciate dal sole improvviso di un'alba settembrina?), inquiete escursioni folk in stile Moby Grape, richiami al mai abbastanza apprezzato Dennis Wilson di “Pacific Ocean Blue”, fino ad accenni allo Springsteen di “The River”... In “Cecil Taylor”, addirittura, i Pink Floyd di “Meddle”, batteria in controtempo e piano che sembrano campionati da una sezione di “One of these days”.

Autoprodotto, il disco vanta alcuni pezzi composti in collaborazione con Roy Harper e la partecipazione di vecchi leoni come David Crosby, Graham Nash e Jackson Browne ai cori e controcanti.

Non un semplice tributo al passato, “Fanfare” è tutto ciò che dev'essere la tradizione rivisitata con talento e sensibilità contemporanea: affascinante e senza tempo.

(25 ottobre 2013)

songsofjonathanwilson.com/

plixid.com/2013/10/17/jonathan-wilson-fanfare-2013-mp3/

 

BEAUTIFY JUNKYARDS - "Beautify Junkyards" (CD - Portogallo 2013)

E' poco probabile che sia proprio la musica a salvarci da questa caduta verticale. Però può aiutare, lenire il dolore, distrarre. Pescando nel cestone delle novità, scartati l'ultimo di Sting, l'ennesimo (inutile?) di Paul McCartney, il ritorno di Gary Numan (bello!), il piccolo capolavoro di Van Dyke Parks, mi sono imbattuto nei nove remake dei Beautify Junkyards, band portoghese all'esordio discografico. Tributi ad altrettanti eroi dell'underground musicale anni '60 e '70 triturati e ricomposti con sensibilità del Duemila: la dolce arpeggiata “Song for the naturalist's wife” di Donovan, con trasognanti coretti efebi e tastierina a tratteggiare la coda; una delle più emozionanti ballate di Nick Drake (“From the morning”) riproposta con lievi variazioni del fingerpicking e finale pulsante iterativo in stile Penguin Cafe Orchestra; “Yellow Roses” degli Heron diventa una delicata ballata psichedelica con acustica e campanellini degna di un vecchio vinile degli Hollies, mentre la favolosa “Another Day” di Roy Harper (da “Flat baroque and berserk” del 1970) si spoglia degli abiti ruvidi del brano folk da hobo per calarsi in vesti diafane di sogno... E chi si aspetterebbe una delicata rivisitazione acustica in stile prog dell'epocale “Radio Activity” che fece la fortuna dei Kraftwerk nel 1975 scoperchiando le coscienze pop al suono dell'elettronica dance?

Uno dei pezzi più conosciuti del catalogo di Bridget St. John, “Ask me no questions”, i Beautify Junkyards lo ripercorrono invece con una coda rumoristica (cinguettii, scrosciare d'acqua...) a far da sfondo a una chitarra arpeggiata e cori che sorprende e emoziona.

Anche “Parallelograms” di Linda Perhacs (tratto dal magico unico album solista riemerso inaspettatamente qualche anno fa dai miasmi della discografia), difficile banco di prova per chiunque, esce dal miscelatore del quintetto di Lisbona con un'identità nuova, non meno seducente e accattivante.

Il disco, come capita con i grandi gruppi, ha un'identità e un'omogeneità precise, dal momento che i pezzi sembrano sfiorati dalla stessa felice intuizione poetica: trasognanti, immaginativi, pieni di idee, sperimentali eppure equilibrati nella struttura, senza eccessi e sbavature.

Non se ne scriverà qui da noi, statene certi, intenti come sempre a seguire le ultime banalità dei Modà e il gossip di XFactor (quest'anno con chi litigherà Morgan?). Nel Paese della Musica, nella città ingolfata dai violini (rimasto, pare, l'Ultimo Strumento A Corde Esistente!), c'è ben altro di cui occuparsi. Intanto, fuori dalle sabbie mobili, dove la musica si suona per davvero, cinque giovani musicisti di Lisbona escono allo scoperto con un album memorabile. Fuori dalle sabbie mobili, addirittura in Portogallo...

(18 ottobre 2013)

www.facebook.com/beautifyjunkyards

beautifyjunkyards.bandcamp.com/

 

ROY HARPER - “Man and Mith” (CD – Bella Union, UK 2013)

I Led Zeppelin gli dedicarono addirittura un brano nel 1969 sul loro epocale terzo album, “Hate off to Harper”, i Pink Floyd lo vollero alla voce di “Have a cigar”, sarcastica requisitoria contro il music business che scuote dalle sonnolenze di “Wish you were here” (1975). Roy Harper, 72 anni originario di Rusholme (Manchester), da vent'anni residente in Irlanda, torna sulla scena a molti anni dall'ultimo compassato “Green Man”. E' un altro piccolo evento dell'underground, dopo una lunga carriera, iniziata nel '66, e tanti album e concerti con cui ha scritto pagine coraggiose di controcultura e anticonformismo. “Un talento assoluto”, dice di lui il vecchio manager Pete Jenner, “ma un po' matto”.

Solo sette canzoni, in tutto, per questo suo “Man and Mith”, nuovo miracolo di poesia e musica. La voce più incerta ma fiera, emozionata, come in un'intima confessione di sé, accompagnata da un folk-rock originale, imbastardito col jazz, con il rock anni '70, con l'art song. Come nei suoi dischi migliori: “Folkjokeopus” (1969), “Flat baroque and berserk” (1970), “Stormcock” (1971), “HQ” (1975), espressioni di un'arte irregolare, iconoclasta, vera. E' solo l'età che stempera le spigolosità di quell'intonazione che urlava, prima del punk, “Odio l'uomo bianco” in un'invettiva contro il razzismo dilagante dell'Inghilterra di quegli anni (era il '70) o la disillusione per un mondo che non è andato propriamente come avremmo sperato?

Una delle possibili chiavi di lettura della drammatica, intensa poetica di “Heaven is here”, il paradiso è qui, lunga riflessione onirica (15 minuti) che ha tutta l'aria di un testamento spirituale. La struttura, a lui congeniale, quella della ballata digressiva, dai registri interpretativi cangianti, con un flusso di coscienza che attinge dal mito (la leggenda di Giasone e gli Argonauti, ma raccontata dal punto di vista di un Argonauta) per calarsi nelle umane vicende. “Quando mi guardo dietro cosa vedo? Era un riflesso o ero io? Non riesco a trovare un destino perso nel ricordo, un ricordo di tutto, di ogni piccolo evento di me... Era questo un momento del mio sogno che non riesco ad esprimere?”

Mito e uomo, dal titolo, l'intrecciarsi di vocazione per l'Assoluto che induce al volo e di determinismo antropologico che fa sprofondare, con il tempo che scorre implacabile (“January Man”, “Time is temporary”), la dissociazione del vivere oggi (“The Stranger”), le profonde assurde contraddizioni della modernità (“Cloud Cockooland”).

Non un trattato di filosofia in musica, ci mancherebbe altro, ma una sequenza di visioni poetiche sulla condizione dell'uomo. L'uomo che Roy Harper ha raccontato in tutti questi anni, con uno sguardo unico, obliquo, inimitabile.

(11 ottobre 2013)

www.royharper.co.uk/

plixid.com/2013/10/24/roy-harper-man-myth-2013-mp3/

 

MAZZY STAR  - "Season of your day" (CD - USA 2013)

Piccolo evento dell'underground americano, il nuovo album dei Mazzy Star esce dopo 17 anni dal precedente “Among My Swan” e, come quello, conferma il talento assoluto di David Roback e Hope Sandoval, eccellenti compositori di oblique ballate psyco-folk che hanno influenzato la generazione anni Novanta distogliendola dall'ossessivo battere della dance.

Basterebbe l'emozionante duetto chitarristico in “Spoon” di Roback e del folk-hero inglese Bert Jansh, ospite del disco a pochi mesi dalla morte, per convincere della bellezza del lavoro, che vede come guest artist anche Colm O'Ciosoig dei My Bloody Valentine: un lungo blues modale dall'incedere lento, cupo e dissoluto, in cui sugli accordi pieni di Roback si innestano gli arpeggi sporchi di Jansh descrivendo un'atmosfera sospesa di inquietudine e attesa. Entreranno dalla porta e ci uccideranno tutti? Riuscirà a trovare nel buio una via d'uscita? La luce li farà scappare?

Seasons of your day” riprende giusto da dove la ricerca del gruppo sembrava interrotta e lo fa con sorprendente, miracolosa coerenza: come in passato, sono le armonie delicate della voce di Sandoval a intrecciarsi agli accordi pigri, sonnambuli, della chitarra di Roback, qui più acustica che elettrica. Un suono rabdomante, che va alla ricerca di un equilibrio senza trovarlo, erratico, spurio, assolutamente disinteressato ad apparire (maliziosamente) attraente. Un organo di chiesa e la batteria chiassosa segnano “In the kingdom”, proprio in apertura dell'album, mentre “Does someone have your baby now” è una ballata acustica slide disarticolata e cialtrona; “Season of your day”, il cantato che prende a piene mai dalla Patti Smith degli esordi; le tablas tratteggiano il finale di “California”, trasognante progetto di viaggio: “Credo che volerò attraverso l'oceano, riesco a vedere il cielo che diventa grigio... Credo di tornare indietro. Già sento il sospiro del mio vecchio amico, mi sembra di sentire le campane battere in piazza...”. “Sparrow”, chitarra acustica, voce e tamburello, impreziosita da un breve interludio di spinetta come ritornello. Nulla che possa lasciar presagire, insomma, il minimo successo discografico.

Di una classicità rock tutta americana, eredi diretti di Lou Reed, Leonard Cohen, gli Stones dopo-Brian Jones - da venticinque anni i Mazzy Star continuano a raccontare la stessa storia: un rilassato, personale ritratto dell'intimo umano, morbido e sordido, rilassato ma al tempo stesso irrequieto.

Ti ammaliano, ti catturano per trascinarti nel loro mondo di fantasmi e di nebbie. E' autunno, in pianura l'umidità busserà presto alle vostre finestre. Questa è musica che potrebbe scaldare le vostre serate.

(4 ottobre 2013)

pitchfork.com/news/52352-stream-mazzy-stars-new-album-seasons-of-your-day/

www.hopesandoval.com/music/mazzystar.shtml

www.listenbeforeyoubuy.net/reviews/reviewlisten-mazzy-star-seasons-of-your-day/

 

WILLARD GRANT CONSPIRACY - "Ghost Republic" (CD - USA 2013)

Mentre nella palude italica gli unici suoni avvertiti sono quelli delle stantie lallazioni di un Jovanotti e di un Vasco Rossi “più morto di un fossile” (©Arthur Rimbaud), altrove la musica continua a essere vitale e originale. Libera di superare i confini dell’ovvio in barba al Mercato. Ancora profondamente radicata nelle tradizioni di uomini e terre, eppure così aperta al futuro. Dov’è mai la tradizione musicale in Italia, com’è possibile immaginarne un futuro se da noi capita che un mediocre compositore come Giovanni Allevi sia considerato un autentico genio da contemporanei che mai hanno ascoltato, né ascolteranno mai, un notturno di Chopin o una ballad di Thelonious Monk?

Prendete l’ultimo album di Willard Grant Conspiracy, in pratica Robert Fisher (voce baritonale) e David Michael Curry (viola, chitarra acustica ed elettrica, piano), una band aperta nata anni fa in Massachussetts. I tredici pezzi di “Ghost Republic” sono l’appassionante racconto di un’America rurale, desertica, periferica solo raramente ritratta dal cinema. Suoni acustici, scheletrici, sospesi sul filo dell’essenzialità col gusto raro per la ballata dissonante, in bilico tra country e art-song, al crocevia dove si sbriciolano i generi delle forme codificate e rimane l’azzardo dell’inaudito.

L’azzardo qui, soprattutto, sta nei pezzi in cui la ballata acustica è polverizzata nell’improvvisazione rumoristica della chitarra elettrica in feedback e del pianoforte free-jazz (“Incident at Mono Lake”, un impressionante capolavoro!), quasi a rimandare all’ultimo, inarrivabile John Fahey di “The Epiphany of Glenn Jones” (1997), un’intuizione di folk d’avanguardia rimasta pressoché unica. Per Fisher e Curry il folk non è raccolta di muffe da studiare sotto un vetrino nel laboratorio di chimica. E’ materia viva, cangiante, che si ribella alla banalità e si fa medium dell’espressione poetica del profondo in un coraggioso ordito di contrasti - luci e ombre, vuoto e pieno, presenza-assenza. ..

Ed è persino imbarazzante dover riconoscere di essere profondamente conquistati da tanta semplicità, dalla chitarra arpeggiata che detta la ritmica, la viola che vi si soprappone improvvisando note legate, la voce raddoppiata che ripete solo il verso: “Oh, ti aspettiamo, finché non arrivi”…

La “Repubblica Fantasma”, metafora di una terra diventata irriconoscibile anche soltanto per la prorompente contraddittorietà e frammentarietà del paesaggio (canyon, megalopoli, deserto, pianura…), nel progetto dei Willard Grant Conspiracy diventa provocazione multidisciplinare: musica, poesia, fotografia, cinema (un lungometraggio di Kevin Kostelnick) per raccontare l’altra America delle strade secondarie, dei luoghi abbandonati, dimenticati dal Mercato.

Lancaster, Quartz Hill, Littlerock, Pearblossom, “un angolo remoto della campagna di Los Angeles”, racconta Fisher. “Terra del dimenticato e di chi la città vuole dimenticare. E’ la terra dei cactus e del serpente a sonagli”. Poi c’è il Mojave, “un avamposto”, Convict Creek e Mono Lake. E Bodie, una vera e propria ghost town delle Sierras, simbolo di un Paese ancora alla ricerca della sua identità…

(27 settembre 2013)

loosemusic.com/willardgrantconspiracy/

www.youtube.com/watch?v=p1vQY3O6_hk&feature=youtu.be

 

CANDY SUGAR MOUNTAIN - "Mystic Hits" (CD - USA 2013)

Per riprendervi dall'indigestione di violini di questi ultimi giorni vi suggerisco di ascoltare il nuovo album dei Sugar Candy Mountain, band neopsichedelica di Oakland messa in piedi da Ash Reiter un paio di anni fa. Il loro “Mystic Hits”, con una fiammeggiante, intrigante copertina di Jess Willa Wheaton, è una raccolta da Alice nel Paese delle Meraviglie, tredici pezzi che sono la summa del 'suono psichico' elettrico contemporaneo. Un viaggio senza droghe che rilassa, elettrizza, spaventa, rapisce, accarezza... e ti prende a calci. Tutto in una quarantina di minuti buoni.

Un'esperienza d'ascolto da farci indigestione: vocine sovrapposte, loop, delay, nastri al contrario, campionamenti, chitarra-basso-batteria-tastiere-effetti - shakerati per voi, signori e signore! -, in un juke-box squinternato planato attraverso lo spazio-tempo dagli anni Sessanta fino ad oggi. Dentro, bisbigli di Acid Mother Temple, fragorose boutade di Frank Zappa (“Freak Out” e “Absolutely Free”, soprattutto), intemperanze da beat group inglesi tipo Kinks o Nirvana, ossessioni à la Julian Cope (quello di “I came from another planet, baby”), un po' di cantilene Beach Boys, i The Alien del Cappellaio Matto Gordon Anderson, le imprevedibili mollezze che hanno fatto la fortuna di Dan Hicks & His Hot Licks, addirittura soffici ammiccamenti in stile Love di Arthur Lee... Insomma, una specie di nuotata nelle melodie spumeggianti di quel sound sonnambulo che sbarellò una generazione dopo la mareggiata del beat e che per una manciata di anni (diciamo dal '66 al '70) immaginò un mondo parallelo alla Realtà popolato di gnomi, fate, boschi, pixies, allargamento della coscienza, Nirvana, UFO, pozioni magiche, I-Ching. ... Un'“esplosione del Vaso di Pandora dell'inconscio”, per dirla come Matteo Guarnaccia, uno dei massimi esperti italiani di Psichedelia (evete letto il suo “Almanacco Psichedelico”del 1996?), con cui ci persero la testa in molti, anche.

Oggi, più prosaicamente, i Sugar Candy Mountain cantano un'elegia del vino (“Uva Uvam Vivendo Varia Fit”, proprio così!), l'amore triste (“Saudade Love”), l'ozio dandy (“Lovely Time”, “Breakfat in Bed”) e “la ripetizio ne dei movimenti e dei vocalizzi di una persona” (“Echolalia”, “Echopraxia”)!?! Ha ancora senso registrare nel 2013 un album di 'astro-pop psichedelico'? A giudicare dal singolo che ha anticipato l'uscita del disco, “Knock Me Down”, verrebbe da rispondere che è addirittura 'necessario' in tempi così grigi e prevedibili come quelli che viviamo. Nei 3 minuti e 26 del pezzo, tutta la sfrontatezza e l'ingenuità di un'epoca che fece di tutto per fermare il tempo all'”Estate dei Fiori” (1967) ma che sprofondò ineluttabilmente nel cinico delirio consumista che viviamo.

(20 settembre 2013)

it-it.facebook.com/SugarcandyMountains

sugarcandymountain.bandcamp.com/

 

SHARRON KRAUS - "Pilgrims Chants & Pastoral Trails" (CD - UK 2013)

Sono tornata in Galles dopo tutti questi anni. Avevo sognato questi luoghi, immaginato di poterci tornare. A un certo punto i sogni sono diventati realtà quando ho viaggiato verso Aberystwyth per la strada delle montagne che parte da Rhayader lungo la valle dell'Elan. Mi innamoro ancora una volta di quel luogo e non voglio più andarmene. Quella sera sto da un amico a Tregaron ed esco a fare una passeggiata con lui. Gli racconto del desiderio che ho di questo luogo e lui mi risponde che esiste una parola in gallese per questo tipo di desiderio - “hiraeth””.

Quel desiderio spinge Sharron Kraus a fermarsi prima a Badd Taliesin, con la vista del Cadair Idris, poi in un'antica canonica vicino a una chiesa inserita in un antico circolo di pietre (stone circles).

Una volta lì, trascorro il tempo camminando e guidando per tutta l'area, esplorandola di giorno e di notte, da sola e in compagnia. La terra intorno a me sembra vivere di musica e storie. Tendo l'orecchio interiore per ascoltare e voglio far emergere questi misteri, liberare questo mondo incantato. Così, durante le camminate mi porto dietro un registratore e registro gli uccelli, la corrente e le cascate, il vento e la pioggia, gli aerei che irrompono nella quiete. Ascolto e assorbo tutto quello che posso, poi torno a casa e provo a trasformare in musica quello che ho registrato”.

Ne sono nati otto pezzi di folk 'dopo il folk', che ritraggono quello che Rob Young, autore del fondamentale “Electric Eden. Unhearthing Britain's visionary music” (Faber and Faber 2010) ha definito “un micro genere di folk esoterico”. Un ritratto contemporaneo della Dark Britannia, terra straordinaria e misteriosa, ancora oggi profondamente radicata nei millenari culti pagani, nei rituali stagionali in consonanza con la Madre Terra (quella raccontata nel 1973 dal favoloso “The Wicker Man”, film di Peter Hardy assunto a bibbia dai difensori della tradizione pagana inglese).

Incontro persone che amano la terra come me, gente che ha vissuto qui tutta la vita, che lavora la terra dei padri e che considera i poeti come antenati. Mi sento come se avessi viaggiato a ritroso nel tempo, nelle mie memorie e nel passato, in una terra di fate...”

L'album, interamente strumentale, si dipana come una suggestiva colonna sonora dai toni caldi, autunnale e sinistra, malinconica e meditativa: l'incedere di flauti e rimiche di ascendenza medievale (“Y Fari Lwyd”), gli echi della grande tradizione acustica inglese dei Settanta (la conclusiva “Farewell”, che sembra uscita dal catalogo dei Pentangle o dei Traffic di “John Barleycorn must die”...), gli intrecci vocali accompagnati da una semplice chitarra arpeggiata (“Cadair Idris” e “Dark Pool”, come estratti dal disco-culto “Parallelograms” di Linda Perhacs) rendono l'ascolto un autentico viaggio in luoghi remoti dell'anima...

(13 settembre 2013)

www.sharronkraus.com/

sharronkraus.bandcamp.com/album/pilgrim-chants-pastoral-trails

 

MICAH BLUE SMALDONE - "The Ring of the Rise" (CD - Immune, USA 2013)

Alla sesta prova solista, Micah Blue Smaldone, originario del Maine, un passato da punk rocker in oscure band, continua la sua personale ricerca nella tradizione folclorica americana. The Ring Of The Rise ha la forza espressiva dei dischi che contano, ispirati, ricercati, ben suonati, con un equilibrio tra tradizione e innovazione davvero raro.

Sette brani soltanto, registrati quasi completamente da solo con l'apporto minimo del fratello Tristan (al violino in un pezzo) e di alcuni amici musicisti (Caleb Mulkerin, alla slide e al dulcimer, Collen Kinsella, alla voce, e Tom Kovacevic, batteria), sono pezzi folk blues composti per chitarra acustica o elettrica arpeggiata. La voce dalla grana ruvida, calda e possente, a evocare un universo ideale dalle radici profonde, perse nei decenni della fiera tradizione hobo.

Qui si descrive un orizzonte che è quello dei grandi songwriter americani, senz'altro il Neil Young degli anni Settanta, ad esempio, e si abbraccia anima e corpo una condizione dello spirito colma di orgogliosa solitudine, di un destino segnato negli spazi sconfinati della campagna americana, tra la sabbia delle ballate di Woody Guthrie e l'inquieta disperazione metropolitana di David Crosby.

La poetica di Smaldone è presto detta, d'altronde: “Sto cercando di vivere nel presente. Di solito lascio che il presente scorra, prendendolo per la coda appena lascia la stanza un anno dopo, e comincio a raccontare a tutti quanto è stato grande. Questo credo sia dovuto in parte al timore di dover subire influenze contemporanee; ci sono già abbastanza gruppi à la Gang of Four in giro senza che anch'io esalti le gioie della chitarra stridente e di quei i numeri grezzi da baraccone della disco”.

E non sorprende che tra i suoi dischi preferiti di sempre, al web magazine “Dusted” elenchi classici come “Nebraska” di Springsteen, “Bringing it all back home” di Dylan, “Master Musician” di Sidney Bechet, “Live at the Apollo” di James Brown ma anche eccentricità uniche come “The Madcap Laughs” di Barrett, “Trans-Europe Express” dei Kraftwerk o ”Catalpa” di Jolie Holland (“E' la più forte medicina che si possa prendere in questi giorni”, dice).

Passato e presente, tradizione-innovazione, vita e morte. Tempo che passa. “Quando non c'è nulla, c'è ancora tempo”, canta in “Time”. “Ancora tempo, montagne di tempo. Quando non c'è posto, c'è ancora tempo, oceani di tempo... Quando c'è qualcosa, non c'è tempo. Non c'è tempo, canyon di tempo. Quando c'è spazio, non c'è tempo. Non c'è tempo, letto arido di tempo.” Un ipnotico blues a tempo medio, cinque minuti di scarna poesia intonati con voce emozionata, in falsetto, che sembra scivolare via proprio come il giorno.

(6 settembre 2013)

soundcloud.com/immune-recordings/micah-blue-smaldone-heavy

www.micahbluesmaldone.net/

 

ASTHMABOY - “Wanderers” (CD - autoproduzione, USA 2013)

Non è cosa semplice comporre e registrare un disco di pop suonato come si deve. Che abbia anima, cuore, che faccia vibrare di emozione, scuota, diverta. Ci sono riusciti i Beatles e i Beach Boys, un secolo fa, forse Elvis Costello, gli XTC, i Blur, gli Eels... Anche altri, certo, ma non così tanti come si sarebbe portati a credere.

Col pop ci si lascia le unghie, insomma, perché mettere in piedi una serie di strofe originali con un ritornello che funzioni non è da tutti, e un album che si rispetti, oggi, è almeno di 70 minuti. Più semplice nascondersi dietro l'avanguardia, la sperimentazione, l'aleatorietà: rumori, elettronica, quintalate di feedback... Tanto, in quanti ci capiscono, alla fine?

Gli Asthmaboy, senza essere i Beatles, sono davvero una bella scoperta e questo loro secondo disco è un gioiellino pop che si ascolta a ripetizione: diverte, rilassa, ha testi intelligenti e profondi che fanno pensare (il senso della vita... il destino di essere nati in un determinato luogo e non altrove... cose così, insomma), le spalle larghe e robuste dei grandi album che, se tutto andrà bene, potranno essere riscoperti fra un po', risplendere tra i miseri cocci indistinti di questa indigesta contemporaneità di 'talenti televisivi'... Finire addirittura in qualche enciclopedia rock, forse, o classifica dei Cinquecento Album Rock & Pop di Tutti i Tempi.

I dieci pezzi di “Wanderers”, ispirati ad altrettanti stelle e pianeti, sono stati registrati a Seattle tra l'inverno 2012 e la primavera di quest'anno da John Boone e Glindon Marten (autore dei testi e cantante), insieme dal 2003. Polistrumentisti di razza, hanno il pregio raro dell'essenzialità anche quando guardano a certa new wave 'romantica' degli anni Novanta (“Bonfire”, “Careful where you hide”, profluvio di batteria e tastiere per intenderci) dalle venature Radiohead e Coldplay. Non disdegnano la ballata in acustico (“My hat will be black”, “Operate”), né lo strumentale (come “The sandwalk wood”, uno splendido interludio d'atmosfera 'lunare'), facendo dell'intreccio delle voci (all'unisono, sovrapposte, ritardate) l'elemento portante della composizione. In “This city has known us” l'attacco è affidato ad acustica, voce e spazzole, con il ritornello di pianoforte costruito su quattro semplici note ripetute. Una fisarmonica appena accennata in sottofondo abbellisce la melodia. Il testo, un'invocazione a madre Terra: “... ci hai tenuti tutti tra le tue braccia, per qualche tempo, quanto mi sarebbe piaciuto esserne parte, raccolti tutti qui, in scatole e borse, direzioni verso cui andare, una sera di fine aprile che soffia attraverso la porta, per trovarti lì... questa città ci ha conosciuti, questa città è cresciuta...”.

(30 agosto 2013)

www.asthmaboymusic.com/ 

asthmaboy.bandcamp.com/

 

GRUMBLING FUR - "Glynnaestra" (CD - Thill Jockey, UK 2013)

I Grumbling Fur, duo underground londinese nato dalle esperienze di Guapo, Ulver e Aethenor, esce allo scoperto con un album che è una delizia di pop elettronico neo-psichedelico (gulp!). Predittivo di quello che potrebbe diventare la popular music nell'epoca post-Blade Runner e post-Torri Gemelle, “Glynnaestra” raccoglie tredici pezzi, tra strumentali e cantati, che sono un mantra contemporaneo, un'invocazione postmoderna radicata nella tradizione del rock progressivo con lo sguardo rivolto all'Orizzonte dei Suoni di là da Venire.

Messa giù così, lo riconosco, questa musica potrebbe apparire la pretenziosa versione audio di una Bibbia Aliena ritrovata da umani. Più ragionevolmente, invece, a orecchie allenate suona come uno splendido album di pop elettronico come non se ne sentono in giro.

Daniel O' Sullivan e Alexander Tucker suonano strumenti acustici filtrati dall'elettronica (con un'attitudine che ricorda l'avanguardia dei This Heat, due dischi dimenticati, tra il '79 e l'80, assolutamente da disseppellire..), enfatizzano la natura ritmica del suono rendendolo tribale (come fece Brian Eno in “Another Green World”), accompagnano i brani cantati con grappoli di voci all'unisono (figli della Beta Band), costruiscono strutture dance mai scontate (come i migliori New Order?).

Come in “Dancing Light”, il brano candidato a tentare la sfida del singolo pop radiofonico, che è una sincopata canzone melodica a più voci con un ritmo attraente, ballabile, un tappeto sonoro elettronico da sfondo, rumorismi soffusi che farebbero la gioia di una Balera Spazio-Temporale frequentata dagli umanoidi, alieni e mutanti di “Guida Intergalattica per Autostoppisti” (ricordate il capolavoro di Douglas Adams?).

A leggere una delle rare interviste in circolazione del duo, si ha la conferma che le fonti di ispirazione ('ossessioni', secondo O' Sullivan) sono davvero un campionario esoterico: dal titolo dell'album, che si riferisce a un'oscura dea pagana a cui i due musicisti si dicono devoti, ai riferimenti alla science-fiction (all'inizio di “The Ballad of Roy Batty“ si può sentire la leggendaria battuta di Rutger Hauer “Ho visto cose che voi umani...”), alla passione per gli avvistamenti in sud America di “umanoidi volanti” (un video in particolare sul Web all'indirizzo https://www.youtube.com/watch?v=ZUrqu_kbLmQ). Riferimenti filtrati dalle esperienze dei due musicisti (“I suoni che usiamo avranno sempre a che fare con la nostra relazione di amicizia e le nostre vite”, dicono), imbattutisi nel periodo dello scorso Natale in una strana apparizione aliena in una via di Londra...

(23 agosto 2013)

thrilljockey.com/thrill/Grumbling-Fur/Glynnaestra#.Uhx5FH_LIf5

soundcloud.com/thrilljockey/grumbling-fur-dancing-light

 

JACK O' THE CLOCK - "All my friends" (CD - autoproduzione, USA 2013)

Se volete farvi un'idea di quello che potrebbe essere la popular music contemporanea se solo non ci fossero le multinazionali del disco, MTV, le radio, i talent show televisivi... ascoltate questo disco. Sarà anche come sostiene un mio amico che la musica ha perso (definitivamente?) la sua natura di esperienza partecipativa (“... mentre negli anni '60 e '70 i musicisti condividevano spazi e tempi della composizione/esecuzione...”) e si è ridotta a una autistica esibizione narcisistica del sé creativo tesa unicamente al mercato, ma questo “All my friends” dei Jack O' The Clock è molto di più che un ripiego per questi tempi di profonda crisi strutturale. E' la prova che almeno sul piano ideativo e compositivo si può ancora produrre musica creativa, appassionante, sincretica (sedimento della Sacra Storia dei Suoni Pop), suonata con professionalità e sconfinata immaginazione.

Jack O' The Clock è un quintetto californiano al terzo disco: guidato da Damon Waitkus, autore di tutti i tredici pezzi, alla voce, chitarra e dulcimer, vede anche Emily Packard al violino, salterio e melodica; Kate McLoughlin alla voce, flauto e fagotto; Jason Hoopes al basso e alla voce e Jordan Glenn alla batteria, fisarmonica, percussioni. Sul disco, uno stuolo di ospiti di estrazione colta alla tromba, trombone, organo, clarinetto, percussioni, sax tenore. Ne deriva com'è ovvio una suono ricco timbricamente , dalla struttura complessa, che rimanda a modelli di riferimento quali Frank Zappa (per le orchestrazioni), il misconosciuto Van Dyke Parks (in particolare per l'uso degli archi e la spiccata anima vaudeville), il benedetto circuito di “Rock in opposition” che entusiasmò l'Europa a metà degli anni Settanta (chi si ricorda ancora di Slapp Happy, Henry Cow, Art Bears, i 'nostri' Stormy Six?) pur mantenendo una contagiosa attitudine pop (melodica).

Questo album è il culmine di quattro anni di esperienze in cui ci siamo conosciuti l'un l'altro, sia come persone che musicisti, e raccoglie una serie di brani che abbiamo ridefinito dal vivo da quando nel 2009 abbiamo iniziato a suonare insieme”, spiegano sul loro sito Internet. “Attraverso alcuni bozzetti racconta l'unicità e la sublime difficoltà delle relazioni interpersonali”. Come nella criptica “The Pilot” (Il pilota), breve poesia in musica: “Mentre vola, il pilota, ha la mente concentrata sulle correnti d'aria: le correnti d'aria hanno molto a che vedere con quella - ma lui la sente, lo so che la sente - quella sacra sospensione. Sospeso metri sopra la terra, quel sentimento di galleggiamento rimanda ad un mito. Il mito è la stella che vedi, guardando la stella che è vicino a te. E' lì che canta: 'Sono vivo'”.

(9 agosto 2013)

jackotheclock.com/Jack_O_The_Clock.html

jackotheclock.bandcamp.com/

 

 

JOE MCKEE - "Burning Boy" (CD - Dot Dash, UK 2013)

Sapevo che queste canzoni erano diverse da quelle degli Snowman. Sono state una sorta di “piano di fuga” dal gruppo. Erano qualcosa che nascondevo agli altri, in modo da avere qualche forma di espressione separata. Sapevo che dovevano essere suonate da me e basta, composte solo da me, essendo canzoni profondamente personali. Hanno a che fare con la mia infanzia e con il mio senso di nostalgia e di perdita per il posto in cui sono cresciuto. Sentivo il bisogno che fossero brani musicali tranquilli, catartici, curativi, e sapevo che, a causa delle restrizioni degli Snowman, non potevo raggiungere quel genere di stato d’animo”.

Joe Mckee in un'intervista, a proposito del suo primo album da solista dopo l'esperienza con gli Snowman, band australiana del circuito indipendente.

Catartico”, “curativo”, “tranquillo” sono aggettivi che descrivono bene l'effetto dell'ascolto dei dieci brani di “Burning Boy”, un distillato per chitarra elettrica/acustica e voce (più effetti di feedback, delay, loop...) di una poetica che si colloca tra lo Scott Walker dei primi album solisti (soprattutto il quarto del 1969), genio ormai dimenticato, le prove vocali di David Sylvian, l'intimismo di Elliot Smith, le atmosfere esoteriche di certi dischi della 4AD (This Mortal Coil, Cocteau Twins, Dead Can Dance), la paranoica claustrofobia del Matt Johnson di “Burning Blue Soul”, disco da riscoprire.

Un lavoro immaginato per creare un'atmosfera in cui calare la conta dei sentimenti e delle idee più intime, appunto, per suggestionare e ammaliare con sonorità d'antan, davvero inconsuete di questi tempi: il breve incipit di archi di “Darling Hills”, l'arpeggio lieve che accompagna la voce trasognante, come provenisse dai recessi più profondi dello spirito, un soffuso rumorismo sullo sfondo per dare profondità e risonanza...

In questi casi, certo sbrigativamente, il giornalismo rock definirebbe il disco “intenso” per l'impressionante senso di concentrazione di suoni e voci, la cura dei particolari, il minimalismo delle strutture davvero ridotte all'osso, la consapevolezza di riuscire a cogliere la dimensione dell'inesprimibile...

Mi mancava un certo calore, il conforto del mio passato. Volevo tornare a quei momenti, a quei luoghi. Un modo per trasportarmi in un luogo che non esisteva più. Catturare quella sensazione di nostalgia, di perdita, era il mio obiettivo principale. Penso che la musica dovrebbe sempre cercare di comunicare qualcosa non altrimenti comunicabile”.

Tornato a registrare nella casa natale di Perth (Australia), ha concluso e missato il disco a Londra, dove risiede da anni.

(2 agosto 2013)

joemckeemusic.tumblr.com/

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BELLS ATLAS - "Bells Atlas" (CD - autoproduzione, USA 2013)

Se avete amato come me i Talking Heads, la vocalità delle Zap Mama, vi entusiasmate in genere per la musica africana (Fela Kuti, Ali Farka Tourè, Miriam Makeba, Youssou Ndur, Hugh Masekela...) e non avete pregiudizi sulla possibilità che le forme tradizionali si disintegrino per ricostruirsi in generi nuovi, indefinibili, liberi dalla dittatura delle facili categorizzazioni (afro-beat? soul vocal pop? indie-afro-beat-soul-vocal-pop?...), i Bells Atlas di Oakland (California) sono “il gruppo dell'estate” che fa il caso vostro.

Orecchiabili, non c'è che dire, soprattutto per le ritmiche e l'impasto delle voci, ma assolutamente imprevedibili nell'andamento dei brani, ricercati, raffinati, con un impiego intelligentemente misurato dell'elettronica.

Una prova entusiasmante, dopo l'uscita all'inizio dell'anno di due ottimi mini CD, che mette in primo piano la musicalità della voce di Sandra Lawson-Ndu, declinata nella sua gamma espressiva più ampia, e le percussioni di Geneva Harrison. A completare la band, anche la chitarra di Derek Barber e il basso di Doug Stuart. Alcuni musicisti ospiti di disparata estrazione ad arricchire la tessitura dei brani: Rob Ewing (trombone), Aram Shelton (sax tenore), Anton Estaniel (violoncello), Jacob Hansen-Joseph (viola), Bob LaDue (chekeres), Hannah Van Loon (violino) e Theo Padovus (tromba).

Ma come mai, vi state chiedendo, tutto questo accade a Oakland, California? Perché là, diversamente che a Cremona (“città della musica”!), da qualche anno esistono una ventina di spazi per la musica “fai da te” (“DIY spaces”, li definiscono gli americani) in cui gruppi sconosciuti, improvvisati, informali di ogni età possono esibirsi gratuitamente, senza tutti quei vincoli che notoriamente rendono improba ogni esperienza espressiva (soprattutto giovanile) in Italia. Riporta l'East Bay Express, uno dei quotidiani dell'area: “Anche se il fenomeno dei DIY può anche non essere limitato alla sola Oakland, per svariate ragioni la scena underground della città sembra sulla cresta dell'onda. Alcuni dell'industria musicale sostengono che la scena dei DIY sta anche contribuendo a mettere in luce Oakland nell'ambito del turismo culturale. A ciò si aggiunga che gli spazi alternativi offrono un palcoscenico ideale, soprattutto ai gruppi sperimentali più vivaci. E nonostante la proliferazione di bar e locali notturni in città, molta gente continua a dire che non ci sono abbastanza spazi per rispondere a tutte le richieste”.

A questo punto, immagino stiate pensando, sarebbe facile e decisamente retorico fare dell'ironia sulla situazione di Cremona e le opportunità concrete offerte a tutti quei giovani che vogliano provare a cimentarsi con uno strumento che non sia il violino... 

(26 luglio 2013)

bellsatlas.bandcamp.com/

www.bellsatlas.com/

 

THE REVIVAL HOUR - "Scorpio Little Devil" (CD - Anthiphon, USA 2013)

Quali caratteri deve avere un album contemporaneo per essere un capolavoro? Per quanto mi riguarda deve risultare imprevedibile anche dopo alcuni ascolti, avventuroso, digressivo, ardito nella ricerca di soluzioni melodiche e armoniche, sincretico e comunque piacevole, divertente.

Il debutto dei texani The Revival Hour (John-Mark Lapham e DM Sthit) contiene molto di più. Ha la perentorietà sprezzante delle Grandi Opere. Ricorda tante cose già ascoltate (per la stampa, PJ Harvey, Dusty Springfield, The Knife, Antony Hegarty, Robert Wyatt e Portishead), ma mantiene un'innegabile spiccata originalità: R&B anni Sessanta, soul music, doo-wop e pop fusi insieme con un intelligente uso dell'elettronica che richiama addirittura i Radiohead senza imitarli. Non sembra che nelle poche interviste i due musicisti l'abbiano citato tra le loro fonti ispiratrici, ma a me più di tutto ha ricordato quasi subito (almeno quanto a climax sonoro) “The Crazy World of Arthur Brown”, oscuro zibaldone di stranezze sonore prodotta da Kit Lambert (produttore degli Who) e finanziata da Pete Townshend nel '68 per la piccola etichetta Track Records: Arthur Brown, in costume da mago, vocione roco e sguardo satanico, era diventato una leggenda in quei mesi per i suoi happening all'UFO Club di Londra - spettacolini eccentrici a base di diavolerie con il fuoco.

Scorpio Little Devil” è segnato dal cantato in farsetto di DM Sthit, autore dei testi, intruglio di “horror pulp, drammi comici, un'oscura sfilata cosmica di sequenze di caccia, mostri, spiriti ed esplosioni di sangue”, per dirla con il loro autore. Spiega: “Sono testi volutamente drammatici all'eccesso, inseriti un un contesto religioso pseudo-spirituale. Ero incazzato per l'educazione religiosa che mi avevano impartito e per l'alienazione dagli amici e dalla mia famiglia dovuta al mio outing. Ma per sopportare tutto ciò ho dovuto buttarla sul ridere...”.

Dieci brani che sono un giro folle in un luna-park fuori controllo. Mentre si ascolta “Pyre” si è come come aggrappati a una giostrina di cavalli psichedelici imbizzarriti: loop, voci sovrapposte, stratificazioni di rumori rendono il pezzo un caposaldo della neo (?) psichedelia contemporanea senza facili kitscherie ad effetto tipo sitar e tastierone. Fa girare la testa, avvince, ti strattona, il pezzo, come raramente capita. Anche se il singolo scelto, che potete giurarci difficilmente entrerà in classifica, si intitola “Hold Back” ed è un robusto R&B sulla falsariga di classici come “I put a spell on you” (ve la ricordate? La lanciò nel '56 Screamin' Jay Hawkins!!)... Un regolare 4/4 con piano ritmico, cori soul, fiati, contrappunti di archi. Un po' come quei pittori passati all'astrattismo più radicale dopo aver dimostrato di saper dipingere un ritratto o un paesaggio come si deve!

(19 luglio 2013)

revivalhour.bandcamp.com/album/scorpio-little-devil

 

SCOTT MATTHEW - "Unlearned" (CD - Glitterhouse Records, USA 2013)

E' necessario fare uno sforzo per dimenticare le abitudini con cui facciamo o consideriamo qualcosa, in modo da poter imparare un modo nuovo”.

E' tutto qui il senso del terzo album di Scott Matthew, “Unlearned” (dimenticato), raccolta di quattordici remake interpretati in modo tanto personale da renderli quasi irriconoscibili. Credetemi, un capolavoro che di questi tempi capita raramente di ascoltare. Ogni pezzo, il risultato di un processo di riscrittura originale che in alcuni casi arriva addirittura a migliorare il modello ispiratore: chi si immagina una “Love will tear us apart”, icona della dark wave dei Joy Division, riproposta nelle vesti di lenta ballata dolente, la voce che emoziona fin quasi a commuovere?

La voce, appunto. Dimensione che in Matthew non teme confronto anche con i più grandi cantanti contemporanei d'ambito popular: un timbro, il suo, che ricorda quello sublime di Anthony Hegarty (Anthony & the Johnsons), con una grana che lo avvicina a crooner di razza come Tom Waits e quel suggestivo vibrato che ci seduce ogni volta che ascoltiamo Billie Holiday a fine carriera (“Last recording”, 1959).

L'album, registrato ai Saltlands Studio di Brooklyn (New York) con la collaborazione di musicisti eccellenti quali Eugene Lemcio, Clara Kennedy, Spencer Cobrin, Marisol Limon Martinez, Jürgen Stark e l'organettista portoghese Celina da Piedade, è un portfolio di brani scritti/registrati tra gli altri da Radiohead , Rod Stewart, Bee Gees, The Jesus And Mary Chain, Neil Young, Roberta Flack, Whitney Houston . Pezzi che hanno un riferimento diretto alla vita di Matthew come racconta sul suo sito Internet: “I miei genitori, la mia infanzia, la mia personalità in formazione nell'adolescenza, la riscoperta nell'età adulta di quella che è un grande canzone. In un certo senso ho fissato la linea del tempo della mia vita e l'ho condensata in una serie di cover. Queste canzoni sono una consolazione, cari amici. Sono state mie amiche e coi miei amici più cari che mi hanno aiutato a registrare questo album vi chiedo gentilmente di rimuovere i preconcetti e dimenticare quello che ricordate di una canzone, un artista, un genere musicale. Ho voluto trovare la vera essenza di queste canzoni. Un processo che mi ha portato a filtrarle attraverso me stesso e le diverse fasi della mia vita. Sono state dimenticate”.

Favolosi i rifacimenti di “Harvest Moon “ (Neil Young) e di “Annie's Song” (John Denver), soprattutto. Una lezione di stile e genio compositivo a tutti quei musicisti, e sono davvero tanti, che a corto di ispirazione periodicamente si cimentano in tributi di altri artisti: ci vuole personalità, tecnica e profonda passione per 'far proprie' certe canzoni. Per capire cosa intendo, ascoltate il rifacimento di “Guantanamera” di Zucchero. Poi, per riprendervi, selezionate nel lettore “No surprises” (dei Radiohead) rifatta da Scott Matthew...

(12 luglio 2013)

www.scottmatthewmusic.com/

www.glitterhouse.com/index.asp

 

WHITEBROW - “Whitebrow” (CD - autoproduzione, CAN 2013)

Registrato tra il novembre e il dicembre del 2012 nella St. Paul's Presbyterian Church di Burlington (Ontario), “Whitebrow” è il secondo album dei Whitebrow, giovane gruppo canadese di Toronto. Un trio, per essere precisi: Gabriel DeSantis, voce e chitarre acustiche, Frank Evans al banjo e al violino e Mike DeiCont al basso. Nei concerti dal vivo anche Rosalyn Dennet al violino. Sul disco, undici brani che sono un'inquieta attraversata del continente folk e blues angloamericano, un baule polveroso zeppo di ricordi Donovan, Cowboy Junkies, Youngbloods, Dan Hicks, Devendra Banhart, Dylan e Neil Young... per dire i primi nomi che vengono alla mente.

Niente di trascendentale, certo, ma DeSantis, che compone i pezzi, ha stoffa da vendere e si sente: introdotti da intriganti arpeggi di acustica, i pezzi sono arrangiati con violino e banjo, la voce esile in primo piano a volte sostenuta da seconde voci. Operine scarne, senza fronzoli e inutili abbellimenti da manierismo cicisbeo rock, suggestive e attraenti sin dal primo ascolto. Come in certi riti vodoo da film, evocano mondi sonori conosciuti, rimandano ad armonie note, timbriche familiari, pur rivendicando un'anima innegabilmente originale. Hanno testi che scrutano la realtà con maturo disincanto e rivitalizzano l'iconografia blues a suon di morti, anime vendute al diavolo, strade in cui perdersi, spleen esistenziale, clamorose bevute e amori che bruciano.

I will follow you down”, “Ti seguirò fin là sotto”, giusto a metà dell'album, racconta della Morte che arriva e bussa alla porta: “Beh, ecco la Morte, dice che è venuta a prenderti, anima corrotta. Nei tuoi occhi lo vedo, stai cadendo veloce, stai andando a fondo. Sai che i tuoi giorni sono finiti, la gallina fa su e giù dal trespolo, la tua ombra è lì che aspetta con occhi che sbavano, pronta a festeggiare la grande dipartita. Ed io ti seguirò fin giù nella tomba, le mie mani sono schiaffeggiate, sto sanguinando dalla navata, ma tu stai cercando la tua testa, è ancora sottosopra. Comunque ti seguirò fin là sotto”. Un testo degno del miglior Robert Johnson, non trovate?

Di sé scrivono: “Le pietre sono il nostro cuscino, la terra fredda il nostro letto, l'autostrada la nostra casa, e la musica che continua a nutrirci”. Ritratto perfetto, migliore della più ispirata recensione del più ispirato giornalista. La loro, una musica da viaggi notturni, in auto, lungo strade che si perdono alla vista. Lampioni, alberi, qualche casa che si fa incontro all'orizzonte. Intorno è un buio pesto, ma non era una lepre quella che scivolava tra i campi? L'alba è ancora là da venire...

(5 luglio 2013)

whitebrow.bandcamp.com/

 

MEMORY BAND - “On the chalk” (CD - Static Caravan Records , UK 2013)

Uno dei tre generosi lettori di questo spazio l'altro giorno mi chiede: “Che senso ha scrivere sempre recensioni positive su sconosciuti musicisti indipendenti? Possibile che sia sempre tutto così bello...?”. Gli rispondo che la rubrica è congegnata così e la motivazione è già nel titolo: scelgo per il lettore un album appena uscito che mi è piaciuto e lo commento. Tutto qui. Siccome dei grandi musicisti internazionali parlano già stampa-TV-radio-internet-et similia, spesso facendo da grancassa alle multinazionali del disco, quindi enfatizzando meriti anche quando non ci sono, ho deciso di dedicarmi agli indipendenti, spesso ignorati. Non è stato De Andrè a cantare, forse, “ dai diamanti non nasce niente, dal...”?! Nel suo sguardo, però, leggo come un'aria di sfida, così aggiungo: non credere che siano tutti così belli i dischi che escono tra le indipendenti, ci sono schifezze colossali anche lì. A volte, anzi, trovarne uno degno di essere raccontato è uno sforzo non da poco. E gli sciorino alcuni titoli mediocri usciti dall'inizio dell'anno: “Clocks” di A Little Orchestra (degno sottofondo folk per cresime e battesimi), “601” di Kelli Schaefer (imbarazzante imitazione karaokesca di Bjork...), di Dennis Ellsworth (uno Springsteen con la labirintite), “Summer Songs” dei Lullatone (finiti da piccoli per sbaglio nella pozione anni Cinquanta e mai più cresciuti)...

Sembra convinto, forse più dal profluvio di nomi (molti a lui sconosciuti) che dall'argomentazione in sé. Mi interrompe: e questa settimana su cosa scriverai? Gli rispondo che una delle ultime sorprese è stata la Memory Band di Stephen Craknell, musicista inglese dalle profonde radici folk con il gusto, raro, per l'ibridazione armonica. Con questo suo “On the chalk”, quarto album appena uscito per l'indipendente Static Caravan Records, sono sicuro che farà sobbalzare i tanti puristi ancora in circolazione, ossessionati dalla registrazione sul campo e dalla (solo presunta) fedeltà filologica delle fonti. Gli undici brani del disco (non a caso con titoli dai rimandi a luoghi della campagna inglese) sono infatti un appassionante viaggio nello spaesamento sonoro della tradizione: rumorismi, campionamenti, loops, strutture minimali iterate, ardite armonizzazioni vocali di impianto folk, melodie cristalline da carillon, richiamano nobili pagine dell'avanguardia anglo-americana del Novecento (Nyman, Riley, Brian Eno...), le colonne sonore di Yann Tiersen negli episodi più melodici, il gusto per il campionamento del geniale Hal Willner e la straordinaria, mai abbastanza valorizzata, fulminea parabola dei Neu, duo tedesco artefice agli inizi degli anni Settanta di tre sbalorditivi album di elettronica ante-litteram entrati nella leggenda del cosiddetto 'krautrock'. Una musica carezzevole e spaventosa insieme, insomma, come sa esserlo la natura più selvaggia.

(28 giugno 2013)

thememoryband.bandcamp.com/album/on-the-chalk-our-navigation-of-the-line-of-the-downs

thememoryband.com/