Luca Ferrari

 

PERLE AI SORCI,

GELATO AI TORDI

Come sbarazzarsi di Massimo Stracotto, Enzo Scortese, Gino Braccobaldo, Ernesto Ansimante, Raccordo Pavoncelli e Paolo Faruk e continuare ad amare la popular music.

 

Scritti sulla musica (1986-2007)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

la dea bicefala / 01

no 2008 Edizioni ladeabicefala.net

Nessun diritto riservato. Tutte le parti di questo libro possono essere riprodotte, trasformate, utilizzate senza dover richiedere alcun permesso all’editore.

 

In copertina: “Pesce d’aprile” (Giulio, 1999 – matite colorate, tempere, Das e cartone)

 

 

 

Indice

 

  1. Intro.........................pagina 6

  2. Filippiche...............................pagina 8

  3. Innamoramenti...............pagina 49

  4. Delusioni............pagina 74

  5. Sorprese.............................pagina 83

  6. (ghost tracks)…………………………………………

 

 

1. Intro.

 

Mi sono finalmente sbarazzato della ‘critica rock’ (e voi?!). Da tempo, ormai, non compro più riviste musicali, non leggo più guide e dizionari pop. Mi faccio consigliare dagli amici, preferisco lasciarmi sedurre dagli ascolti fugaci o cercare in Internet; leggere opinioni nei blog o captare suoni e rumori viaggiando. Acquisto LP e CD a caso, per istinto, e amo fermarmi ad ascoltare/vedere musica durante uno zapping alla TV (satellitare) o trovare indicazioni tra le righe di un romanzo o tra i segni di un quadro... Mi sono liberato dalla feroce compulsività del collezionismo e dall’imbelle ossessione completista, affidandomi all’incontro casuale coi suoni e i rumori.

    La critica popular, quella ‘ufficiale’ delle riviste musicali, ha avuto la sua Caporetto anni fa e mi appare ogni giorno che passa davvero incredibile che continui a fingere che non sia accaduto niente. Grazie alla rivoluzione del bit, alla velocizzazione dei sistemi di comunicazione, alla proliferazione dei canali satellitari, all’agevole produzione di nuovi supporti audio/video e alla loro graduale ma inesorabile polverizzazione nella compressione MP3, la lettura in filigrana col monocolo della critica ‘ufficiale’ è diventata inesorabilmente obsoleta. Come martello e scalpello a confronto dell’ultimo PC portatile.

    In tempi di deflagrazione dei media come questi che viviamo è a dir poco grottesco che un manipolo di sedicenti ‘esperti’ (l’ennesima casta?) possa ancora credere di detenere una qualche legittimità ‘critica’ nella lettura dei fenomeni contemporanei ed illudersi, a dispetto dell’opprimente, condizionante ruolo dell’industria discografica di cui è consapevole e spensierata vittima, di esprimere giudizi realmente ‘liberi’, ‘indipendenti’, ‘autonomi’. Anche il più sprovveduto dei lettori non può non rendersi conto, credo, che le riviste musicali si sono ridotte a penosi cataloghi promozionali delle case discografiche e tutto – tutto! – è esclusivamente finalizzato alla vendita surrettizia dei prodotti di cui ci si scrive sopra.

Non sono mai stato un critico musicale. Solo un appassionato curioso, affascinato dalla ricerca e dalla conoscenza che ha tentato nel tempo di dotarsi di un codice interpretativo che potesse orientarlo nella comprensione dei fenomeni.

Ho capito solo molto tardi, purtroppo, che le categorie della razionalità, le ‘scuole di pensiero’, gli ‘orientamenti della critica’, diventano troppo spesso ostacoli al godimento autentico della musica, a quel piacere leggero, libero del determinismo della ragione, di ascoltare i suoni per quello che sono, senza dover necessariamente ‘comprendere’ ed esprimere giudizi di merito.

Le ‘scuole di pensiero’ sono fondate da presunti opinion leader con al seguito uno stuolo di penosi portaborse sculettanti e agognanti di finire, un giorno, a dirigere anche loro qualche rivista o a ‘coordinare’ qualche comitato redazionale al servizio delle major discografiche e dei potenti del settore (agenzie di management, A&R, direttori artistici, impresari...).

    Questa raccolta è una parziale rivisitazione dell’imponente mole di chiacchiere (vaniloqui?) scritte in questi ultimi vent’anni intorno a una delle mie passioni principali: l’ho organizzata volutamente senza alcun criterio crono/logico in quattro sezioni che si riferiscono al piacere e al dispiacere dell’ascolto, alle sorprese e alle attese tradite, senza alcuna urgenza se non quella di esprimere semplicemente il proprio libero, indipendente, autonomo punto di vista su dischi, libri ad argomento musicale, esperienze correlate alla musica.

Uno ‘zibaldone’, come l’ha definito spregiativamente qualcuno, che è costato in alcuni casi addirittura la rottura di amicizie, l’improvvisa interruzione di rapporti di cordiale collaborazione, incomprensioni, delusioni, acrimonie. Ma tant’è.

Senza voler fare della retorica a buon mercato, credo sia questo il prezzo che paga chi come me ha sempre scelto di pensare (e scrivere) liberamente, senza dover compiacere chicchessia se non la propria incoercibile passione per l’ascolto della musica.

Questo sampler book, quindi, è dedicato a tutti i liberi pensatori, ai navigatori della Rete, ai miei generosi e indulgenti lettori.

È dedicato anche e specialmente a queste persone belle e care che ho il privilegio di conoscere: Amerigo Verardi, Domenico Nodari, Said Boutaga, Davide Vairani, Piercarlo Bertolotti, Andrea Tronco.

È dedicato infine, naturalmente (ma non ovviamente), a Elena e Giulio, gioie della mia vita.

 

 

2. Filippiche.

Siorri e siorre: i cinquanta personaggi che governano la musica!” (pa-parapà!)

Non siamo nell’elenco dei “cinquanta personaggi che governano la musica” pubblicata sull’ultimo numero di “Musica” di Repubblica (il 439 del 2 dicembre 2004). Ci dispiace un po’, lo confessiamo.

D’altronde, se fossimo compresi nell’elenco con Eminem, Bono, Dido, Moby e la caterva di buffi nomi di hip-hoppers-discodance-techno-rocker americani/inglesi che affollano MTV e i vari canali satellitari saremmo impegnati a che la musica fosse qualcosa di assolutamente diverso da quello che è. Un territorio di opportunità reali, di libertà espressiva, di invenzione, di sorprese, come certi giocattoli di latta colorata di una volta, che oggi però (importati dalla Repubblica Ceca) capita di trovare sui banchetti dei mercatini a cifre astronomiche.

La musica è un affare sporco, e non da ieri, in cui chi “ce la fa” non è detto abbia i meriti (tecnici, culturali, creativi) per farlo. Principio trasversale (questo sì democratico!) che crediamo si applichi al rock come al jazz, al country come all’hip-hop, al folk come alla cosiddetta “colta”...

 

È storia trita, dopotutto, che esala puzza di muffa fin solo a pensarla.

Musica” di Repubblica, d’altronde, è il perfetto melange di sottocultura giovanilista somministrato dai vecchi santoni della kritica musicale italica (i Castaldo, i Sisti, i Pellicciotti, i Videtti...): dentro, ci si può trovare tutto il peggio che si presume debba accadere (e interessare) nell’universo parallelo dei giovani contemporanei italiani - un condensato di notiziole tipo-SMS che si ritiene debbano informare il lettore; rubrichette di recensioni di dischi, libri (raramente di argomento musicale), DVD, nuova tecnologia, cinema, moda, giochi, programmi TV presentate con il piglio del “giovane che parla ai giovani”; articoli divinatori sull’ennesima rockstar del momento; santini dedicati ai tromboni della musica italiana (Daniele, De Gregori, Battiato...), trattati con ossequiosa arrendevolezza (mai una domanda ficcante, mai una piccola sana provocazione...); polemichette inventate a regola d’arte (vedi quella recente, risibilissima, tra Manuel Agnelli e Albertino (!) sulla selezione dei pezzi operata dalle radio che ha scatenato le consuete barricate italiote...) per illudere la platea che da queste parti si riflette sui fenomeni sul serio. Linguaggio serrato, minimalista, superficiale, perché non c’è tempo, si sa, tutti presi come siamo nella nostra quotidiana “performance”...

 

Il tutto, naturalmente, imbottito di pubblicità sulle iniziative e i relativi gadget dell’editore e degli editori “simpatetici” (come L’Espresso, ad esempio, che ingolfa da tempo le edicole di CD e DVD a basso costo, contribuendo a saturare l’offerta e ad abbassare la qualità...), oltre che dei numerosi inserzionisti (che in genere propongono borse e borsette, profumi, scarpe, abiti, gioielli...).

Chi di noi ancora ragiona autonomamente sa che la verità è altrove, e che bisogna andare a cercarsela. Che l’idea di “giovane” e di “cultura” su cui si modella “Musica” (qui assunta impropriamente ad archetipo) è un’altra: certamente non questa sorta di idolatra dal basso Q.I. disposto quasi esclusivamente a rimbambirsi di decibel, pasticche e cellulare (ma comunque ben vestito e di sinistra, perché disposto a sciropparsi le prediche di Pelù sull’antiproibizionismo, annuire alle sagge riflessioni sul Terzo Mondo di Jovanotti e a meditare sui periodici tazebai dei Modena City Ramblers...).

 

C’è bisogno di ben altro, crediamo. C’è sempre più bisogno di sensibilità e intelligenza.

Elementi che si ritrovano nel recente, straordinariamente acuto saggio filosofico del francese Jean-Luc Nancy, docente all’Università di Strasburgo, che nel suo ultimo libro tradotto in Italia – “All’ascolto” (Raffaello Cortina Editore, Roma 2004 – € 9,00, pag. 70) – traccia alcune coordinate sull’esperienza dell’”intendere acustico”, da sempre oscurato sul piano sociale e culturale dall’”intendere logico”.

Un libro dagli esiti sorprendenti, soprattutto perché, pur partendo da solide basi filosofiche, offre illuminanti applicazioni alla ricerca più avanzata sulle musiche contemporanee (di cui uno dei riferimenti imprescindibili resta “Il paesaggio sonoro” di Shafer Murray, Ricordi Libri).

Resta un fatto, in ogni caso: c’è ancora qualcuno disposto oggi ad occupare qualche ora del suo tempo con la lettura impegnativa di un libro?

 

Come saccheggiare Tenco… in suo onore.

È una furbata che risale alla metà degli anni Ottanta, più o meno, e ha riguardato vivi e morti, famosi o sconosciuti. Quella del "tributo" è il cavallo di troia dell'industria discografica per differenziare l'offerta e vendere sempre di più; una carta di credito per artisti più o meno conosciuti che in questo modo tentano una visibilità altrimenti difficile, se non impossibile; l'opportunità, in mancanza di idee, di lavorare su materiale di qualità; un'occasione, anche, nei casi più onesti, per riaffermare idee, una particolare visione del mondo, lanciare provocazioni.

    Quale sia il senso di quest'ennesima "rilettura" di Luigi Tenco ("Come fiori in mare. Luigi Tenco riletto", Extra Labels, ITA 2001), il compianto cantautore vittima della più bruciante fragilità, sfugge più che in altre precedenti occasioni. "Come fiori in mare" (bel titolo!) è di una disomogeneità a dir poco irritante, sciatto nella scelta degli arrangiamenti, modeste le voci selezionate. I brani brutalizzati da arrangiamenti "contemporanei", con iniezioni massicce di rock, drums'n'bass e campionamenti: non è un caso che, tra gli episodi più riusciti, spicchino giganti le interpretazioni quasi "filologiche" di Stefano Giaccone ("Io vorrei essere là"), Ivano Fossati ("Ragazzo mio"), Lalli ("Vedrai") e Giulio Estremo Casale ("Ciao amore, ciao"). Non è questione di poco conto: è possibile rileggere un autore così dentro la sua epoca come Luigi Tenco snaturandone l'identità, strappandolo dal contesto storico, lanciandolo nel vuoto pneumatico di questi nostri giorni di indifferenza? Un esempio: tra le mani di un gruppo come Il Parto delle Nuvole Pesanti (!), una canzone tipicamente "beat" di aperta contestazione agli adulti ("Ognuno è libero", anno 1967) diventa l'ennesimo pezzo pop da ascoltare distrattamente in macchina alla radio, affogata nei suoni che straziano il nostro quotidiano. Tenco meritava di più. Merita di essere (ri)ascoltato in originale, ad esempio. Da poco nuovamente disponibile nei negozi a sole 12.900 lire nella collana "Gli Indimenticabili" della RCA/BMG il bellissimo "Tenco" del 1966.

 

Fischia il vento… della retorica antiregime: “il caso De Gregori-Marini”

Ancora sull’ultimo album di Marini-De Gregori, dopo che la stampa tutta si è esibita nel consueto balletto sulle punte dell’apologia. Siamo al santino, all’esegesi, per un disco – diciamolo subito e con franchezza – che non meritava granché ma che ha raccolto intorno a sé, alla sua uscita nei negozi, più delle voci del “Requiem” di Verdi.

Abbiamo scelto un osservatorio preciso per verificare l’impatto che questo lavoro modesto, poco ispirato e – quel che è peggio - sopravvalutato ha avuto sull’informazione nel nostro paese: il quotidiano “La Repubblica”, che leggiamo abitualmente. Quasi settecentomila copie di tiratura, numerosi gli inserti/gadget (libri, CD, supplementi…) secondo una vieta abitudine che nel nostro paese ha raggiunto i tratti dell’ossessione, numerose le firme antigovernative (Bocca, Serra, Cordero, Maltese…). Solo qualche anno fa lo si sarebbe definito senza imbarazzi un “giornale della sinistra moderata”.

 

Il Fischio del Vapore” si presenta al lettore de “La Repubblica” il 15 novembre, a pag. 57 dell’inserto “Il Venerdì”, con un’intervista a Giovanna Marini dal titolo “Chi è quel signore con la barba che suona con Giovanna Marini?”. Con uno stile giornalistico “televisivo”, l’intervistatore Antonello Caporale offre della cantante un profilo sbarazzino, sbrigativo e grevemente ironico: “L’ha amata chi oggi si ritrova con i capelli bianchi. E’ stata lei (…) la colonna sonora del ’68. Ha protestato in si bemolle, ha cantato i grandi comunisti (Togliatti), i grandi letterati (Pasolini), il popolo affamato (Reggio Calabria), la Resistenza (Bella Ciao).”

Caporale sintetizza così gli effetti di tanto impegno civile: “Poi i giovanotti, mettendo la testa a posto e la cravatta al collo, si sono un po’ stufati di lei. Lei se n’è fatta una ragione, De Gregori no.”

 

Nell’intervista, superficiale e scarsamente documentata, la Marini conferma di essere stata come “miracolata” dal Dylan nazionale (“Francesco questo disco l’ha fatto per me…”) ed è costretta quasi subito a rintuzzare le risibili provocazioni del giornalista, quasi totalmente centrate sulla biografia e sulla storia trscorsa della cantante. Quanto alle motivazioni, alle ragioni vere del progetto, nemmeno una parola. Unici accenni all’identità e al ruolo della canzone popolare oggi, vedono la Marini molto critica: le canzoni popolari in genere sono “mediamente brutte”, afferma; circa la politica contemporanea è ancor più lapidaria: “fortissimamente credo che si debba cambiare questa società”; “oggi la sinistra cos’è? Non ha più valori, un’identità fondante. E’ il contenitore di coloro che non sono di destra. E’ tutto quel che resta.” – la battuta più significativa.

21 novembre: sulla prima pagina del quotidiano, in basso, pubblicità del disco con copertina rosso fuoco: titolo in bella evidenza, più sotto la dicitura “Le Grandi Canzoni Popolari Italiane”. Sulla destra l’indicazione “CD, MC, LP – Caravan – distribuzione Sony Music”.

 

Essenziale, la pubblicità sovrappone la copertina del disco all’annuncio promozionale. Niente fronzoli o presentazioni, come se i pubblicitari fossero consapevoli che colore rosso, nome dei musicisti e sottotitolo evocativo bastino in sé.

Sempre il 21 novembre: nell’inserto “Musica! Rock e altro”, Gino Castaldo dedica un pezzo al nuovo disco. A pag. 32 (titolo: “De Gregori-Marini. Il tempo della memoria”), il decano della critica pop nostrana analizza il disco collocandolo sventatamente nell’ambito della canzone d’autore italiana (citando Guccini e De Andrè come pietre angolari della “tradizione del canto popolare”…). A proposito della musica, dopo essersi detto curioso su quale “percorso” ed “esito” avrà “un disco così anomalo e controcorrente”, scrive: “Gli arrangiamenti sono semplici, rispettosi, a volte asciutti e quasi filologici, a volte ammodernati da un suono di gruppo che riporta all’oggi queste vecchie melodie.” Scettico al riguardo degli intenti solo culturali dichiarati dai titolari dell’operazione, più propenso a considerare il disco un prodotto “politico”, Castaldo afferma: “(Le canzoni scelte) se non altro spingono a riflettere: hanno oggi voce gli oppressi, i deboli, i diseredati, gli emarginati dal grande illusorio sogno del benessere televisivo?”

 

23 novembre: a pag. XXI, nella parte del quotidiano dedicata a Milano, Mariella Tanzarella intervista Ivan della Mea sul disco. La breve intervista, dal titolo esplicito “Anche col folklore si può fare politica”, propone da un lato alcune acute, per quanto sintetiche, opinioni sullo stato della musica “folk” contemporanea (Della Mea dice, tra l’altro: “(…) Non ci va che si faccia il verso al proletariato: cerchiamo di mantenere un certo rigore filologico. Queste riscoperte dell’etnico variamente inteso considerano, secondo me, l’uomo folclorico: invece è più difficile e faticoso ragionare sull’uomo storico…”); dall’altro, il logoro vestitino della retorica dell’antiregime che, esaltando la natura contestataria e “politica” del disco - ipostatizzata e non dimostrata da prova alcuna - la sua presunta originalità e diversità, esibisce il frustro manicheismo dell’intellighentia di Sinistra per la quale solo se si è conformi al “movimento” si è “legittimi”; il resto, semplicemente, non esiste ed è sistematicamente ignorato.

Della Mea, che con l’Istituto De Martino ha curato l’apparato filologico dell’operazione (ed è quindi, seppur indirettamente, parte in causa nell’operazione), sentenzia: “Insomma, in questo momento di crisi della musica e del suo business, queste riscoperte di etnico e popolare mi pare che rappresentino più che altro un mercato alternativo: è già successo altre volte. Però l’operazione Marini-De Gregori è diversa: hanno cercato di fare qualcosa di nuovo a partire dal repertorio popolare, hanno creato, rischiando in prima persona.” E ancora:“De Gregori che rispolvera certe canzoni fa politica contro il governo di centrodestra…” (corsivi miei).

 

Mercoledì 4 dicembre 2002, pagina 41 (Spettacoli & TV): in bianco e nero, mezza pagina di grandezza, si ripropone la pubblicità del disco, sullo sfondo di una sfocata fotografia della Marini alla chitarra ripresa dal booklet del CD. Intanto (classifica dei dischi più venduti in Italia pubblicata da “Musica!” sul n. 352/353 del 12 dicembre), il disco ha fatto il suo ingresso in classifica all'ottava posizione, in compagnia di Vasco Rossi, 883, Giorgia, Celentano, Cesare Cremonini…

 

Urla la bufera… dell’indignazione

L’osservazione sistematica delle fasi promozionali di un disco dice molto di più della sua reale natura e descrive efficacemente i tempi decadenti in cui versano le musiche e l’industria discografica contemporanee.

Il Fischio del Vapore”, per il solo fatto di essere stato ideato e registrato da Francesco De Gregori (e Giovanna Marini) e distribuito dalla Sony Music, sta imperversando sulla stampa del nostro paese, più o meno specializzata. Presto, dopo l’autorevole parere di Della Mea e dello stesso Castaldo, nuovi testimonial batteranno la grancassa della promozione in nome chi dell’arte chi della “politica”, chi di entrambe (provatevi a immaginarne i nomi…). (Per inciso: nel paniere promozionale di “Il Fischio dell Vapore” dobbiamo aggiungere un’apparizione del duo De Gregori-Marini alla trasmissione del sabato sera condotta da Morandi e dalla Cuccarini. Apparizione, crediamo ci verrà perdonato, che non abbiamo verificato personalmente per l’insopprimibile fastidio verso il tipo di programma.)

Diverso destino dalla maggior parte dei lavori che in questi anni sono stati pubblicati nel nostro paese, nell’ambito del “canto sociale e politico”. Si potrebbe stilare un elenco di vari nomi e titoli, comunque incompleto. Qualche esempio?

Dal recente Turututela, comunque ben accolto un po’ ovunque (salvo, ovviamente, sulla stampa nazionale “che conta”…), ai molti lavori di Alberto Cesa e Cantovivo; dalla stessa Giovanna Marini (i cui CD continuano a risultare pressoché irreperibili nella grande distribuzione) al Daniele Sepe di "Malamusica"/“Lavorare Stanca”/“Jurnateri”/”Conosci Victor Jara?”; da La Furlancia (nel loro disco d’esordio, ricorderete, una convincente versione de “Il Sirio”...) alla raccolta di canti in tre volumi dei romani Pueblo Unido edita nel '97 dalla rivista "Avvenimenti" ("Storia d'Italia attraverso le canzoni popolari"). O ai recentissimi lavori di Baraban sulla clandestinità ("Terre di Passo") e dei Radicanto sull'emigrazione (“Lettere Migranti”)… Dischi il più delle volte bellissimi e intensi, “significativi”, che attraverso la riproposizione o la composizione originale impongono un nuovo (o rinnovato) approccio alla realtà sociale e politica del nostro paese.

Da queste considerazioni, ci pare emerga quindi un primo dato incontrovertibile: lavori aventi pari dignità – almeno come dato di partenza (cioè in quanto espressione d’arte contemporanea) – ottengono diverso trattamento solo per il fatto di non essere considerati dalle case discografiche multinazionali potenzialmente “vendibili”. Di “Il Fischio del Vapore” sentiremo parlare a lungo, anche dopo la conclusione dell’attuale battage pubblicitario; del nuovo disco di Sepe “Anime Candide”, ad esempio, lavoro di “canzoni d’amore e di guerra”, statene certi, quasi nessuno saprà che è uscito.

 

Altro elemento di riflessione strettamente connesso al precedente sembra imporsi quello relativo alla determinante incidenza delle “confraternite” ideologico-politiche sul destino critico dell'opera, qualunque sia il suo valore reale: a sinistra come a destra (ma per quanto riguarda le “nostre musiche”, più a sinistra), appartenere a questa o a quell’altra conventicola fa ancora la differenza: essere affiliati all’Istituto De Martino, ad esempio, è “garanzia” di autenticità e legittimità culturale; essere altrove (ad esempio, pubblicati nelle edizioni “Il Manifesto” o semplicemente autoprodursi) lo è già molto meno, almeno per quanto concerne l’attendibilità filologica, quindi la credibilità del progetto. In dispregio dell’elementare, ovvia evidenza che i repertori di musiche popolari e tradizionali appartengono a tutti e tutti hanno il diritto di appropriarsene. Andranno semmai considerati gli scopi e l’uso che se ne è fatto.

 

Una locomotiva contro chi…?!

Che si entri nel merito del lavoro, anche, perché la nostra indignazione è ancor più bruciante se consideriamo lo spessore artistico dell’opera in rapporto all’entità e all’enfasi profusa nella sua promozione commerciale.

Della Mea dichiara che De Gregori-Marini:

  1. hanno cercato di fare qualcosa di nuovo partendo dal repertorio popolare;

  2. hanno creato, rischiando molto, anche in prima persona;

  3. con il disco “fanno politica contro il governo di centrodestra”.

Castaldo afferma che il disco:

  1. ha arrangiamenti “rispettosi”, “quasi filologici”;

  2. rappresenta un’operazione “politica” in difesa dei diseredati e degli emarginati dai disvalori propugnati dalla televisione.

 

Ritenere “Il Fischio del Vapore” un lavoro innovativo e rischioso offende semplicemente la ponderosa mole di opere analoghe pubblicate nel nostro paese negli ultimi quindici anni. L’elenco sarebbe lungo e incompleto, non avendo noi la presunzione di conoscere a fondo le esperienze della “canzone politica e sociale”, ma schiacciante nel dimostrare che nuovo, semmai, è soltanto l’atteggiamento delle multinazionali del disco, cronicamente disinteressate a lavori di forte tensione e impegno socio-politico. La Sony, oltre ai nobili propositi di circostanza, tenta di rifondare un nuovo mercato (proprio quanto criticato dallo stesso Della Mea…), magari approfittando del clima reazionario circostante (xenofobia, razzismo, leghismo, “devoluzione”…) che indurrebbe i più – ahinoi, anche a sinistra - a una grottesca e utopistica nostalgia verso le bucoliche radici del tempo che fu.

Anche un excursus superficiale di queste esperienze, infatti, confermerebbe che soltanto piccole case discografiche (un esempio su tutti è proprio l’ormai leggendaria esperienza de I Dischi del Sole il cui catalogo è stato in parte rimasterizzato nel corso degli anni novanta dall’Alma Records e disponibile ora in CD) o la stessa autoproduzione dei gruppi sono stati e sono responsabili di numerose operazioni analoghe.

Quanto “rischio” è contenuto in un disco che nel periodo di Natale è stato presente in ogni negozio, che sarà recensito su ogni rivista specializzata e non, che comparirà in programmi televisivi per farsi conoscere dal grande pubblico (con buona pace del pistolotto moralistico di Castaldo sugli emarginati dal grande circo televisivo?), confezionato in modo tale (rosso copertina, il termine “vapore” nel titolo, la Marini come garanzia di integrità morale…) da identificare come target "l’italiano di sinistra", nelle sue variopinte articolazioni parlamentari/partitiche (dall’elettore di “estrema sinistra” – no o new global che dir si voglia – al perplesso elettore DS, vicino al destino del nuovo sindacalismo operaista (caso Fiat) ma sedotto dall’urgenza di un nuovo sistema del lavoro liberal/liberistico (D’Alema)...?

Rischi, semmai, sono quelli insiti nell’azzardo della Sony Music, inedito per il mercato. Non certo per le aspettative di De Gregori o della Marini, due artisti abituati a fare i conti (a diverso modo) coi rispettivi pubblici e disposti a raccogliere quello che verrà…

 

Quale valore politico?

Il presunto valore politico del disco, riconosciuto da Della Mea e Castaldo e, sembra, sorvolato dai titolari del lavoro sin dalle prime interviste, risiederebbe nella proposta di canzoni del repertorio sociale e politico della tradizione in Italia, con l’aggiunta di composizioni non tradizionali (tre della Marini ed una, recente, di De Gregori ispirata all’affondamento del Titanic).

Ma nell’insidioso rapporto tra significato/significante (testo e musica) e referente (il popolo? la gente? la comunità?), in una contemporaneità che ha annullato in gran parte del territorio geografico italiano la relazione tra spazio e vissuti, quale valore “politico” può avocare a sé un disco se non quello di operare una provocazione a un livello solo superficiale, “referenziale”, lo stesso che può oggi rivestire ogni altra forma di comunicazione di massa “virtuale”? Implicazioni che non crediamo siano state ancora sufficientemente considerate da chi, sbrigativamente, è disposto a riconoscere un valore "politico" a un'opera per il solo fatto che essa presenta contenuti di critica sociale e politica.

Il valore politico “aggiunto” dell’opera contemporanea, crediamo, risiede invece nell’intrinseca opportunità di una sua proposizione “pubblica” nei luoghi del vissuto reale – piazze, centri sociali, non-luoghi contemporanei (ipermercati, grandi centri commerciali, cinema multisale…) – non tanto nella proposizione virtuale (in primis la televisione) appiattita sulle logiche della promozione di mercato che guarda all’opera anzitutto come a una merce da vendere prima ancora che a un’opportunità di scambio simbolico: il canto sociale della tradizione era esperienza di condivisione, anzitutto, di partecipazione, di scambio, appunto, concetti certo logori nell’oggi ma ancora profondamente carichi di potenzialità.

Per questo, contrariamente a quanto ritengono Della Mea o Castaldo (e tutti i critici che si strapperanno i capelli nell’accogliere questo disco), “Il Fischio del Vapore” non è opera innovativa né particolarmente coraggiosa perché ripropone del revivalismo culturale fine a sé stesso, oleografico, politicamente insignificante, confermando le cautele dei due illustri autori che, più saggiamente, hanno evitato proclami assecondando l’idea che si tratti di un lavoro a carattere storiografico, che pur potendo stimolare riflessioni sul presente, resta relegato nella dimensione della testimonianza retorica e simbolica (ma ce n’era bisogno, quindi?).

 

E la musica…?!

Quattordici brani, il più tradizionali, si è detto. Alcuni “classici” della tradizione (“Il Sirio”, “Sacco e Vanzetti”, “Donna Lombarda di Gualtieri”…), alcune “sorprese” (la ripresa della "Bella Ciao” delle mondine, nella versione “informata” di Giovanna Daffini, “Nina te ti Ricordi” di Bertelli), quattro composizioni originali (tre “classici”, a loro modo, della Marini – “I Treni per Reggio Calabria”, “Lamento per la Morte di Pasolini”, “Saluteremo il Signor Padrone” - e la nuova di De Gregori “L’Abbigliamento di un Fuochista”).

Nessun proclama nelle note di copertina, nessuna declaratoria politica, il che è certamente lodevole. I brani sono proposti con il testo integrale e un ricco apparato di note opera dell’Istituto De Martino e del Circolo Gianni Bosio, “senza il (cui) prezioso lavoro di ricerca e archiviazione” – scrivono gli estensori delle note – “il patrimonio della nostra musica popolare sarebbe oggi in gran parte disperso o dimenticato”. Ancora una volta, e più esplicitamente, si ignora intenzionalmente chi, a suo modo (con i mezzi culturali, le esigue risorse finanziarie etc. di cui dispone…), è impegnato sullo stesso fronte e con lo stesso obiettivo da tempo…

I temi delle canzoni proposti sono per la maggior parte radicati nella cultura popolare del Novecento – dalla condizione delle mondine in risaia (“Bella Ciao”, “Saluteremo il Signor Padrone”), alle tragedie dell’emigrazione italiana (“Il Sirio”, “Sento il Fischio dl Vapore” e il “Fochista”); dalla manifestazione operaia di Reggio Calabria del 1972 (“I Treni di Reggio Calabria”) alle repressioni di piazza (“Il Feroce Monarchico Bava”, “O Venezia che sei la più Bella”); dall’oscuro omicidio Pasolini all’attentato a Togliatti del ’48.

Tutti temi, evidentemente, di stringente attualità, in un contemporaneo che – per i capricci della Storia – ci costringe a confrontarci con fenomeni che credevamo (o meglio, ci auguravamo) definitivamente tramontati, anche se la loro selezione, caratterizzata da oggettiva eterogeneità, suggerisce che l’operazione è limitata a perseguire lo scopo di testimonianza di cui si diceva, né più né meno, senza offrire all’ascoltatore particolari percorsi di lettura testuale (cosa diversa, ad esempio, dai recenti lavori di Baraban e Radicanto – centrati rispettivamente sui temi della clandestinità e dell’emigrazione). Operazione più storiografica, quindi, che può indurre certamente l’ascoltatore a una riflessione sull’amaro, osceno (per dirla alla Pasolini) destino dell’italietta contemporanea (per dirla alla Zavattini), ma che non dispone di un corpus omogeneo su un tema specifico, suggerendo la superficiale evidenza delle analogie esistenti fra l’oggi e alcune contingenze del passato. Semplicistico verrebbe da dire, considerata l’urgenza dei problemi e la prosopopea dei mentori dei due artisti.

Colpisce negativamente all’ascolto, inoltre, lo scarso e sbrigativo lavoro di arrangiamento delle versioni già conosciute dei brani tradizionali – dal “Sirio” a “Bella Ciao” a “Nina te ti ricordi” – quasi sempre inferiori alle versioni conosciute (inarrivabile, a nostro modesto parere, la “Nina te ti ricordi” nella registrazione di Bertelli…). Un ricercato (sembra di capire) “minimalismo” sonoro che sfiora in più occasioni la sciatteria, il pressapochismo, l'object brut dylaniano (la produzione, forse non a caso, è dello stesso De Gregori, emulo dichiarato del tambourine man di Dulot…).

La stessa interpretazione vocale lascia alquanto perplessi, risultando a tratti forzata, svogliata, incerta - pericolosamente in bilico tra l'aderenza alle "fonti" e una possibile nuova "lettura" (esempio ai limiti del grottesco la reinterpretazione letterale de "I Treni di Calabria", una corsa perdifiato che ricalca alla lettera l'originale, come se si pretendesse che il tempo non sia trascorso…).

Il disco ha uno strano sentimento polveroso, d’antan, ma in un senso deteriore, come se si trattasse di nastri registrati tempo fa, lasciati nel cassetto e ripresi quasi svogliatamente, “tanto per fare”. La musica è datata, vecchia in termini di concezione, con scarse idee, quasi nessun guizzo. Il disco non ha un’anima e non suscita grandi emozioni nemmeno dopo svariati ascolti (anzi…).

Sul piano creativo, la ricerca di soluzioni armoniche significative è pressoché nulla, le versioni originali sono ricalcate pigramente “alla lettera”, come se i due artisti non avessero mai ascoltato nessun altro musicista, nessun’altra versione degli stessi brani, nient’altro…. Come se fossero vissuti fino ad oggi nell'iperspazio.

È ragionevole considerare una tale musica “coraggiosa”, come vorrebbe Della Mea? A nostro parere no, non lo è. Esistono esempi di riproposta più sentiti, convincenti e meglio suonati in circolazione.

Conclusioni scontate (per chi ha avuto la pazienza di seguire fin qui…)

Ci siamo sforzati seriamente, all’uscita del disco, di non lasciarci condizionare dall’imponente, persistente battage promozionale; di ascoltare il lavoro per quello che era, tentando – addirittura – di non considerare la “statura” dei due autori; di ascoltarlo per quello che avrebbe dovuto essere – una raccolta della “grandi canzoni popolari italiane”.

L’abbiamo ascoltato più volte, il disco, abbiamo lasciato sedimentare in noi le prime, imbarazzate e incredule considerazioni “a caldo”, consapevoli che non è con queste che pare ragionevole fondare alcun giudizio critico che esiga il rispetto delle proprie ragioni.

Ma nonostante questo, nonostante la doverosa “sospensione del giudizio”, “Il Fischio del Vapore” non ci ha convinto, proprio per nulla, confermando semmai le prime impressioni che si trattasse di un’operazione meramente commerciale e delle più maldestre, acuendo il sentimento di fastidio e di indignazione cresciuto in noi a causa della fama dei due autori, della rara opportunità da loro avuta di poter registrare un disco di queste musiche per farlo distribuire da una major, del loro averla in qualche modo sprecata, in dispregio dei numerosi artisti che, al contrario, questa opportunità non l’avranno mai, pur avendo molto di più e meglio da esprimere. Irritati, anche, dal legittimo sospetto che si sia potuto trattare del capriccio della popstar di turno (lo stesso da cui, con risultati alterni, sono nati dal nulla fenomeni come "Buena Vista Social Club", la "Real World" di Peter Gabriel, i tributi alla musica sudamericana di David Byrne…), inseguito da anni, ottenuto solo grazie a condizioni contrattuali che solo una popstar può ottenere…

Congetture, probabilmente, che difficilmente saranno rivelate. De Gregori tace sul disco, la Marini abbozza, il giornalismo ufficiale santifica. Il disco è brutto anche se l’avranno comprato in molti. Non bastano (presunte) intenzioni nobili a rendere un'opera memorabile.

 

Hostsonaten – “Springsong” (CD - Sublime Records, ITA 2002)

C’è troppa musica furba, oggi, nell’aria. Una musica che la critica patinata definisce “world music” piuttosto che “new age”, “etnica” piuttosto che “celtica” a seconda delle mode, a seconda degli interessi della major di turno che acquista porzioni considerevoli di pubblicità pretendendo che si scriva bene dei suoi artisti. Sorprende negativamente, per questo, che sia proprio una piccola etichetta modenese, la Sublime Label, e per giunta al suo esordio, a lanciare l’ennesimo lavoro di musica pretestuosamente “altra”, tra certo progressive d’antan (Genesis! Anthony Philips! Gentle Giant!…), oggi ancora infaustamente di moda, e certe produzioni agli estrogeni di vaghe matrici folk (Enja piuttosto che Lorena McKennith piuttosto che Hevia…).

Il gruppo tradisce la forte ambizione dal bel nome mutuato da un film culto del cinema impegnato (Hostsonaten, “Sinfonia d’Autunno” di Ingmar Bergman), lo straordinario (vedere per credere!) artwork della confezione che rimanda a certe indimenticate suggestioni dell’età del vinile, il presunto fascino di un one man-band (Fabio Zuffanti) al lavoro, dopo altre esperienze pare di discreto successo (Finisterre, “Merlin. The Rock Opera”), imbonito nelle sparute note di accompagnamento inviate dalla casa discografica. Quanto alla musica, meglio soprassedere, verrebbe da suggerire, se non fosse che anche il lavoro più modesto reclama il diritto a un’analisi. Il disco, “Sprinsong” il titolo, intende rappresentare “lo scorrere della vita ed è proprio la Primavera che comporta una rinnovata speranza”, poiché è “la primavera la stagione della nascita e del risveglio e Springsong è l'espressione della sua voce perennemente cangiante” (note del booklet). Lo fa con una forma affettata, ridondante, carica di scontati manierismi armonici, che indulge in un armamentario logoro già sentito mille altre volte e meglio nei lavori del progressive inglese anni settanta e ottanta (ad esempio nel misconosciuto imperdibile “The Great Indoors” di Nick Heaffner, folker maudit, scomparso nel nulla dopo una manciata di ispirati, obliqui lavori) o nelle più ambiziose operazioni di Clannad, Chieftains, Liam O’Flynn o John Welham, per altro mai scevre di ingenue ridondanze.

Springsong”, articolato in nove movimenti, adotta la struttura della suite otto-novecentesca, mescolando leggere arie folk (come nell’introduttiva “in the open fields”), sostenute da chitarra classica arpeggiante e flauti, a dolenti ballate vagamente barocche (“kemper/Springtheme” o in “the wood is alive with the smell of the rain”), risolte invariabilmente con un melodismo pop fondato sulla reiterazione di cellule melodiche di tre-quattro note; o adottando registri più tipicamente jazz-rock, come nell’incalzante “the underwater and 2nd reprise”, tutta giocata sui controtempi della batteria e sulle improvvisazioni di soprano e moog prima di risolversi in una prorompente improvvisazione chitarristica assolutamente inopportuna.

Ma è il narcisistico, onanistico autocompiacimento dell’autore, alla fine, a irritare di più: è musica gelida, senz’anima, pensata per compiacersi di un’idea di spazio sonoro estetizzante, fine a se stesso, saturo di melodie carezzevoli che alludono a un universo di cristallerie e cicisbei, non a qualcosa di vivente, autentico, reale. Non c’è vita in questo maldestro tentativo di inno alla primavera. Meglio, di questa stagione, un bel giro nelle nostre campagne…

 

Non comprate “XL”, costa “solo 1 euro in più” (di “Repubblica”)!

Non che lo stessimo aspettando trepidanti, ci mancherebbe altro. È che l’insistente promozione delle ultime settimane, confessiamo, ci aveva incuriositi almeno un po’. Scomparsa dalle edicole all’inizio del 2005, ci auguravamo per la verità che il consiglio di amministrazione de “La Repubblica” avesse opportunamente deciso di archiviare l’esperienza di “Musica”, dopo oltre 150 numeri, sotto la voce “ravvedimento”. Cominciavamo a sentirla come una piccola vittoria morale, dopo molte parole spese a criticarne la filosofia, le ragioni stesse del suo esistere. Dopo che eravamo arrivati, addirittura, a inviare (era il 2004) una biliosa lettera alla redazione in cui scrivevamo, accecati da un’indignazione furente:

Ho resistito 105 numeri, caro Castaldo. 105 numeri di retoriche, vuote, inconcludenti ‘tiritere’ sulla musica scritte con un tono complessivo di irritante arroganza e spavalda presunzione, rara a trovarsi anche nelle peggiori riviste del settore.

Poi, l’ennesimo editoriale ipocrita (quello del n. 106), mi ha offerto l’occasione di scrivere quello che penso su un’operazione – “Musica! Rock & Altro” – che non mi ha mai convinto sin dal primo numero.

Con quale faccia tosta è mai possibile constatare bellamente che la cultura musicale nel nostro Paese viaggia a due velocità, se si sta proprio dalla parte i chi la monopolizza, la strumentalizza – quindi la brutalizza – a suo uso e consumo?

Anche il più sprovveduto dei lettori/appassionati di musiche si renderebbe conto che la “patinata e grottesca cultura del vuoto”, come la definisci tu, riempie proprio le 40 pagine del vostro settimanale…

Ma con quale volgare spregiudicatezza è mai possibile – cari Castaldo, Assante, Bertoncelli, Pellicciotti e compagnia bella (il nuovo della critica che avanza…!) - parlare di “libero mercato”, quando soltanto alcune voci hanno ospitalità tra le vostre pagine e le più vengono sistematicamente ignorate?

Perché saturare pagine e pagine con i “prodotti” di “Repubblica” (sul cui spessore culturale è a dir poco lecito dubitare), con imbarazzanti apologie di quegli stessi artisti “potenti” che ci straziano incessantemente le orecchie alla radio (i Dalla, i De Gregori, i Pino Daniele, i Jovanotti… a proposito: meschino e un po’ patetico il dibattito liquidatorio sui diritti d’autore…!), con le recensioni/articoli di libri di confratelli Giunti/Castelvecchi/L’Unità sul cui valore critico (in genere raccolte di testi acquistate da editori stranieri e tradotte neppure troppo bene) – di metodo della ricerca storiografica – è spesso altrettanto inevitabile dubitare?

Quale necessità vi ha spinto, 106 numeri fa, a lanciare l’ennesimo inutile giornale di musica, se non quella di vendere ancora una volta dei “prodotti” (scarpe, radio, profumi, alcolici…) come quasi tutti, per altro, ma con l’aggravante, tragica responsabilità di strumentalizzare proprio la musica per veicolare nuovi consumi massificati presso quei giovani che tanto “amate” e a cui non risparmiate ogni numero la morale (ah, povera Dandini…)?

È persino stucchevole il coro polifonico di letterine, diari, dissertazioni pseudo filosofiche dei vari Jovanotti, Piero Pelù, Michele Serra… e di tutto il Barnum della giovane (si fa per dire) intellighenzia di sinistra al potere – in realtà efficaci testimonial di quella grande impresa commerciale che è “La Repubblica”!

Complimenti, Castaldo, complimenti ancora!”.

Invece, benché in ritardo sulla programmazione editoriale (era annunciato per giugno), ecco comparire stamattina con “La Repubblica” il primo numero di “XL”, a “solo un euro in più” (offerta lancio). Rivista patinata di 290 (!) pagine, impaginata sul modello di “Rolling Stones” edizione italiana.

Diretto da Laura Gnocchi, a cura di Luca Valtorta (redazione: Eugenio Cirese, Flavio Brighenti, Andrea Silenzi, Gianni Santoro), “XL” si presenta con un primo piano in bianco e nero di Johnny Depp in copertina

(motivazione a pag. 13: “Johnny Depp batte tutti. Sempre. Piace alla critica e anche al pubblico. Perché? Merito di Tim Burton che l’ha diretto e lo dirige ancora nel nuovo film “La fabbrica di cioccolato!? Merito di quella faccia che piace tanto alle donne? O di quell’anello col teschio che dice “Odio Hollywood”? Un ritratto firmato Wu Ming, i pareri di attori e artisti”).

Delle 14 pagine iniziali, prima del sommario, 13 sono occupate da pubblicità varia (nell’ordine: Honda, Versace, Replay Blue Jeans, Guess Jeans, Calvin Klein Jeans, Mini Cooper, Black Prince), ma a sfogliarlo tutto, dall’inizio alla fine, le pubblicità sono 105 (a pagina piena + una decina a un quarto di pagina), il 32,7% del totale, assimilabili prevalentemente alle categorie standard del (presunto) vivere&sognare nell’Occidente giovanile: abbigliamento, automobili, profumi, cellulari, accessori vari, alimentazione fitness… Mentre 48 sono le immagini a pagina piena inserite in articoli, le rimanenti 137 contengono testi, per lo più brevi, tipo “redazionali”.

Quanto ai contenuti, “XL” è strutturato tradizionalmente in articoli e rubriche, al solito amene, trattando in prevalenza ciò che si presume debba interessare e riguardare il giovane italiano contemporaneo (età del target: 16-25?): oltre ad alcuni “approfondimenti” sul tipo di quello dedicato a Johnny Depp, idolo delle masse (9 pagine in cui, tra l’altro, si raccolgono opinioni “autorevoli” sull’attore tra Eva Henger, Morgan, Linus, Jovanotti, Fabio Canino, Dolce & Gabbana…), nella rivista si trova un pezzo dell’onnipresente Lucarelli su Charles Manson (rubrica “La Nera”); un breve apologo di Bruce Sterling (“rubrica “Futurama”); “Kate & Pete”, dedicato alla love story tra la modella Moss e l’ex cantante dei Libertines (“sono i nuovi Sid & Nancy’”, si chiede l’autrice Simona Siri…); un reportage sul wrestling messicano; le confessioni di Ligabue raccolte da Flavio Brighenti; “Una visita sul pianeta White Stripes”, sul gruppo più sopravvalutato (e inutile) degli ultimi tre anni; un estratto dal prossimo, incombente “hot dog” letterario di Chuck Palahniuk e poco altro.

Le rubriche riguardano, al solito, classifiche, le “trenta canzoni da scaricare”, la “playlist musica” (“consigli per fare una compilation a tema”), videogiochi, I-POD, impianti HI-FI, informatica (“I vecchi LP? Ascoltali col cellulare”), motori, fumetti e, naturalmente, moda (“XL Style”, 16 pagine di vestiti, collane, scarpe, bracciali, occhiali, borsette, orologi… con primi piani su polsi, gambe, capelli…).

Nella conclusiva sezione “XL Feedback”, dopo l’irrinunciabile rubrica “su e giù” (tra i “su”, il “globish”, l’inglese “sgangherato ma funzionale usato da milioni di persone per comunicare on line” e “il cravattino rosso”; tra i “giù”, “i braccialetti manifesto”, l’aperitivo, “i profumi delle popstar”…), tre rubrichette-forum per parlare coi ggiovvani su temi di ‘scottante attualità’: “A qualcuno piace porno. E a voi?”, “Meglio il posto fisso, oppure no?”, “Musica e beneficenza: a che prezzo?”…

 

E la musica, vi chiederete?

La musica occupa 15 pagine (“XL self service”), quasi a conclusione del mensile, e ricalca la vecchia impaginazione di “Musica”: recensioni telegrafiche affidate a vecchi e nuovi giornalisti (tra questi, gli immancabili Castaldo, Bertoncelli, Castelli, affiancati da Vivaldi, Angese, Brighenti…), nessun approfondimento, stellette per valutarne la qualità, suggerimenti-diktat del tipo “da avere assolutamente”, “quasi fondamentali”, “se vi piace ascoltate anche”…

Come già in “Musica”, il linguaggio di “XL” è giovanilista, tra slang e parlato; sintetico, sloganistico (la pubblicità urla “Be young. Be free”), veloce. Più immagini da guardare (e prodotti da comprare) che cose da leggere, su cui riflettere. Vademecum per ‘essere al passo coi tempi’ di un consumo spensierato privo di etica, tutto svago e divertimento, propugna il disimpegno totale, persegue la lobotomizzazione del pensiero.

Tra settimanale “femminile” (“Io Donna”, “Donna Moderna”…) e mensile di moda (“Vogue”, “Cosmopolitan”…), “XL” trasmette un’idea di cultura come dimensione del superficiale, dell’effimero, in cui il “discorso” è pretesto, fine ultimo la pubblicità (= la vendita).

Senza nemmeno più la retorica e l’ipocrisia di certa comunicazione “sinistroide”, che pure ammorbava “Musica”, “XL” è un mutante spaventoso, che rasenta quasi la perfezione nel riflettere il vuoto assoluto dei palinsesti televisivi “in chiaro”… Un extra-extra large di nulla, bulimica freakeria, uno zapping di 290 pagine patinate che sono un involontario e illuminante trattato di sociologia della devianza contemporanea

 

World Music Tuttifrutti.

Effetti della globalizzazione. Nel villaggio globale planetario le musiche risuonano e si confondono, si mischiano generando nuove forme, rinverdendo stili, cambiando temi e contenuti. "Contaminazione" è il termine che racchiude i significati di "incrocio di genere", "incontro fra culture", "meticciato sonoro". Oggi è anche diffuso l'uso dell'espressione "world music" per definire tutte quelle musiche che non appartengono alla tradizione occidentale, che nascono e si diffondono dagli angoli più remoti del pianeta: "world music", allora, è la salsa caraibica, il tango argentino, il merengue o la rumba, il soka, il soukous congolese.

Un libricino edito di recente in Italia ("Tutti Frutti", Indice Internazionale, pagg. 90, lire 10.000), raccolta di articoli pubblicati all'estero da prestigiose testate ("Rolling Stones", "New York Times", "Songlines"), propone un'intelligente confutazione di quest'abitudine ormai consolidata anche tra gli addetti ai lavori. Affidandosi a uno stile spigoloso e polemico, David Byrne, compositore americano cui si deve l'esperienza fondamentale dei Talking Heads oltre che la riscoperta in ambito pop della "salsa brasilera", nell'articolo intitolato "la world music non esiste" (fonte: "New York Times") scrive:

"Odio la world music... Il termine è uno stereotipo che rimanda a qualsiasi genere di musica di tradizione non occidentale: musica popolare, musica tradizionale e persino musica classica. È allo stesso tempo un'etichetta commerciale e un termine pseudomusicale - e il nome di una sezione dei negozi di dischi dove viene messo tutto il materiale discografico che non ha una collocazione precisa."

Byrne, nella sua appassionata requisitoria, si spinge ben oltre le considerazioni di carattere etimologico e musicologico, che rendono l'espressione "world music" un'araba fenice di scarsa intelligibilità, andando a sfiorare questioni più decisive in termini di rapporti socio-politici tra il nord e il sud del mondo: "C'è un bisogno perverso di vedere gli artisti stranieri con gli abiti tradizionali del loro paese anziché con la maglietta e i calzoncini che di solito indossano quando non sono sul palco", scrive. "Non vogliamo che somiglino troppo a noi, e quando succede, presumiamo che la loro musica sia calcolata, studiata a tavolino, impura." La riflessione del musicista newyorkese chiama in causa concetti storicamente indagati dall'etnologia: "... Appioppare l'etichetta di "esotico" a qualcosa è una buona idea solo quando si tratta di tua sorella...: a volte fa bene dare una valenza esotica a ciò che è diventato troppo familiare. Ma in altre circostanze giudicare persone e culture come esotiche è un meccanismo che crea distanza e troppo spesso apre la via allo sfruttamento e al razzismo."

Esemplari, a questo proposito, gli altri articoli del libro: la storia del movimento "Tropicalia" (Caetano Veloso, Gilberto Gil) che da vent'anni almeno appassiona il Brasile e il sud America, ispirandosi all'opera geniale di Tom Zè; un ritratto a tutto tondo della scena pop giapponese, pronta all'assalto dei mercati occidentali attraverso un'involontaria parafrasi stilistica delle forme in uso in Europa ed America; la ricostruzione appassionante del "soukous" congolese, lanciato dalla figura carismatica di Franco, eroe nazionale tra le classi subalterne a dieci anni dalla sua morte e, in particolare, l'incredibile storia del successo della nota "The Lion Sleeps Tonight", una canzone nata per caso in Sudafrica nel '39 grazie alle intuizioni di tal Solomon Linda e diventata un evergreen che vanta innumerevoli interpretazioni - prima fra queste quella lanciata in Americana da Pete Seeger con gli Weavers. Emblematica vicenda che obbliga a riflettere sui caratteri troppo spesso semplicisticamente stereotipati di certo giornalismo "popolare": qual è il confine del "diritto d'autore" applicato in ambito tradizionale? Quali meccanismi psico-percettivi modificano la considerazione di una canzone, nata come espressione del "basso", facendone un hit planetario? Indispensabile un aggiornamento del termine "world music", buttato lì nelle recensioni con la leggerezza di chi, da eurocentrico, osserva con supponenza le "altre musiche" come se appartenessero a un altro pianeta.

 

Jim Morrison serenade (non è vero che davanti alla morte siamo tutti uguali...).

A un Chet Atkins e un Joe Henderson che se ne vanno (per inciso, il primo uno dei maggiori chitarristi country, il secondo mostro jazz del sax), un Jim Morrison che "resta". Ingombrante come non mai. Lo scorso 3 luglio sono stati 30 anni che è morto e a Père Lachaise, tra i monumenti di Proust, Chopin, Balzac, la superstar è stata ancora una volta lui. In cinquantamila almeno erano a Parigi per commemorare l'evento, ha riportato la stampa. E tra nuovi dischi (l'ennesimo "Best Of The Doors" è da poco uscito nei negozi), film inediti, gadget e santini alla memoria (Mondadori ha appena pubblicato la raccolta di poesie inedite "Tempesta Elettrica"), Jim Morrison resta più che mai mito imperituro, inossidabile. In queste occasioni fare da controcanto al coro monodico di iperboli e superlativi è esercizio persino facile, oltre che un po' retorico, e qualche firma importante della critica rock (Bertoncelli su "Musica!", Fabbri su "L'Unità"...) ci si è anche provata a dirla tutta, senza tanti peli sulla lingua. Certo è che nella continua pioggia radioattiva di sedimentazioni semantiche, nel frenetico accavallarsi di leggende e ritrovamenti, ricordi e avvistamenti ad effetto, è diventata un'impresa ardua la contestualizzazione, l'analisi delle motivazioni, lo sguardo ai contenuti dell'opera di Jim Morrison e dei Doors, una prospettiva "critica" cioè che riesca a render conto delle ragioni di un credito tanto consistente e duraturo, sopravvissuto a decadi e generazioni, alle stesse oziose logiche del "se...": "Cosa ne sarebbe oggi di Jim Morrison se non fosse morto in quella vasca da bagno a Parigi, nel luglio del 1971?".

Pur depurato dalle pulsioni di un'epoca in cui tutto era sembrato possibile ("Break on through" cantava Morrison e l'invito era di superare le "porte della percezione"), dalle ingenuità dello star-system, dai velleitari intellettualismi urlati in un coacervo pop-art in cui Artaud poteva convivere con Huxley, Rimbaud con il Living Teathre, il mito Jim Morrison rischia di rimanere solo un guscio vuoto da riempire a piacimento con l'iconografia preferita: l'angelo caduto all'inferno per aver osato spingersi troppo oltre; il caustico trasgressore della morale perbenista borghese. Il poeta maledetto, lo sciamano o il sex-symbol, l'artista e lo "sballato", in un carosello vertiginoso di proiezioni acritiche in cui il medium è davvero diventato il messaggio e il messaggio, dopo tutto, pare non essere poi così importante...

 

Lunga vita ai vivi. Breve esegesi di Matilde Politi.

Esce in questi giorni l’ennesimo libro di Massimo Cotto (definitivamente ‘il Vespa del giornalismo musicale italiano’) dedicato – pensate un po’! – a Fabrizio De Andrè (in realtà si tratta di un’intervista-fiume a Massimo Bubola che racconta della sua esperienza di collaborazione con De Andrè), dopo che nelle settimane scorse era apparso sugli scaffali un ‘libro-verità’ su Zucchero Fornaciari, bluesman al vin brulè.

Dalla sua morte, com’è d’uso, sono usciti in Italia almeno venticinque libri sul cantautore genovese (e per non correre il rischio di essere fraintesi affermiamo subito che è stato uno dei maggiori artisti del nostro Dopoguerra): più di venticinque libri su un cantautore suonano comunque un’esagerazione, un’iperbole, in termini assoluti. Addirittura un paradosso, considerata la scarsa fortuna mediatica del De Andrè in vita. Ma queste sono le “leggi del mercato” e a un prodotto di potenziale successo commerciale (ipotizzato a partire dal numero di fan presunti in circolazione) l’editoria ha risposto immediatamente con una messe di volumi di qualità varia e ispirazione per lo più dubbia (tra i più belli letti, a questo proposito, “Belin, sei sicuro?” di Riccardo Bertoncelli, Giunti 2003, e “Vita di Fabrizio De André” di Luigi Viva, Feltrinelli 2000): De Andrè è un soggetto che tira, insomma. Andrea Parodi (per inciso un altro grande artista recentemente scomparso), un po’ meno. E che chance potrà mai avere un Sergio Endrigo nel borsino delle morti eccellenti? E un Bruno Lauzi? Scarse, a giudicare dai volumi in circolazione... (a Cotto, se non li sta già scrivendo in questi giorni, suggeriamo alcuni altri soggetti: Jovanotti, Piero Pelù, i Negromaro, Laura Pausini, Andrea Bocelli...).

Ma concentriamoci sui vivi, per una volta, e rivolgiamo l’attenzione a chi, pur in attività, non può contare neanche su un trafiletto in ventitreesima pagina su un quotidiano nazionale o su una, anche fugace, apparizione televisiva o radiofonica (filosofia più volte affermata in queste pagine).

Matilde Politi non ha ancora un contratto discografico, ed è un’autentica bestemmia. È in circolazione da qualche mese solo una registrazione live autoprodotta (da un concerto a Palermo del 13 dicembre 2003) dal titolo “Cantami quantu voi, ca t’arrispunnu d’amuri, gilusia, spartenza e sdegnu” con dieci brani, quasi tutti tradizionali.

Matilde Politi, palermitana, ha solo 30 anni, è ricercatrice e ‘cantatrice’, laureata alla Sapienza di Roma in Antropologia Culturale; incarna, cosa rara, la competenza dello studioso (che fa ricerca sul campo e analizza fonti) e la sensibilità dell’interprete straordinaria. I pochi che ne scrivono la paragonano in genere a Rosa Balistreri...

Interprete straordinaria” non suoni come un’iperbole: abbiamo avuto la fortuna, davvero casuale, di ascoltarla in concerto lo scorso luglio, nella Pieve di S. Clemente di Pelago (Firenze), dove ci trovavamo per partecipare a “On the road festival”, una delle più importanti rassegne di artisti di strada. Matilde Politi si accompagnava soltanto con la fisarmonica.

Beh, si trattò di un’assoluta folgorazione, erano anni che non ci capitava di ascoltare una voce tanto potente, espressiva, commovente, capace di melismi dalle mani sporche e la terra in bocca, come uno sputo in faccia, una carezza e un cazzotto insieme. Una voce libera, dalla grana spessa, ruvida, versatile, che mette soggezione…

Su “La Repubblica” di oggi Tom Waits, intervistato da Giuseppe Videtti, tra molte cose intelligenti ne afferma una semplice semplice: “Ogni cosa ha il suo prezzo. Sin dall’inizio sapevo che non volevo arrivare a 24 anni e odiare la musica, sapevo che c’erano meccanismi che non mi piacevano e un certo tipo di pop che non avrei mai voluto fare. La mia longevità ha a che fare con una sorta di integrità che, ovviamente, ha richiesto sacrifici economici. Sa come va la storia, no? La tua foto sui giornali diventa sempre più piccola, le recensioni dei tuoi dischi sempre più brevi. Ma è ok, non ho mai pensato di diventare come i Beatles e i Rolling Stones” (“Povera musica, uccisa dall’iPod” in “La Repubblica” del 10 novembre 2006).

Matilde Politi canta musica folk ed è destinata a una lunga vita di sacrifici, probabilmente all’ombra delle scene che fanno tendenza. Poche foto sui giornali, recensioni brevi. Sono quelli come Massimo Cotto, assidui paladini dell’omologazione al servizio dell’establishment, che ammazzano la diversità, l’Arte, il genio.

 

Le frodi di Bernasconi.

Luci e ombre di Davide Van De Sfroos, un fenomeno cool.

Ne hanno parlato un po’ tutti, in questi mesi, dopo l’uscita del suo quinto lavoro, “… e semm partii”, e i toni sono stati generalmente esaltati, quando non apologetici, secondo uno stile che da sempre caratterizza le riviste patinate pop/rock usa e getta che affollano le edicole, con le loro pubblicità di profumi e scarpe a confondersi coi dischi e le fotografie dei musicisti.

Davide Bernasconi, in arte Davide Van De Sfroos (“di frodo”), è un fenomeno cool, insomma, di quelli che dall’oscura, sconosciuta provincia si ritrovano al centro della scena quasi senza essersene resi conto: “Brèva & Tivàn”, il penultimo CD, sembra abbia venduto almeno 35.000 copie e altrettanto, se non di più, farà l’ultimo uscito: cifre ragguardevoli, indubbiamente, se rapportate all’asfittico mercato indipendente italiano. Quanto al pubblico, le cronache e il “passaparola” raccontano di concerti affollatissimi, di fan entusiasti ai limiti del delirio. Dopo averlo intervistato, in occasione del concerto al “Fillmore” di Cortemaggiore (PC), il 29 marzo scorso ho avuto modo di costatare di persona la “presa” che il personaggio ha sul (suo) pubblico. Prime file estasiate, che cantavano a memoria i suoi testi, pronti a “pogare” (si dice così, no?!) al primo 4/4 metronomico, ammiccando a ogni battuta del musicista. Un successo difficilmente contestabile, insomma, vissuto dal protagonista con una modestia e un senso della misura che imbarazzerebbe anche il più esigente dei critici.

Di qui, però, poiché apparteniamo alla schiera di coloro che non si accontentano delle apparenze, l’impulso di andare più a fondo sulla natura del “fenomeno”, cercando delle motivazioni che si spingano oltre l’evidenza, schiacciante, dell’innegabile fascino che Van De Sfroos suscita sulle folle, con quella sua parlata roca, da sopravvissuto “maudit”, quel suo narrare di sé parlando degli altri – figure di laghet drop-out, emarginati dimenticati da Dio che sembrano uscire da “Autobiografia della Leggera” di Danilo Montaldi (chi si ricorda di questo sociologo ante-litteram cremonese?) o dal più recente “Poema dei Lunatici” di Ermanno Cavazzoni, da cui Fellini trasse ispirazione per il suo film-culto “La Voce della Luna”.

L’equivoco di “popolare”

Sgombriamo il campo, anzitutto, dall’equivoco di “popolare”, che tanto ha contribuito al successo di De Sfroos. Il musicista stesso è pronto ad ammettere che non esistono tradizioni musicali nel territorio in cui vive – Tremezzo, sul Lago di Como – e che quindi ha dovuto inventarsi una “tradizione”, una pseudo “cultura popolare” che veicolasse i testi, le parole. Anche a un ascolto superficiale, infatti, difficile non cogliere l’artificiosità dell’operazione: nessuna filologia che tenga, quindi, nessuna fonte testuale, nessun “informatore” a ispirarne la poetica, se non la “semplice” descrittività dell’esperienza - sufficiente l’ascolto di uno dei suoi brani più famosi, “L’omm de la tempesta”, una ballata blues retta da due soli accordi con un ritornello attraente (catchy direbbero gli inglesi) che nulla ha da invidiare a musicisti mainstream tipo Ligabue o Zucchero.

De Sfroos utilizza la musica come veicolo per i testi, aderendo alla tradizione del cantautorato anni settanta, in un melting pot di generi (dal rock al blues, dal reggae allo ska, dal pub-folk al jazz-blues) che ne rendono l’identità musicale vaga, quando non pretestuosa, all’interno di un progetto artistico dall’estetica dimezzata (la musica come dimensione accessoria), quantomeno incoerente in rapporto al radicalismo implicito nella scelta, senza dubbio interessante, di utilizzare un idioma dialettale.

Aleatorietà e ripetitività della forma

Aleatorietà della forma, quindi, perché la musica non è dettata da un “destino” di appartenenza a una storia, e sua paradossale ripetitività: il successo di De Sfroos sembra infatti dipendere dalla prevedibilità della costruzione armonica, secondo una prassi (studiata da alcuni musicologi “popular”, tra cui Franco Fabbri) in uso in ambito pop. La struttura scelta da Bernasconi risulta invariabilmente la stessa (stessi attacchi vocali, stessi movimenti interni al brano), contribuendo all’equivoco di detenere una natura “popolare” (come la giga o il saltarello…) senza averla. L’effetto di un ascolto superficiale (intendiamoci: non meno legittimo!), “muscolare” verrebbe da dire, dei pezzi – soprattutto se associato al movimento (il “pogare” come espressione di “trance” contemporanea) – è infatti quello di essere fatalmente calati in uno spazio psicologico “popolare” (indotto soprattutto dal cantato in dialetto e dall’uso di strumentazione tradizionale – fisarmonica, violino su tutti), senza che lo sia, in una dimensione illusoria e ambigua, equivoca appunto.

La dimensione del “politico”

Il sentimento di appartenenza solo virtuale a una rappresentazione che si accredita indebitamente, riuscendoci, come “popolare”, nel concerto di De Sfroos si rifrange sul senso di identità dei partecipanti, sull’aderenza a un universo che si fa “rituale” (ma come il concerto rock, non come la festa contadina) e solo allusivamente “politico”. I testi di Bernasconi propongono una visione della società “dal basso”, certo, ma scarsamente politica, riducendo la poetica a stereotipi sociali vittime di un bozzettismo a tratti grottesco, autistico, autoindulgente. Un universo chiuso, insomma, nell’alternarsi meccanico di figure caratteristiche, “popolaresche” più che “popolari”, prive di rapporti significativi con la realtà.

De Sfroos, d’altronde, è tanto onesto da ammettere di considerarsi semplicemente un “cantastorie” piuttosto che un “hobo”, pur nella contraddizione di riferirsi, nell’enunciazione delle sue fonti ispiratrici, a Bob Dylan e, soprattutto, a Woody Guthrie (quello della chitarra-macchina “che uccide i fascisti”…). A domanda diretta, il musicista ammette di rinunciare ad avere un ruolo politico e dichiara di non volersi schierare, di non prendere posizione. Legittimo, certo, pur nell’evidenza di una forse involontaria ambiguità… Perché “politici” lo si è sempre, che si scelga o no di esserlo - dipende dal come… - e, benché sia possibile una lettura classista delle “lyrics” di De Sfroos (la retorica dell’emarginato, dello sconfitto), con relativo portato di sentimenti di solidarietà e di “pietas” – la maggior parte dei testi di “… e semm partii”, ispirata all’idea del “viaggio” (emigrazione/immigrazione), non autorizza a interpretazioni culturalmente avanzate (multi e interculturalismo, egualitarismo, socialismo…) ottundendo le straordinarie potenzialità del tema. Bernasconi nulla dice, ad esempio, sui rapporti tra localismo e culture altre, fra radicamento e viaggio, fra identità e alterità, limitandosi a tratteggiare un campionario di figure di laghet certamente suggestivo e divertente ma irrimediabilmente oleografico, semplicistico, povero di suggestioni umanistico-letterarie (altra cosa, ad esempio, il campionario straordinario di “Anime Salve” di De Andrè, certi perdenti di Ivano Fossati, per non dire dei ritratti ironici e stracolmi di umanità di Conte e Capossela…).

Finale con facile previsione

Con una poetica di questa natura, espressa oltretutto con ricercata “autenticità” (l’immagine del “worker” della chitarra, che parla col cuore in mano…), è facile prevedere un crescente successo del musicista, per quanto attenuato dall’uso del dialetto, implicito elemento penalizzante in un’ipotesi di commercializzazione di massa. Clima politico e recrudescenze xenofobe (condensate in certo celtismo d’accatto…) potrebbero paradossalmente strumentalizzare gli aspetti culturalmente più degni del progetto artistico - l’uso del dialetto, appunto, l’ostentazione di una certa estetica “bohemien”…

Anche in ragione di ciò, più che in altre occasioni, l’invito che rivolgiamo ai lettori di FB è quello di restare vigili, di non lasciarsi facilmente sedurre, di osservarne gli sviluppi futuri senza indulgenze, consapevoli che non è scontato che le “frodi” cui allude Davide Bernasconi si riferiscano esclusivamente alle “vite rubate” intorno al Lago di Como e messe su disco.

L’intervista
Siamo nel backstage, adagiati su un comodo divanetto. Davide Van De Sfroos, confermando la fama di irrefrenabile affabulatore, azzanna le domande con risposte-fiume, per certi aspetti rivelatrici più dell’imbarazzo di trovarsi sotto i riflettori che di una sufficiente consapevolezza del suo ruolo di musicista contemporaneo. La trascrizione dei 20 minuti di conversazione, per questo, non poteva che essere fedelmente “nuda e cruda”.

Anzitutto, ho una curiosità: capire come ti collochi – se ti collochi – nel panorama della musica popolare-tradizionale che si suona in Italia…

Il problema di tutte le cose è sempre quello di dare una collocazione, di cercare di capire dove uno può essere collocato. È chiaro che io parto da un esperimento che non viene assolutamente da strategie di marketing, perché logicamente mettersi a cantare nel dialetto strano di un paesino del lago di Como, è tutta una cosa dettata solo dalla passione. Io, quasi per scherzo, avevo detto di suonare un genere “bifolk”, sembrava un gioco di parole… però, in realtà, è forse la cosa giusta: non è il folk levigato, sistemato – tipo quello dei Fairport Convention o dei Pentangle – il “bifolk” è quello di Woody Guthrie, ma anche del Bob Dylan degli inizi, o dei Pogues e tutte queste cose… Poi è chiaro che ognuno ci può trovare quello che vuole, perché questa musica è fatta da un italiano che canta in dialetto, ma possono esserci dentro tutti gli influssi che uno ha ascoltato – da Tom Waits fino a Leonard Cohen, De Andrè… e chi più ne ha più ne metta… È chiaro che io non ho imitato nessuno, ma sono contento di aver appreso influenze da tutto quello che ho ascoltato. Oggi come oggi cosa sono? Non sono altro che una persona che ha preso in mano una chitarra come alibi per scrivere queste storie. Quindi è venuta prima la roba scritta dei primi accordi di chitarra. La voglia era proprio quella di girare cantando per la gente… Probabilmente, siamo di fronte a un atteggiamento simile a quello dei cantastorie, i suonatori di strada, gli “hillibilli”, i mariaci… Io mi sposto con la band e mi vedo proprio con questo genere di cose, più che vedermi come uno del rock, del pop italiano che aspira a diventare Zucchero o Ligabue… Non è assolutamente così, anche perché ormai ho 36 anni e da quando suono queste cose qui, dal ’90, il mio spostamento in giro è stato più quello con lo sguardo alla J.J.Cale o alla John Lee Hooker, piuttosto che pensare di diventare qualcuno… È chiaro che si vuole andare avanti, però non vincendo Sanremo a tutti i costi… Quindi io mi vedo “folk” nel lato fangoso della cosa…”

 

Hai citato tra le fonti ispiratrici Woody Guthrie, che a me è sempre piaciuto molto per la sua identità di “hobo”, una tipologia di cantastorie che non hai considerato ma che immagino ti interessa per la dimensione politica del far musica…

Io ho sempre detto che nella mia musica – non politicizzata nelle canzoni, con slogan e cose simili – io non ci metterò nessuna bandiera da un certo punto di vista, perché non voglio essere limitato in nessun modo nel raccontare quello che è la gente. Quindi, visto che sotto il palco io mi trovo personaggi di tutti i tipi, perché ascoltano storie che riguardano la gente e non riguardano un settore: perché io posso parlare del partigiano, posso parlare del fascista, senza sventolare, ma facendo emergere quella che era la sensazione bella o brutta in quel tempo. Poi ognuno ha tutto il tempo di andare a casa a far tutte le dietrologie… Quando io cantavo la canzone forse più politica che era “Poor Italia”, parlavo di tutti coloro che dicevano “poor Italia” ma che poi erano i primi a renderla povera quest’Italia… Quindi, io non ho mai detto: “attenzione, io adesso vi spiego e inneggio a questo e inneggio a quest’altro…”, ma la gente deve essere in grado di capire che mi muovo come un cronista, come un navigatore, senza chiedere documenti, senza chiedere bandiere, perché per me è stato così sin da bambino – ascoltare la storia del partigiano, ascoltare la storia del nonno che era comunque fascista… ascoltare la storia dello zio aviatore che di certo non era con gli americani perché era italiano… ascoltare quello che succedeva dal contrabbandiere ma anche dal finanziere… sapendo sempre che dietro le divise, dietro le bandiere, c’era sempre una persona e le persone sono proprio alla base di tutte le storie che racconto… Poi, però, viene il discorso “però stai attento, canti in dialetto lombardo, non hai paura che ti scambino per…”: sarebbe peggio non cantare in dialetto lombardo, che è la lingua che parlo da quando avevo 4 anni, perché ho paura di essere preso per… Se io faccio un disco intitolato “E… semm partii” e spiega che noi eravamo emigranti una volta, e dice tutte queste cose qui senza dire niente, e comunque delle persone di un partito o di un altro lo ascoltano in modo equidistante e tutte dicono: “mi hai emozionato”, io ho raggiunto il mio obiettivo. Ben vengano che lo ascoltino questi e quegli altri…”

 

Però, se io ti chiedessi un’opinione rispetto al mondo in cui vivi oggi, ad esempio proprio sull’immigrazione che è un fenomeno che il tuo ultimo disco tocca nel profondo con le storie che racconta, tu ti sentiresti imbarazzato a prendere una posizione se ce l’hai o non avresti problemi di sorta?!

Imbarazzato a prendere una posizione in questo senso: perché la persona che parte dalla propria terra è la persona che già sta affrontando un dolore, perché non è “oh, che bello, ce ne andiamo…!”. Anche noi quando eravamo gli “italiani d’Argentina”, quando siamo andati in Svizzera, Germania o dovunque vuoi tu, non eravamo contenti di andare. Andavamo ed era già un momento duro, con delle emozioni, dei dubbi, delle speranze… Nel momento in cui, poi, arrivi in una terra, c’è l’imbarazzo di chi ti deve ricevere – “oh, dio mio”, la paura, “chi saranno questi?!”… Da un certo punto di vista è paura per quello che realmente accade, a volte si demonizzano cose come si demonizza un telefonino o Sanremo, quindi è veramente un bacino grande di cose, di emozioni e di tensioni, di paure. Certo, se uno avesse la bacchetta magica potrebbe dire: “Dai, speriamo entrino solo quelli che hanno intenzione di…”, perché magari arrivano degli immigrati che sono dei disperati, che erano dei delinquenti nel loro paese… però poi bisogna vedere perché erano delinquenti nel loro paese… cosa ha fatto il loro paese per renderli tali… quanto i nostri delinquenti diventano interattivi con loro… Io, quello che vedo è sempre il battito di cuore di quello che da una terra va a un’altra terra… Quindi, vedendomi come l’italiano che si muove oppure come quello che vede qualcuno che sta arrivando a casa sua… Sono poi il primo ad essere innamorato delle altre culture che possono essere tutte quelle della “world music”, quelle di Peter Gabriel, anche quelle della musica araba - il vero folk… Queste influenze mi piacciono e vorrei anche arrivare a metterle dentro la mia musica, ma non vorrei arrivarci in un modo del tipo: “adesso che ho la possibilità vado e chiamo uno del Maghreb e lo metto dentro perché ci sta bene…”. Dovrebbe essere un qualcuno che ho conosciuto e come ho messo alcune ragazze della Sardegna, mi sono intrecciato con una storia simile alla loro e mi sono appassionato della Sardegna… Così come domani potrei mettere delle influenze del Salento, ma deve essere un percorso che tu fai in prima persona, altrimenti è un po’ come prendere l’album delle figurine, il “calcio mercato” - prendo i musicisti più bravi e li inserisco… Mi sono sempre mosso come uno che fa del lavoro artigianale, con le mani, in piena autenticità, anche se poi si va avanti e si cerca di lavorare con i musicisti che ti piacciono, rimanendo dentro l’istintività della cosa… Che la musica cresca, ma essere sempre convincente per chi ascolta rispetto al modo in cui proponi la canzone…”

 

Tu hai scritto un paio di libri di poesie e mi è parso di cogliere nei tuoi testi delle fonti letterarie: ci sono dei modelli di poeti, di scrittori a cui ti senti particolarmente vicino?

Nella poetica, quella scritta con le parole in italiano, quelle che ho scritto in questo libro “Perdonato dalle Lucertole”, l’80% delle poesie sono tutte in italiano e sono state scritte dall’infanzia. Lì ci trovi da Fellini a cose come Vittorini, piuttosto che Quasimodo… A me piace tantissimo Garcia Lorca, così come il mondo descritto da Testori, il mondo del pittore Ligabue, come Ermanno Olmi… Tanta roba che arriva anche dal cinema. È chiaro che tutti i poeti stranieri e anche italiani – Emily Dickinson, William Blake, Pablo Neruda… - io li ho sempre tenuti in grande considerazione… Mi piace anche Montale, Pasolini, Ungaretti… Però la mia poesia non sarà mai troppo ermetica, da rimanere in tre righe – potrebbe essere più o meno lunga, ma ha imparato a diventare discorsiva proprio come lo è la gente del lago… Quindi a volte sono i fogli di un taccuino senza tempo, piuttosto che una poesia vera e propria...”

 

Esiste una continuità tra la scrittura delle poesie e quella delle canzoni?

A volte c’è una continuità così diretta che alcune poesie sono diventate canzoni – ad esempio “Pulènta e galèna frègia”, “Ninna nanna”, “La nocc”… “Ventanas” dell’ultimo disco era una poesia scritta per me… Questo avviene quando tu la strutturi, l’hai già pensata magari in una lingua e vedi che comunque è musicabile. Altre volte non hai nessuna intenzione di mettere quella cosa in musica perché è una cosa che uno la deve leggere in un momento suo e non può essere sventagliata in giro con della musica perché non lo consente o non è pensata per quello…”

 

Quindi prima parti dal testo…

Più che dal testo scritto dall’idea di quello che voglio cantare. Arriva prima la storia e dopo lo scrivere questa storia: la storia deve essere una storia su questo uomo, su questo personaggio… Partono delle parole, diventano la trama, poi tu fai la canzone… La musica viene scelta in base al tipo di cortometraggio che è… Per “Sugamara”, ad esempio, è chiaro che questo qui è un tipo un po’ spaccone e ci starebbe bene una cosa un po’ mariaci, un po’ Compay Segundo… Poi, magari, le cose arrivano dopo, mentre sei lì in cucina che ti accompagni e dici “questo è lo stile della canzone”…

 

Vorrei provocarti sulla forma che hai scelto, quella con cui ti esprimi: i puristi del mio ambiente sostengono che la tua è una forma un po’ “sempliciotta”. Forse qui torniamo al “bifolk”…

È sempliciotta perché è fatta da uno che ha basato tutto quello che fa sulla semplicità… A me non frega niente che ci sia sotto Wellenweider con l’arpettina new age o il violinista dei Cheftains… C’è stato un periodo in cui giravamo in nove e con noi c’era uno dei migliori flautisti del nord Italia, uno che suonava la baghet bergamasca, con intrecci di suoni dal vivo che sembravano usciti da Bregovic, ma per me era troppo… L’importante è attraversare queste cose, ad esempio come nel disco quando abbiamo chiamato la Banda Osiris, che non è una vera banda, perché suonano gli strumenti in modo sguaiato, ma era quello che si voleva… “Sempliciotto”… Certo lo so, un disco di James Taylor è più preciso, è più impostato, è più matematico… perché James Taylor fa le cose in quel modo… L’idea di poter mischiare delle robe appunto in modo grossolano, non purista, con questo patchwork di cose, per me è fondamentale perché io non ho una musica reale laghet – dalle mie parti ballano il liscio romagnolo…”

Quindi questa tua forma che potrei definire “sgraziata” è intenzionale, voluta…

Sì, è volutamente tale perché sennò dovrei fare dei giri e dei rigiri, una palestra apposta per poi dover affrontare dei puristi che francamente non mi interessa di affrontare perché questa è la musica per lo spazzino, per il muratore, ma anche per l’avvocato piuttosto che per il ministro che vuol sentire quella roba…”

 

Da questo punto di vista, allora, hanno ragione i filologi che dicono “questo non fa musica popolare!”…

Hanno ragione quelli che dicono: “Questo non fa musica né folcloristica, né popolare”, anche se il contenuto è popolare… Ho inventato una forma che è quella che è fatta delle cose che ho ascoltato attraverso la mia vita… C’è di tutto dentro… Anche un blues sarà sempre un blues “à la Davide”, perché è il Davide che fa un blues…”

E il fatto di cantare in dialetto limita secondo te la diffusione della tua musica?

Era la credenza iniziale della quale me ne fregavo perché ero talmente contento della cosa che per me già arrivare in città, a Como, e dire “mi conoscono” era già un successo… Adesso vedo che in Piemonte dicono “bello, abbiamo capito”, in Liguria idem, in Veneto imparano le canzoni a memoria, sono stato vicino a Roma e una bambina romana mi ha cantato “La Balera”, all’Aquila qualcosa capivano qualcosa no, ma la cosa più bella è stata arrivare a Perugia e vedere la gente che voleva capire, la cosa li incuriosiva, perché questo suono che non capivano gli piaceva da matti…”

che poi è un po’ come l’inglese nel rock per chi non lo capisce, in fin dei conti…

Esatto. Ci sono gli U2, “no, non vengo a vederli, non capisco niente…”, ma in fin dei conti conta poco, no?”

 

Rispetto alla tua visione delle cose, alla tua poetica, intendendo come costruisci il tuo immaginario e lo proponi agli altri, venendo da una realtà chiusa, quella lacustre – il lago non indulge sull’idea di viaggio, è un po’ come vivere in una pozzanghera – com’è nata questa visione per i mondi altri, che poi sono le vite delle persone di cui scrivi?

“… perché comunque era il passaggio obbligato successivo. Perché anche il personaggio che sta sul lago si trova in una situazione in cui lui è lì chiuso, col suo modo di essere col suo modo di vivere, ma è sempre stato un chiacchierone che ha osservato il turista che arrivava. È sempre stato uno che per un motivo o per l’altro ha viaggiato. Allora, vediamo questo laghet quando va in giro come reagisce, cosa riporta quando ritorna a casa, come lo dice, e come sarà lui scaraventato nel mondo… L’importante è non rimanere a crogiolarsi dentro questo mondo chiuso, questo lago, questa vallata… Il viaggio è importante proprio già come concetto anche astratto, tu ti concentrerai sempre sui passi che fai e se sarai bravo a guardare, a divertirti mentre cammini, porterai a casa qualcosa…”

Da qui deriva quella sorta di urgenza che si avverte nella tua musica… Sembra che tu fremi quando canti, come se tu non stessi nella tua pelle, e questo lo si ritrova nei testi, nella musica, la voglia irrefrenabile di andare, del viaggio, di evadere anche fisicamente…

Sì, sono un ansioso… Vuoi sapere una cosa che le spiega tutte? Non c’è una canzone che non sia stata scritta nell’arco di una giornata… Cioè non può rimanere lì, dal momento che è partita la prima parola, a costo di svegliarmi di notte ma la devo finire, perché io sono ansioso, sono quello che apre il pacchetto subito, che non riesce a trattenere un’emozione…

Adesso che sei diventato famoso, se una major ti proponesse un contratto come reagiresti?

Da un certo punto di vista, lavorando da libero sono riuscito a fare delle cose, certo faticando di più, ma ho fatto veramente quello che volevo sfidando tutte le leggi – il ritornello deve arrivare dopo tot battute, e la canzone più famosa, che è “La balàda del Genesio”, non ha ritornello ed è solo cantata ed è tutta uguale su tre accordi. Francamente credo davvero poco a tutto questo appiattimento dove tutto deve funzionare dal punto di vista commerciale, come i prodotti del supermercato. C’è anche gente che ha voglia di ascoltare mezz’ora di canzoni o come l’altro libro 80 minuti di storia in dialetto tutta in rima. Dico sempre che preferisco piacere tanto a 25 piuttosto che così così a 50…”

Ma non ti disturba questo successo incalzante, non hai paura che ti possa condizionare?

Vedendo che è sempre proporzionato e che le persone capiscono quello che stai proponendo, non mi fa paura. Mi farebbe paura se dovesse esplodere da un momento all’altro come un lecca lecca, con tutti i bambini che lo vogliono perché la televisione ha uno spot che dice di prenderlo… Ma siccome tutti quelli che vengono dicono la stessa cosa, cioè che vengono a sentire quello che gli interessa sentire, allora sono tranquillo.”

 

Laura Pausini, gli U2 e alcune “verità contemporanee”…

Laura Pausini vince un Grammy Award e lo dedica alla “sua” patria (“Io sono italiana e devo tutto all’Italia”). E mentre la “sua patria” continua ad essere quello che è (un imbarazzante non-luogo senza regole dove prevalgono i più furbi e i più forti) e su tutti i giornali non si perde tempo a ricordare come la cantante abbia faticato parecchio in questi anni per raggiungere il meritato successo internazionale (= tanti bei dischi venduti), su “L’Unità” del 9 febbraio scorso Toni Jop intervista tale Elisa, sedicenne romana, appena uscita da un concerto degli Oasis. Titolo dell’articolo, poco più sotto dell’apologia della Pausini: “Oasis? Meno smorti dei Beatles”.

Nell’intervista, condotta con la consueta attitudine del “vecchio” che non riesce a stare al passo coi tempi, aggrappato com’è alle antiche passioni della sua giovinezza, e si vede frantumare in una battuta i miti di sempre (“E i Beatles?”, chiede. Risposta: “Bravini, un po’ troppo smorti per i miei gusti, preferisco Elisa, la mia passione…”), alcune “verità contemporanee” che raccontano delle epocali trasformazioni in corso.

Io non ho dischi, scarico da Internet, ho sentito qualche pezzo loro e mi sono piaciuti, non so dire di quando siano i brani che ho ascoltato e non mi importa…”.

E Jop, candidamente: “Non hai neanche un disco?”. Lei: “Te l’ho già detto. Papà li ha, io no, a cosa mi servono?”.

Giusto. Cos’è che ti piace di più tra gli scarichi?”

Ascolto molta musica diversa. Dai Muse a Giorgia e non solo. Per esempio, mi piace il blues, mi fa allegria…”

Lo sai che gli Oasis ci tengono a precisare che si sentono figli dei Beatles?”

Si, lo so. E infatti ci somigliano ma sono più vivaci, più rock e sono più popolari di loro, adesso”.

Elisa è il prototipo del giovane contemporaneo mutante. Non che ci volesse “L’Unità” per essere illuminati su un universo (parallelo al nostro? …al “nostro” quale?) che quelli della mia età faticano anche solo a concepire. Che le pratiche dell’ascolto siano repentinamente cambiate è di un’evidenza schiacciante, d’altronde, come sono innegabili le difficoltà in cui sta annaspando da tempo la discografia, incapace di opporsi alla deriva del suono tornato “puro” con tutte le implicazioni connesse dalla rivoluzione del “peer to peer” (diritti d’autore in primis).

È in atto una mutazione “antropologica” che ha ridotto il vivere contemporaneo in un totalizzante “qui ed ora”, dove la memoria storica, la contestualizzazione della conoscenza, l’ordine del discorso sono sul punto di tramontare sacrificate al piacere monodimensionale del sentire per il sentire (niente di male, ci mancherebbe altro), pura funzionalità. Quanto alla musica, leggete qualsiasi “newsgroup” della Rete e ne avrete la fedele testimonianza…

Ma, allora, chi ha comprato tutti quei dischi che rendono la Pausini una delle cantanti italiane più famose di tutti i tempi nel mondo? Chi l’ultimo mediocre disco degli U2, primi in tutte le classifiche del 2005?

 

Nostalgia del “discorso”.

Tra gli ultimi fuochi d’artificio del recente Midem (gennaio 2004), quello di Peter Gabriel e Brian Eno, promotori del “Mudda Manifesto” (Magnificent Union of Digitally Downloading Artists – Meravigliosa unione di artisti che scaricano in digitale), provoca più di una riflessione sul futuro della discografia e della produzione musicale.

Gabriel dice a chiare lettere che il futuro è ormai riposto in Internet, nella diffusa dimensione del “downloading”. “Se vuoi un brano paghi tot, la rarità costa di più, per la sola musica magari un altro pezzo, qualcosa la regalo anche”, spiega Eno intervistato da Laura Putti per “La Repubblica” (28-1-2004, pag. 41). “L’importante è non sentirmi confinato in un CD a prezzo fisso o nel modello Apple dei 99-centesimi-per-canzone”. E mentre da più parti, a dispetto dell’evidenza, si continuano a battere le campane a morto al disco in vinile (le ultime esequie in ordine di tempo quelle dell’amena rubrichetta “Sfide” di Musica che sul numero 401 del gennaio 2004 ne decreta la netta inferiorità tecnica rispetto al CD, nonostante l’annunciato imminente tramonto di quest’ultimo a favore del SACD, Super Audio CD...), negli ultimi anni sono nate numerose case discografiche per audiofili che propongono titoli fondamentali della “popular music” in vinile 180/200 gr. a prezzi medio-alti, dimostrando chiaramente che un’altra economia, per quanto residuale, è ancora possibile e coesistente.

Leggendo della provocazione di Eno e Gabriel, complice l’iperbolica enfasi dei media, si sarebbe portati a credere che ineluttabile non solo è il destino della discografia tradizionale (produzione su supporto e vendita nei negozi) ma che l’idea stessa di “opera” sia concettualmente tramontata.

Proprio in questi stessi giorni, capricci del caso, mi è capitato di imbattermi in un negozio di un paesino della provincia di Piacenza. Sotto un porticato tre vetrine hanno attirato la mia curiosità. Dentro, dischi in vinile dovunque, audiocassette, strumenti musicali, spartiti, CD, DVD... Un negozio d’altri tempi, di quelli “generalisti” dell’era pre-compact disc (prima metà degli anni ottanta), dov’era possibile acquistare un’armonica a bocca o un più semplice kazoo. E ancora più grande è stata la sorpresa di scoprire che in quegli scaffali molti erano i titoli della stagione gloriosa del folk italiano – i Dischi del Sole, i Dischi dello Zodiaco, la collana Albatros...

Sconcertato, ho potuto acquistare numerosi titoli per pochi euro, tornandomene a casa felice come da bambino dopo aver preso in edicola l’ultimo numero del “Corriere dei Piccoli” con le storie di Zorro Kid e Cocco Bill...

I magnati della discografia, come hanno sempre fatto, stanno tentando di differenziare l’offerta, di offrire nuovi supporti (sebbene virtuali) per uscire dalle secche di una congiuntura apparentemente senza sbocchi. Imbrigliata Napster e controllata a fatica la pirateria, la direzione imboccata è quella della virtualità, della rarefazione, della frammentazione: potremo scaricare, come sostiene entusiasticamente Gabriel, un brano alla volta ( a quel punto, per disporre di un suo disco, i fan dovranno aspettare non dieci ma vent’anni, viene da credere...), o solo quello che ci piace pagando un tot, appunto. Potremo costruirci compilation a piacimento, scaricando da Internet le copertine, e, prestissimo, intervenire direttamente sul missaggio dei brani, togliendo strumenti, inserendone altri, aggiungendo la nostra stessa voce...

Opportunità straordinarie, certo, che hanno innegabili significati socio-politici (ma la democraticizzazione di Internet, però, non presenta anche un’altra faccia, molto meno raccomandabile, che riguarda il rischio di saturazione e mistificazione dell’informazione...?): ma chi ci restituirà il valore “politico” dell’opera d’arte, la sua integralità, la sua omogeneità, il suo “discorso”?

Ritrovare i vecchi Dischi del Sole intatti, ancora sigillati, bellissimi nel loro artigianato povero, con gli inserti dattiloscritti e ciclostilati, poter riascoltare dal vinile originale Giovanna Daffini o Cicciu Busacca, poter consultare le note allegate, approfondirne le motivazioni, capirne le ragioni culturali è un piacere che ragioni di cinica economia non potranno toglierci facilmente. Eisenberg nel suo straordinario “L’angelo con il fonografo” (Instar Libri, Torino 1997) scrive: “Il disco è un mondo. Il mondo inciso dall’uomo in una forma che gli possa sopravvivere”.

Le centinaia di migliaia di LP in vinile ancora in circolazione (e gli stessi vituperati CD già guardati come icone del passato) sono lì a testimoniare il valore del discorso sull’ideologia del consumo della musica che vorrebbe imbavagliare la parola.

 

La musica “popolare”, quanto popolare in Italia? Una lettera-sfogo a “Folk Bulletin”.

Ti ringrazio, Direttore, per aver riaperto coi tuoi appassionati editoriali un annoso dibattito destinato troppo spesso a soccombere, sommerso dalle impietose evidenze della realtà. L’occasione della recente uscita dell’album “Il fischio del vapore”, dell’inedito duo Francesco De Gregori e Giovanna Marini - per altro operazione del tutto analoga a quella precedente di Turututela – induce, credo, a più di una riflessione, sulla sorte di questa nostra (?) amata musica (“tradizionale”? “popolare”?).

Con l’ipocrisia che caratterizza frequentemente il suo scrivere, e la linea stessa del settimanale di cui è un’inveterata colonna, Gino Castaldo presenta sul n. 350 di “Musica!” (giovedì 21 novembre 2002) il nuovo lavoro di De Gregori-Marini con il vestito bello della retorica di rito di certa sinistra piccolo borghese, incuriosito da quale possa essere il destino di un disco “così anomalo e controcorrente”. Scrive, tra l’altro: “… ma rimane la sensazione che riportare alla luce queste canzoni che, come dicono i protagonisti, sono comunque frutto della cultura di sinistra perché venivano dal mondo popolare, dalla voce dei deboli e degli oppressi, abbia oggi un inevitabile sapore politico. Se non altro perché spingono a riflettere: hanno oggi voce i deboli, gli oppressi, i diseredati, gli emarginati dal grande illusorio sogno del benessere televisivo? E se è vero che i diseredati oggi non canterebbero queste canzoni, c’è sicuramente da ricucire un perduto rapporto con la storia…”

Caso emblematico di miopia interessata dell’editoria musicale italiana (il disco è distribuito urbis et orbis dalla Sony Music, inserzionista di “Repubblica”, mentre quasi introvabili risultano i lavori della sola Marini…), lo stesso Castaldo aveva da poco dedicato un risibile pezzo di ben due pagine ai “nuovi cantautori” (Cammariere, Bugo, Pacifico) sul numero del 19-11-2002 di “Repubblica”, presentando Davide Van De Sfroos come “senza dubbio una delle personalità più originali della nuova canzone d’autore italiana”. Un’intervista di Antonello Caporale a Giovanna Marini sul “Venerdì” del 15 novembre - la prima immagino da sempre - banalizzava e riduceva l’opera e la storia della cantante attraverso una serie di facezie e piccole provocazioni, consumate all’ombra dell’unica “stella” dell’operazione, l’immarcescibile Francesco De Gregori.

 

La frustra morale che ravvedo, anche in queste ultime vicende, mi pare riassumibile in pochi punti:

  • la critica e i giornali che contano (quanto a vendite, almeno) continuano a ignorare intenzionalmente e sistematicamente il ricco panorama della musica contemporanea suonata e registrata in Italia che convenzionalmente definiamo tradizionale/folk/popolare etc., salvo scriverne quando è l’industria discografica a imporre a suon di investimenti i suoi diktat: eccetto qualche rara anomalia (un esempio inatteso “Matri Mia” di Banda Ionica), quasi nessuna rivista si occupa con continuità del fenomeno, dedicando sparute recensioni alle “nostre musiche” affogate in un mare di esotismi radical-chic (con buona pace della storia e della memoria di Castaldo…);

  • i paladini della carta stampata vivono generalmente di una beota ignoranza, continuando a confondere “popolare” con “tradizionale”, “filologico” con “originale”, “riproposto” con “riarrangiato” e così via, infilando termini e concetti con la leggerezza dell’uomo della strada: così, Castaldo, descrivendo il disco del “vapore”, può scrivere bellamente che “gli arrangiamenti sono semplici, rispettosi, a volte asciutti e quasi filologici, a volte ammodernati da un suono di gruppo che riporta all’oggi queste vecchie melodie.” (!);

  • l’effetto delle due concause accennate sopra determina, oltre a generare nei più un’inestricabile confusione culturale sull’autenticità e la buona fede dei fenomeni (qualcuno, giustamente, si è indignato proprio su queste pagine riguardo chi si stia “approfittando” del vento favorevole…), è che il “popolare”/”tradizionale” in Italia sia soltanto ciò che multinazionali/celentani (Manu Chao, ricordi?)/riviste patinate/radio private/promoter decidono che debba essere: dopo il santino dedicato a De Gregori-Marini, “Musica!” propone un breve pezzo (con foto) sull’impegno civile e politico di Jovanotti e un contributo sulla presunta “rinata canzone politica” dell’Italia di oggi: Bisca, 99 Posse, Claudio Lolli (!), Bandabardò. Chiude un pistolotto dei sempiterni Modena City Ramblers, altri terminator della sinistra, sull’opposizione canzone d’amore-canzone impegnata che ha ormai sfiancato anche i più indulgenti fra noi.

Viviamo in un paese senza memoria, caro Direttore, sommerso da una comunicazione mass-mediale opprimente, autoritaria, settaria (a destra come a sinistra), ideologica, in cui la rimozione è l’esercizio più diffuso (altro che “rapporto con la Storia!”) e tutto o quasi appare fatalmente come esperienza del “qui ed ora”.

Né, d’altronde, pare ragionevole riporre grandi speranze nel “popolo”, che oggi più di ieri mi pare l’astrusa rappresentazione di qualche bifido politico: non è forse polverizzato in non-luoghi il nostro Belpaese, micro comunità per lo più inedite (perché risultato di recente immigrazione), ancora sconosciute, che minano ancor di più l’idealistica visione di un territorio socio-culturalmente omogeneo (con buona pace, stavolta, di tutta la pseudo ideologia della destra sociale leghista…)?

Qual è la musica di questo non–luogo che è oggi l’Italia, d’altro canto? Di quale “popolo” stiamo parlando? Di quali “tradizioni”?

Il servizio più volgare che possiamo fare alla musica è quello di strumentalizzarla e ridurla a mero fine (economico, ideologico, religioso), al di là della sua più naturale prerogativa di essere libera espressione dello spirito.

Osservo, purtroppo, scarse e flebili esperienze di “resistenza”, “di qua” come “di là” …

 

Demetrio, vent’anni dopo.

A Milano l’”Omaggio a Stratos”, davvero troppo poco...

Adesso che anche Demetrio Stratos è stato liberato dalle catene arrugginite delle ideologie anni Settanta e riconsegnato alla Storia della Musica, è forse possibile guardare alla sua opera con occhi più disincantati e obiettivi.

Front-man ed anima dei Ribelli nella seconda metà degli anni Sessanta (suo l’hit “Pugni chiusi”), tra Ray Charles e Van Morrison, cantante e ideologo nei Settanta degli Area, probabilmente il progetto musicale italiano più intelligente di sempre, Stratos muore improvvisamente a 34 anni il 13 giugno 1979 per una grave quanto rara malattia, l’aplasia midollare.

Al rapido aggravarsi delle sue condizioni, i compagni avevano deciso di organizzare un concerto all’Arena Civica di Milano per raccogliere fondi a sostegno delle costosissime terapie del Memorial Hospital di New York. Il destino volle, però, che proprio il giorno prima Stratos morisse e il concerto della speranza volgesse, tragicamente, in requiem. Un requiem suonato davanti a sessantamila persone dai più importanti gruppi musicali italiani del periodo che avrebbe avuto il merito di riaprire la stagione dei concerti rock in Italia, dopo un quinquennio di violente e velleitarie contestazioni.

Nonostante la fine prematura, con la sua opera Stratos aveva già raggiunto l’inimmaginabile, facendo della vocalità la chiave per aprire le porte della percezione dell’ignoto in musica. Sufficiente per questo riascoltare i suoi pochi, intensi, album solistici – su tutti “Metrodora” e “Cantare la voce”, registrati tra il ’76 e il ’78 – fortunatamente rieditati di recente in CD dalla sua etichetta di sempre, la situazionista Cramps.

Lavori “difficili” ancora oggi, inarrivati manifesti di una sperimentazione ai limiti dell’umano fatta di grumi densi di note che aboliscono il principio stesso dell’ascolto tradizionale sconfinando nella pura ricerca fonologica. Come nell’esibizione live che regalò proprio a Cremona, accompagnato dal solo violino di Lucio Fabbri nell’ambito della mai abbastanza rimpianta rassegna “RecitarCantando”, catturata provvidenzialmente anche su vinile (l’ormai introvabile “RecitarCantando, Cremona 21-9-1978”, Polydor 5206501, 1979).

Triplofonie” definiscono gli esperti i suoi miracolosi vocalizzi a tre note, le corde vocali che si aggrovigliano generando un suono che è al contempo uno e trino, come nei misteriosi illusionismi di certi monaci buddisti zen (un raro esempio contemporaneo il cantante del gruppo mongolo-tedesco Egschiglen nella strepitosa “musica da camera” di “Gobi”, CD del 1998).

A lui, in questo nostro sventurato paese che non investe in una seria politica di promozione musicale, che lascia incendiare impunemente i suoi migliori teatri, che tassa con l’aliquota del 20% i supporti musicali considerandoli bene voluttuari, che assoggetta il 95% della musica prodotta alla logica dello sponsor e del passaggio televisivo, hanno dedicato un premio per cosiddetti gruppi “underground” (?), giunto alla quinta edizione.

Nella qualificata rassegna “Suoni e Visioni”, promossa dalla Provincia di Milano, inoltre, due ex-Area e la musicista d’avanguardia Joan La Barbara omaggeranno la sua memoria con un concerto-tributo che si preannuncia ricco di suggestioni. Ma niente più.

Troppo poco per una delle più coraggiose espressioni artistiche di questo secolo. Irritante, anche, che mediocri cantanti e musicisti, esperti manager di se stessi, a suon di plagi marchiani (Zucchero), bolse ovvietà inzuppate nella più vieta retorica poetica (Guccini, Vecchioni...), patetiche operazioni commerciali da “mercato del pesce della canzone italiana d.o.c.” (Mina e Celentano, Giorgia...), continuino a vendere milioni di dischi, nell’ignoranza dilagante della maggioranza, sempre ben disposta a scivolare beatamente sulle zuccherose scale di DO.

Cantava Demetrio Stratos in “Gioia e rivoluzione”: “Canto per te che mi vieni a sentire, suono per te che non mi vuoi capire, rido per te che non sai sognare...”.

Allora come oggi. Neppure l’ipocrisia di una riabilitazione post-mortem di massa.

 

Bisogna ripartire dal silenzio:

La città concerto. Eterofonia e conflitto nella metropoli contemporanea” (libro -Edizioni Auditorium, ITA 2004)

Eterofonia come malattia della civiltà dei consumi, in cui pervasivo e martellante nel nostro quotidiano è lo spot volgare che abbrutisce corpo (ipoacusicità come effetto a medio lungo termine) e lo spirito.

Silvia Zambrini, una laurea in Sociologia e numerose ricerche sulla diffusione della musica negli spazi pubblici, scrive un bel saggio sul tema, erede di trascorse intuizioni lasciate a metà (quelle del Pierre Shaffer de “Il paesaggio sonoro”, del Marc Augé di “Nonluoghi”…), prendendo le mosse dall’articolo 32 della Costituzione che recita:

La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività”.

Con uno stile espositivo semplice ma efficace, l’uso di una metafora calzante (il “concerto” e tutte le sue dimensioni come analogia del continuum di suoni e rumori invadenti che ci attanaglia), la studiosa espone per quadri tesi intuitive, a tratti addirittura elementari: il “concerto eterofonico” è dovunque, continuo, tanto presente da rendersi addirittura inavvertibile; ci avvolge nelle sue multiformi espressioni timbriche, stordendoci con frequenze prevalentemente acute; i suoi “strumenti” sono cellulari, radio, sirene, altoparlanti, televisioni - tutta la tecnologia al servizio del nostro tempo, tra lavoro e “shopping”.

Gli effetti di questo mostruoso “sottofondo”, facilmente deducibili: disturbi dell’attenzione, deficit nella concentrazione, perdita di senso dell’”altro da sé”, riduzione delle capacità uditive.

Colpisco alcune citazioni, davvero significative:

Una delle cose che non sopporto è appunto il sottofondo. Entrare in casa di qualcuno che fa il ricevimentino con sottofondo di musica classica lo considero un affronto a Mozart e Beethoven, senza tralasciare che disturba il colloquio. Ritengo il sottofondo una delle colpe e delle perversioni della nostra età, a meno che non si tratti di una sala da ballo ecc. Il sottofondo ha inciso sul modo di comportarsi e di parlare”

(G. Dorfles, in un incontro con l’autrice del dicembre 2002).

Non il suono, bensì il rumore rompe il silenzio e l’offende. La nostra epoca rumorosa è senza armonie, senza silenzi, senza suoni. Povera di “parole”, ricca di voci… Viviamo dispersi nella dispersione di mille cose inessenziali”

(M.F. Sciacca, “Come si vince a Waterloo”, Marzorati, Milano, 1961)

L’essere umano continua a vivere i conflitti dell’incomunicabilità e le amarezze della solitudine ma un mondo di squilli, di canzoncine e di voci robotizzate lo accompagna e lo rassicura di cose e di persone che restano ugualmente distanti” (l’autrice, pagina 77).

Quando la parola non è più unita al silenzio, non può rigenerarsi e perde sostanza. Oggi il discorso è una specie di soliloquio e, così disperso e svuotato sembra correre alla rovina. Il linguaggio odierno ha qualcosa di duro, di tenace, come se si sforzasse di sussistere nonostante la sua vacuità, e c’è anche un senso di disperazione, come se attendesse di essere condotto alla fine della sua vacuità. Questa instabilità tra tenacia e disperazione lo rende inquieto”

(M. Picard, “Il mondo del silenzio”, Edizioni di Comunità, Milano 1951)

L’autrice, quanto alla possibilità di invertire la tendenza e tornare a un mondo abitato dal silenzio in cui l’uomo possa ancora scegliere, è perentoriamente pessimista: “Indipendentemente da Internet, il “concerto” che avvolge la metropoli rimane però a senso unico e senza molte prospettive di cambiamento. Dal momento che esso tende a manifestarsi invadendo spazi fisici di comune passaggio, sarà difficile che in futuro la sua presenza possa dipendere dalle scelte di ognuno, se non attraverso qualche sofisticato meccanismo di isolamento percettivo da ogni suono dell’ambiente (cosa che è già praticabile attraverso l’utilizzo del walkman).

La scelta del silenzio, ossia la possibilità di essere esonerati dal concerto, qualsiasi sia il suo contenuto, nonché poter ascoltare i suoni che esso prevarica, rimane per il momento pura utopia” (pag. 90).

E ancora (pag. 106): “Fino a quando non si imparerà a riconoscere le colpe dei suoni, soltanto il rumore delle macchine verrà considerato disagio. Intanto il “concerto” di suoni “carini”, “melodici” e “allegri” prosegue e dilaga assieme al moltiplicarsi di attività e persone in movimento, coinvolte in uno stesso stato di torpore: un sonno senza silenzio, in cui parole e pensieri si confondono tra intrusioni invasive e conversazioni tra sconosciuti. Un sonno che non lascia riposare. Ed è curioso che questo avvenga in una società che sempre più vorrebbe indurre gli individui a rimanere svegli, pronti ad affrontare nuove sfide, scelte diverse e impreviste competizioni”.

Bisogna ripartire dal silenzio. Contro il rimbambimento mediatico di chi ci vuole programmati allo shopping spensierato.

 

Folk in Italia, vuoto a perdere.

Se l’ultimo album di Riccardo Tesi e Banditaliana, “Crinali”, pubblicato agli inizi del 2006 da Felmay, ha venduto ad oggi solo 500 copie in Italia (2000 comunque all’estero, e nel giro di poche settimane), significa che nel nostro Paese lo stato delle musiche “folk” – o come diavolo vogliamo denominarle – è prossimo al rigor mortis.

Non ci sono storie, insomma, e non è la prima volta che lo scriviamo: già nel 2003, in occasione della pubblicazione di “Folk geneticamente modificato” per l’editore Stampa Alternativa, l’avevamo sostenuto a chiare lettere, nella forse un po’ pedante elencazione dei problemi relativi al settore. Problemi, ci veniva fatto notare (Poggio in un’articolata e un po’ pretestuosamente polemica recensione apparsa su “Blow Up”), che non erano un’esclusiva del folk italiano, ma riguardavano tutta la musica in generale.

È possibile che le cose stessero in questi termini, che l’approccio settoriale della ricerca mi avesse indotto ad osservare con occhio “distorto” la condizione oggettiva delle musiche di tradizione; ma è un fatto, comunque, che gli elementi critici che condizionano la diffusione della musica in Italia incidano in proporzione maggiore sulle musiche di tradizione, da qualunque indicatore si osservi il fenomeno.

 

Mass-me(r)dia

Si guardi, a titolo d’esempio iniziale, ai mass-media dedicati al folk: pochi, quasi inesistenti. A fronte di una ventina di testate rock-pop-grunge-hip-hop ecc., l’unica rivista presente continuativamente nelle edicole è “World Music”, che oltretutto dichiara di occuparsi delle “musiche del mondo” e non solo di folk italiano. “Folk Bulletin”, il mensile “storico” attivo dall’82, continua ad essere distribuito solo in abbonamento. “L’isola non trovata”, consacrata alla musica italiana tout court, solo in poche librerie specializzate.

Quasi inesistenti i programmi radio (resiste “La Sacca del Diavolo” di Giancarlo Nostrini su Radio Popolare, per quanto a diffusione regionale…), praticamente nulla l’attenzione delle televisioni (anche satellitari): unico evento significativo degli ultimi mesi, dopo la serie di puntate estive su RAI 2 (ad orario impossibile, naturalmente) dal taglio a dir poco discutibile (= pout pourri confusivo, superficiale e acritico), è stato la proposta del lungometraggio di Luca Pastore su “I dischi del Sole” da parte del canale satellitare Planet.

L’effetto evidente è che mentre anche il telegiornale delle 20 del primo canale RAI (con milioni di italiani davanti allo schermo) dedica tre minuti all’ennesimo tour di Ligabue o alla cinquantesima uscita discografica di Mina, nessuno (nessuno!) si preoccupa di informare sull’ultima produzione davvero prestigiosa dei Calicanto o sulla prossima tournee in mezza Europa dello stesso Riccardo Tesi…

La quasi totale assenza di opportunità reali costringe gran parte dei gruppi/musicisti d’ambito folk ad un’autopromozione artigianale, dai tratti provinciali, limitata al sito internet e a qualche pubblicità sulle riviste specializzate. Il “passa parola” continua ad essere lo strumento più efficace, per quanto limitato.

Se a questo si aggiunge l’annosa questione dell’incontrollato finanziamento pubblico dell’editoria (oggetto anche recente di una dura polemica di Beppe Grillo sul suo benemerito blog), si coglie ancor di più la pesante responsabilità dell’assenza di una precisa politica culturale nazionale sulla musica.

 

E legge sulla musica? Appunto…

Responsabilità gravi che trovano l’espressione più alta nell’assenza colpevole di una legge sulla musica. Agognata da decenni, annunciata da tutti i governi del Dopoguerra, manca ancora una legge-quadro in Italia che regolamenti e promuova la diffusione della musica nel Paese. Già l’osteggiata “Riforma Moratti” aveva relegato la musica allo status di “facoltativa” nell’ordinamento scolastico, in una contingenza storica di carenza di risorse pubbliche che ha visto in questi anni sciogliere bande di paese, ridurre organici di filarmoniche, costringere teatri a chiudere bilanci in rosso…

Il nuovo governo ha introdotto nel programma solo un timido accenno alla “volontà di finanziarla”, senza per altro precisare con quali azioni politiche e legislative…

Ancora una volta, come già ai tempi degli ultimi governi di centrosinistra, staremo a vedere… anche se gli addetti ai lavori non si aspettano comunque granché.

 

Sistema discotragico

Costi ridotti di registrazione e stampaggio del supporto e facile disponibilità a basso costo di tecnologia sofisticata hanno consentito in questi anni una maggiore e più diffusa capacità di produzione sonora. Non c’è gruppo folk, anche alle prime armi, che non abbia prodotto un CD, anche semplicemente a titolo dimostrativo (il vecchio “demotape”): è di tutta evidenza che, dopo quello della promozione, l’anello mancante della catena è quello della distribuzione: dove è possibile trovare questi dischi?

La riduzione drastica della vendita al dettaglio nel negozio tradizionale (chiudono i negozi “storici” e proliferano gli ipermercati, in cui il settore musicale propone quasi esclusivamente generi e autori mainstream…), l’incremento esponenziale della vendita “on line” (amazon, e-bay…), il fenomeno dirompente del “peer-to-peer” e dell’I-Pod music hanno ulteriormente ristretto anche in Italia l’opportunità di trovare materialmente i dischi “folk” pubblicati. L’unica opportunità reale, spesso, è il contatto diretto con il gruppo (via Internet o ai concerti), l’acquista dai pochi distributori ancora attivi (Felmay, Compagnia Nuove Indie…), i rari portali di vendita (Cupa Cupa…).

E se nel mondo (più evoluto) da tempo esistono contesti imprenditoriali per implementare il settore (come ad esempio il Womad…), in Italia non esiste granché di significativo, a meno di considerare il M.E.I. un’esperienza davvero significativa in termine di “etichette indipendenti” (ma indipendenti da cosa?).

 

Spazi per fare musica

Continua ad essere difficile trovare spazi adeguati per fare musica in Italia: difficile rompere la cortina di diffidenza del sistema teatrale tradizionale, ancora appannaggio di una cultura museale (che però le Mannoia o i Fossati li invita a suonare, e a suon di migliaia di euro…); i promoter e le agenzie professionali scarseggiano e i balzelli “storici” (ENPALS, SIAE…) stritolano la musica più di quanto non facciano le compagnie petrolifere con gli automobilisti.

Negli ultimi tempi si assiste inoltre a una drastica riduzione delle risorse dedicate, che ha comportato il ridimensionamento se non addirittura la fine di esperienze significative (si veda su tutti il programma di questa estate di Folkest, uno dei maggiori festival di folk in Europa…): è diffuso il timore di non fare pubblico, di non vendere biglietti, a discapito dell’offerta artistica che imporrebbe di rischiare. I gruppi del circuito del folk continuano a suonare grazie alle (residue) disponibilità delle amministrazioni locali, anche perché i privati non sembrano credere granché nelle potenzialità commerciali di queste musiche.

 

Ma la musica e i musicisti folk?

Dalle reazioni all’uscita di “Folk Geneticamente Modificato” credo di aver comunque capito alcune cose che qui riassumo:

  1. per quanto il “settore” sia prossimo al rigor mortis, qualcuno detiene al suo interno un certo “potere” ed ha comunque interesse che la situazione resti tale (per prestigio personale, narcisismo…): dibattiti, convegni, seminari, archivi, ricerche – soprattutto d’ambito accademico – continuano a “ingrassare” pochi a discapito di molti. La “manovalanza folk” è funzionale al mantenimento dei piccoli privilegi di chi, proprio in nome del folk, continua ad avere il suo tornaconto ;

  2. il presunto “movimento folk” non solo non esiste (come la storia del “movimentismo” ha spesso dimostrato), ma sull’ideale di “movimento” qualcuno continua a fare le sue piccole fortune esercitando un controllo basato sull’attribuzione arbitraria di “patenti di legittimità” (fedeli all’antico motto “o con me o contro di me”): sono nate piccole “cordate” economiche, eventi in cui a partecipare continuano ad essere gli stessi nomi da anni, nella misera spartizione delle briciole di una torta nata già piccola…;

  3. il livello di autocritica tra gli “addetti ai lavori” è troppo basso per consentire una vera “rivoluzione” che sovverta questo apparente ordine costituito. In molti musicisti troppo spesso l’autocompiacimento di sentirsi e atteggiarsi da “musicisti tradizionali” porta a perdere il senso della propria esperienza, del proprio “ruolo” nell’oggi. Lo sdegnato “purismo” di taluni (musicisti, critici…), esercitato sulla base di una solo presunta (e illuministica) dicotomia autentico-non autentico, esclude ed emargina le esperienze più avanzate, limitando lo straordinario potenziale di queste musiche;

  4. lo scarsa attitudine a sperimentare nuove forme espressive determina la facile noiosa ripetizione del passato pregiudicando l’interesse in un pubblico “altro”, tangente, desideroso si suoni “diversi”;

  5. la scelta di forme e repertori “folk” (o para folk) continua ad essere frutto di un approccio quasi solo musicale, solo raramente “politico”, eludendo la questione di fondo che tutti i repertori folk (sia di riproposta che di nuova composizione) sono “in qualche modo” politici per definizione, esprimendo una dimensione culturale, sociale, economica, politica, psicologica di subalternità al potere. L’assenza del “politico” in gran parte dei progetti artistici del folk è davvero inquietante, probabile causa e non effetto del suo attuale destino di marginalità.

Destino segnato

Il destino di queste musiche è dunque facilmente prevedibile: sopravvivranno quelle esperienze attigue alle forme della “popular music” (rock, pop…), perché è lì che ci sono risorse e si muovono interessi veri.

Quanto al folk che si presume “autentico” (nel libro lo definivo “folk roots”), verrà progressivamente svuotato anche della sua componente “culturale” di testimonianza storica quando repertori e “portatori” si saranno esauriti e le amministrazioni locali rivolgeranno la loro attenzione altrove (già lo fanno, d’altronde…).

La stagione del folk revival sembra quindi destinata a chiudersi definitivamente a meno di imprevedibili interventi normativi a tutela del patrimonio e del settore.

Resta comunque aperto il profondo scarto culturale fra il nostro Paese e il resto dei paesi sviluppati rispetto alla riappropriazione di una storia e di una cultura, appunto, che ha caratterizzato le trasformazioni sociali ed economiche del secolo scorso.

L’assenza di un reale e deliberato investimento nella formazione scolastica e post-scolastica (conoscenza della storia e delle forme del folk, apprendimento di uno strumento, possibilità di suonare…) resta in ogni caso il limite più grande di un Paese che affida le rivendicazioni localistiche al solo federalismo “in salsa padana” (definizione di Francesco Merlo, giornalista de “La Repubblica”).

Il super-audio CD: “ma fedele a che cosa”?

"Premi su play ed eccoti nel cuore della musica", è lo slogan che lancia al pubblico il Super Audio CD (SACD), l'ultima delle meraviglie tecnologiche in circolazione. "Offre un suono così ricco, così reale che ti sembra di toccare i musicisti" - e la promessa è la stessa che Edison fece nel 1913 per convincere il pubblico della fedeltà dei suoi dischi di ceralacca.

Nuovo banco di prova la recente presentazione, nella sala Lazzari della Biblioteca Statale, delle "Quattro Stagioni" di Vivaldi, registrate nella chiesa di San Sigismondo nell'agosto dell'anno scorso da straordinari musicisti con l'utilizzo di strumenti originali che hanno fatto la storia della liuteria mondiale. La Fonè, l'etichetta toscana che ha realizzato in anteprima mondiale il lavoro - autentico vanto per la Cremona culturale - ha utilizzato una nuova tecnica di registrazione, la Direct Digital Stream (DSD), che rispetto alla più diffusa oggi (la PCM, registrata a 24-bit) vanta il pregio di eliminare tutti i sistemi-filtro, consentendo di catturare le onde sonore direttamente alla fonte nel formato del segnale da 1-bit. La Philips, che per prima ha prodotto un lettore compatibile (il SACD1000, venduto al pubblico a 4.500.000 lire circa), garantisce "una performance che lascerà senza fiato gli appassionati della musica", assicurando gli audiofili anche sulla possibilità di ascoltare i "vecchi" CD. Nella recente corsa all'"Home Theatre System"- l'idea ambiziosa di riprodurre tra le mura domestiche le condizioni tecnologiche e ambientali della performance dal vivo ("...come se stessero suonando nel soggiorno di casa vostra") -, il nuovo CD multicanale e il relativo lettore Philips sembrano piuttosto l'ultima delle strategie del mercato high tech (innovazione/differenziazione dei prodotti-loro obsolescenza-induzione di nuovi bisogni): l'effetto è quello di mandare in soffitta abitudini socio-culturali più o meno consolidate, nonostante gli inevitabili alti costi dell'home theatre.

Una strategia che, nel caso della "riproducibilità dei suoni", poggia saldamente sull'illusione dell'"alta fedeltà", confutata da tempo da autorevoli musicologi e tecnici del suono (Prato, Chion, Eisenberg). "Ma fedele a che cosa?", chiede infatti provocatoriamente Paolo Prato in "Suoni in scatola" (Costa & Nolan, 1999), dal momento che il disco, come il film, è il risultato di una complessa opera di montaggio, in cui quella dell'"autenticità" è soltanto l'ultima delle preoccupazioni? Un dibattito tutt'altro che risolto, questo, per altro ancora poco diffuso nel nostro Paese, che sembra comunque non interessare la maggioranza degli ascoltatori, cullati nell'illusorietà di un'esperienza di ascolto "fedele", "perfetto", "avvolgente", che ha piuttosto l'effetto di ridurre la realtà a "straordinario" simulacro.

 

Un paese normale.

Se il Paese in cui viviamo fosse un paese normale, le musiche cosiddette “folk” avrebbero uno spazio maggiore di quello che hanno, finanziamenti dedicati, festival internazionali, mostre-mercato; alcuni autori godrebbero di regolari passaggi radio-televisivi, verrebbero intervistati abitualmente dal Formica di turno, sarebbero ospiti da Vespa, sarebbero inseriti nelle faraoniche iniziative che si organizzano a Napoli (mentre per strada la mattanza continua...) o Roma (dove ci sono festival del cinema e quant’altro, ma ancora si muore in metropolitana…), potrebbero contare su puntuali servizi pubblicati dai principali settimanali di destra- o-sinistra-cosa cambia?, sarebbero insigniti di premi o onorificenze, avrebbero la gente in coda per prendere il biglietto, nelle scuole di ogni ordine e grado la musica tradizionale sarebbe disciplina scolastica …

Invece…

Invece:

una “cantatrice” come la siciliana Matilde Politi, una delle maggiori interpreti di canto tradizionale in attività, nessuno sa chi è (mentre anche mia nonna ormai sa chi è Carmen Consoli…);

i dischi originali di Rosa Balistreri, Otello Profazio, Matteo Salvatore, Cicco Busacca, Maria Carta, (solo per citare alcuni grandi nomi) sono irreperibili da anni e nella migliore delle ipotesi l’appassionato si deve accontentare di risibili antologie in CD che sembrano curate dal tabaccaio dell’angolo;

autori e compositori come Antonello Paliotti o Sandro Fresi, per non dire di Daniele Sepe o Riccardo Tesi, faticano anche solo a trovare concerti e si costringono, dopo anni, all’autoproduzione…;

non esiste una Legge sulla musica che dia ossigeno alle musiche tradizionali, le valorizzi e le preservi come bene pubblico, le promuova detassando tutto il sistema della produzione e distribuzione discografica, abbattendo i costi ENPALS, semplificando le norme sui pubblici spettacoli…

Quasi inesistenti le riviste specializzate di settore, spesso affogate in un facile “mondialismo” culturale, in cui tutto ciò che è “esotismo” (la famigerata world music) è bello…

 

L’Italia avrà anche dato i natali a Manzoni e Dante, a Stradivari e Paganini, ed è curioso come si sia sempre pronti a commemorare o celebrare il centenario o il bicentenario di qualsivoglia autore (pensatene uno a caso e se non è quest’anno sarà senz’altro per l’anno prossimo…) ma non a ricordare e valorizzare la nostra Storia recente.

La cultura popolare è memoria collettiva, è lavoro, lotta per i diritti, rivendicazione proletaria di spazi alternativi di costruzione di senso,

Valori che nell’Italia contemporanea sembrano chirurgicamente elusi e rimossi dalle coscienze della maggioranza. Perché mai dovremmo diventare un Paese normale quando possiamo continuare ad essere – e senza sforzo – una patetica colonia americana vittima ignara e beota delle fantasie di onnipotenza di un ristretto gruppo di cinici al potere?

 

"Su etnicu 'ncazzatu" anch'io: il Salento e l'indigestione di pizzica.

Torno dal Salento dove sono stato venti giorni per il secondo anno consecutivo. Terra splendida, rossa, gli ulivi sui lati delle strade che lo attraversano, i "pajari" e i muretti a secco che segnano le proprietà. Un mare unico, cristallino, un paesaggio esclusivo, ricco di contrasti laceranti, estremi, i monumenti del Barocco che tendono agguati a ogni curva.

Per il grande pubblico, soprattutto, da qualche anno il Salento è il palco su cui si suona la "pizzica tarantata", nei suoi numerosi piccoli grandi festival che riempiono le città di turisti. Galatina, Cutrofiano, Nardò, Torrepaduli, Copertino, Sternatia, Zollino, Martano hanno offerto tutte le sere sagre e concerti, spesso contemporaneamente. Nelle prime tre settimane d'agosto, giusto per dare un'idea della situazione, hanno suonato: Coribanti, Mediterranea Ensemble, Figli di Rocco, Pino Zimba, Alla Bua, Mascarimirì, Lu Rusciu Nosciu, Schiattacore, Lu Cannitu, Xanti Yaca, Meramenhir, Anacaton, Asteria, Sud Est, Arakne Mediterranea, Arsura, Abash, Kalashima, Ariacorte, Nui Nisciunu, Canzoniere Grecanico Salentino, Aramirè, Ghetonia, Tamburellisti di Torrepaduli, Avleddha, I Calanti.

Da tempo, inoltre, i riflettori sono puntati sul festival miliardario de La Notte della Taranta, dodici date quest'anno articolate nei comuni della Grecia Salentina, area in cui è ancora parzialmente diffuso l'uso del "griko": festival che è stato definito da più parti "il più importante organizzato oggi in Europa" e che nella serata conclusiva di Melpignano (21 agosto) si scrive in queste ore avrebbe chiamato a raccolta oltre 70.000 persone.

Un'iperbole, certo, per sostenere uno sforzo politico-amministrativo teso a fare del Salento "la California italiana" (così titolava qualche mese fa l'inserto di "La Repubblica" "Viaggi"...), ma tanto più irritante e avvilente se considerato il basso profilo della qualità dei gruppi presentati nelle serate introduttive e più complessivamente del "discorso" proposto intorno al fenomeno del cosiddetto "neotarantismo". Un disperato tentativo, piuttosto, di rappresentare come progetto di rinascita del tradizionale "geneticamente modificato" dotato di una sua legittimità quella che in realtà appare sempre più e soltanto una moda socio-culturale (?) attira-turisti - come canta Roberto Raheli degli Aramirè (pressoché l'unico gruppo salentino a proporsi con un progetto realmente alternativo) in "Mazzate pesanti", brano che da il titolo all'ultimo, bellissimo disco uscito proprio in questi giorni:

 

"Giù nel Salento abbiamo il sole e il mare bello

e con il tamburello la gente balla e suona

però questa "musica etnica" è diventata come una cartolina

di un Salento finto di Notti e di Tarante...

Sono "etnico" ma incazzato perché il tamburello

non deve diventare come un anello al naso

Battete le mani agli amministratori

che inventano i festival e le cose sembrano andar bene...

 

E allora dico: mazzate pesanti con i suoni e con i canti

mazzate pesanti per tutti e senza santi

sono "etnico" incazzato e una cosa devo dirla:

se non parliamo ora dimmi quando dobbiamo parlare...

 

(...)

Gli alberghi sulle spiagge, le notti e le tarante

sono la mercificazione di un Salento di facciata

se il Salento oggi è di moda questa moda ci consuma

roviniamo tutto adesso e dopo non ci resterà più nulla

i musicisti "etnici" si sono moltiplicati

ma se conoscono cinque brani non arrivano a sei

però ci sono i festival che richiamano gente..."

("Mazzate pesanti", testo e musica di R. Raheli, Ed. Aramirè 2004)

 

Concerti noiosi, ripetitivi, che come l'anno scorso hanno esibito un'organizzazione approssimativa, generalmente in luoghi inadatti, proponendo gruppi dalle scarse abilità tecniche, dai repertori-fotocopia (l'invariabile collanina di tradizionali "Pizzicarella", "Kali Nifta", "Lu rusciu de lu mare"...), centrati quasi esclusivamente sulla pizzica, appunto, con l'unico, dichiarato scopo di far ballare, non importa se ignari ragazzotti "poganti" o goffi padri di famiglia in cerca di emozioni a buon mercato, e, perché no?!, vendere l'ultimo CD prodotto, puntualmente disponibile sul banchetto vicino (il caso più imbarazzante, in particolare, quello del gruppo "folcloristico" dei Coribanti, il cui portavoce non ha perso l'occasione al termine di ogni brano di invitare il pubblico all'acquisto...).

Nessuna bella voce da ricordare, insomma, scarse le forme alternative alla "pizzica" presentate (quasi nessun canto di lavoro, quasi nessun stornello...), discutibili le scelte della direzione artistica di presentare gruppi "evolutivi" etno-rock (Pantarei, Nidi d'Arac, il DJ Don Francisco...). Un ossessivo, diffuso battere di tammorre e tamburelli.

Ed è a dir poco paradossale, alla fine, che tornando a casa possa ricordare soltanto (oltre ai citati Aramirè e ai Ghetonia) le convincenti, appassionanti esibizioni di tre "istituzioni" della scena folk contemporanea - Daniele Sepe, Peppe Barra e E' Zezi - tutti napoletani...

Azzardo una (facile) previsione, per concludere, che irriterà i "trombettieri" del "neotarantismo": come già per altre mode estive (chi balla più la macarena?), anche il fenomenale successo della pizzica scemerà, una volta che la massa di turisti si sarà rivolta altrove, annoiata e irritata dall'ostinata invariabilità dell'offerta ("dopo un po' la pizzica rompe i coglioni", va ripetendo nelle interviste il grande Uccio Aloisi, lui che è uno dei padri riconosciuti della "pizzica"!)

Il Salento e la sua musica (quella passata straordinaria, quella presente in gran parte da inventare...) resteranno soli, delusi e depredati, più poveri anche, perché si sarà perso tempo a ripetere stoltamente facili cliché piuttosto che a progettare e praticare nuove espressioni che nascano dalla contemporaneità.

 

Tim Buckley riscoperto...

Tim Buckley riscoperto, di questi tempi, fa una certa impressione, dopo un oblio di quasi vent'anni. Dalla morte accidentale, avvenuta nel 1975 per la fatale combinazione di alcol e droga, il catalogo del musicista è andato arricchendosi di album live, recuperi d'archivio (l'eccellente intenso "Works In Progress", edito dalla Rhino Handmade nel 1999), biografie, periodici articoli retrospettivi, un interessante sito Internet (www.timbuckley.com). Addirittura un disco tributo sul finire dello scorso anno ("Sing A Song For You", edito dalla Manifesto).

Proprio di questi giorni è una nuova uscita discografica per la Rhino Records, "Morning Glory", doppio CD antologico che tenta di descrivere per approssimazione un po' tutta la breve carriera iniziata nel 1967.

Se non fosse che di Buckley andrebbe ascoltato tutto il possibile, viene da considerare questo nuovo lavoro l'ennesimo discutibile esercizio storiografico, che conferma semmai il principale luogo comune intorno al musicista americano - l'idea romantica del menestrello faccia d'angelo, emulo di Dylan, rapito da un spirito folk nel fiore dei suoi anni. Le oltre due ore del CD, infatti, pescano a piene mani nella prima fase della sua storia trascurando quella più dolorosamente creativa (relativa ad album inarrivati quali “Lorca”, “Starsailor” e “Blue Afternoon”, gli ultimi due addirittura mai editi in CD...), quando pubblico e critica parvero voltargli le spalle per sempre.

Degli ultimi anni, poi, poco o nulla: soltanto tre brani dal controverso "Greetings From L.A." (1972), uno da "Sefronia" e la sola "Who Could Deny You" dall'ultimo "Look At The Fool", plateale autoparodia con cui Buckley aveva deciso di prestarsi alle squallide logiche del mercato FM americano. Quando, dopo aver attinto nel torbido dei "suoni negri" cantati da Federico Garcia Lorca, tra le sue maggiori fonti ispiratrici, di fronte all'inequivocabile insuccesso di vendita e pubblico aveva imboccato la strada del consapevole e irridente compromesso.

Meglio attendere, allora, l'imminente raccolta di recuperi annunciata dalla Manifesto (www.manifesto.com) con il titolo "The Dream Belongs To Me", che presenterà ben due brani completamente inediti ed otto alternate take proprio del periodo di poco antecedente la registrazione di "Sefronia", disco che per molti avrebbe segnato la sua fine artistica.

 

Cronache del DopoBomba: “I Dischi del Sole” di Luca Pastore

Il recente lungometraggio “I Dischi del Sole” diretto da Luca Pastore e prodotto dalla Fandango Film, trasmesso in questi mesi dal canale satellitare Planet, è un buon documento sulla storia e i protagonisti della “prima etichetta indipendente italiana” che, dal 1966, producendo 222 dischi tra 33 e 45giri, ha contribuito a repertoriare un ampio catalogo di brani popolari con ricerche sul campo e nuova composizione.

Un ottimo documentario, certamente doveroso, ma niente più. Nel senso che, purtroppo, il contributo si limita alla mera funzione storicistica eludendo una doverosa rilettura dell’esperienza rispetto al tempo storico in cui si espresse e – ed è certo peggio – rispetto agli anni seguenti e al tempo presente.

Il film di Pastore, al di là delle piccole trovate ad effetto (ad esempio, il giradischi a valigetta che negli angoli più disparati dell’Italia di oggi accenna ad estratti delle registrazioni originali…), resta relegato a una dimensione quasi claustrofobia, autoreferenziale, nella quale i protagonisti del tempo (in particolare Ivan Della Mea e Paolo Ciarchi) fanno a gara per rivendicare l’unicità dell’intuizione del progetto senza mai venire ai patti con i suoi limiti intrinseci, il suo destino sociale e culturale.

Anzi, la rilettura del movimento risulta quanto di più acritico si potrebbe immaginare, tanto che il regista, responsabile del montaggio di immagini e interviste, indulge in più di una sequenza nel vittimismo complessivo di un universo - certo parallelo a quello della maggioranza del tempo – che si autorappresenta come “incompreso”, “frainteso”, “troppo coraggioso e ardito” nell’immaginare la “rivoluzione del proletariato”.

Si allude certo ai rapporti con il P.C.I. di quegli anni (con Della Mea che garantisce la piena autonomia critica del “movimento”) e si suggeriscono flebili parallelismi solo visivi con la situazione socio-politica contemporanea (carrellata sui manifesti elettorali di questi mesi, sequenze sgranate su Berlusconi…) – lasciando alle accorate (e non dubitiamo in buona fede) considerazioni di De Falco (anima dei grandi E’ Zezi di Pomigliano d’Arco) uno dei rari approfondimenti socio-politici dell’intero lungometraggio.

Quisquiglie, comunque, rispetto al climax da “belli e dannati” che aleggia nel film, la polverosa nostalgia per un tempo che non è più, definitivamente tramontato, fatto di ideali e sogni, speranze e antagonismo velleitario.

Poco o nulla è detto dell’evidente, imbarazzante autoreferenzialità del progetto, della palpabile difficoltà di alcuni dei protagonisti di dialogare con altri gruppi e “movimenti”, del fatale massimalismo di certuni, dei pregiudizi e delle discriminazioni - soprattutto nel corso degli anni Ottanta, decade del riflusso, in cui sarebbe salito alla ribalta un “movimento” di giovani gruppi folk, anche “politici”.

E se è pur vero che l’ultima parola è lasciata a un cartello che ci ricorda che prima di ogni altra cosa l’esperienza dei “Dischi del Sole” è stata esperienza di vita, quel che resta del documentario, alla fine, è soprattutto la lunga suggestiva carrellata di canti e testimonianze anche autorevoli (Portelli e Bermani, su tutte), i filmati in bianco e nero degli anni Cinquanta e Sessanta, un diffuso, invadente senso di sconfitta. La stessa che si avverte nella pur piacevole festa che da venticinque anni si organizza a Pontirolo (CR).

Perché, non dimentichiamolo, avrebbero “vinto” gli altri…

 

Festa col cadavere di Jeff Buckley.

L'immaginario rock si nutre di morti, non è una novità. Vite immolatesi a trecento all'ora sull'autostrada della vita più dissoluta e sregolata. È una pasticceria in lutto, il rock: è toccato a Elvis, Jimi Hendrix, Janis Joplin, Jim Morrison, Sid Vicious, per dire solo dei nomi più venerati. Pasticcini amari da ingoiare a fatica nel rimpianto. Il rock, una Terra

Promessa per ideologie a buon mercato, un Eden dell'Eterna Giovinezza, dove la morte in corsa dell'idolo è la quadratura del cerchio. Perché se biografia rock e musica non sono fatti per durare, come è stato scritto, "lo spettacolo deve continuare" sempre, costi quel che costi. Dietro l'ammirato dolore di un attimo, il business dell'industria discografica e dei famigliari, nuovi imprenditori. Emblematici i casi recenti della famiglia Hendrix, depositaria di tutto il catalogo prontamente rimasterizzato; della vedova Lennon, che in nome del grande marito inonda i negozi di trascurabili barchette commemorative; o di Courtney Love (compagna di Kurt Cobain) in disputa con gli ex-Nirvana per la pubblicazione di inediti del gruppo... Jeff Buckley, comunque, fa caso a sé: figlio di Tim, il prodigioso sperimentatore di "Lorca" ignorato in vita e riabilitato parzialmente post-mortem, muore a 31 anni annegando nel Missisipi, dopo un disco straordinario - "Grace" - e tante belle promesse.

Mesi di prove, registrazioni in studio, ripensamenti, ritardano l'uscita del nuovo album, quando una morte stupida lo sorprende alle spalle. Da quel giorno, secondo un copione già seguito ormai troppe volte, la Columbia pubblica brani inediti, live, DVD, video, mentre l'editoria gli dedica più libri di quanti ne siano stati scritti su Stravinsky o Glen Gould. Sulle riviste specializzate, intanto, i giornalisti si contorcono periodicamente in epiteti dalle evocazioni romantiche che variano da "angelo in volo" a "ragazzo di sogno" (dal titolo di un suo pezzo), a "hipster con la testa d'angelo". Intendiamoci: Jeff Buckley è stato una delle più luminose promesse della musica giovanile degli anni novanta. Punto. Una promessa, appunto, che, in quanto tale, avrebbe potuto trovare conferma solo in ulteriori prove che non sono arrivate. Anche l'ennesimo CD dal vivo "Live all'Olympia", che si è aggiunto recentemente all'ampia discografia, attesta piuttosto la sua già riconosciuta bravura sul palco, la felice coesione del gruppo, l'intensità dell'interpretazione, la rara propensione al dialogo con il pubblico, ma non sembra opera determinante, tale da giustificarne la diffusione nei negozi e l'aumento esponenziale dei fans che affollano i numerosi siti in Rete.

Dietro la tragica vicenda e l'esiguità dell'opera, invece, sembra di scorgere la mano di una scaltra operazione di business nel nome dell'arte e dell'amore materno. Non è certamente un caso che sia proprio la madre di Jeff a detenere i diritti sul catalogo (?) e a pretendere un controllo totalizzante, addirittura ossessivo, sull'esegesi, che è contrario alla più elementare libertà d'informazione.

Caso grave passato inosservato, il blocco voluto da Mary Guibert della distribuzione di uno dei contributi più equilibrati sul musicista, il libro di Giancarlo Susanna "Jeff Buckley. A voice to hold in the dark" (Stampa Alternativa, 2000). Nell'agile volume, ricco di foto inedite e di un CD con brani mai pubblicati, la lettera di Lee Underwood, chitarrista e amico del padre Tim, rivelatrice di alcuni aspetti meno conosciuti della personalità del giovane Jeff, che sarebbe cresciuto nel risentimento verso il padre (dichiarato per altro in numerose interviste), frustrato dal suo straordinario valore artistico, plagiato da una madre oppressiva e manipolatrice. Certo, immagini impresentabili, queste, se confrontate con il ritratto angelicato rimandato costantemente dalla monolitica biografia ufficiale. Jeff, spirito libero che nell'arte ha saputo esprimere come pochi tutto se stesso, sarebbe rimasto inorridito dall'azione legale intentata dalla madre per bloccare il libro. Ne siamo certi. Non lo sono stati, al contrario, tutti coloro che in un modo o nell'altro ne stanno facendo fruttare spregiudicatamente il cadavere.

 

Un (altro) eroe italiano del nostro tempo.

Morti di Nassyria a parte, gli eroi italiani del nostro tempo continuano ad essere – a quanto pare – calciatori, cantanti, politici, personaggi televisivi.

Almeno a giudicare dall’apologetico resoconto di Gino Castaldo, pubblicato su “La Repubblica” del 5 giugno scorso, del concerto di Ligabue all’Olimpico di Roma (titolo a quattro colonne: “Ligabue, un’onda di 60mila teste”) per gli assetati di eroi del nostro tempo, eccone un altro, dunque.

Nel tripudio di aggettivazioni ispirate (“Il loro idolo è uno strano miscuglio di romanticismoe e virilità: un rude cowboy emiliano, con un fisico da mediano, che sa parlare ai cuori di tutti questi ragazzi”), nella vertigine di immagini ad effetto (“Mentre canta, lui assorbe l’energia che sprigionano i suoi fan”) e abissi della retorica (“A un cero punto un ragazzo brandisce in alto una stampella, come Enrico Toti”), Castaldo ripropone una volta di più l’immagine del giornalista rock (oltretutto attempato) sedotto dalle doti demiurgiche della rock star (pubblico osannante in delirio), distante come Orione dalla Terra dall’irriverente, barbarica, visione della scrittura rutilante e disillusa di un Lester Bangs o dal rigore letterario di un Greil Marcus, quelli sì giornalisti veri.

Ecco un esempio perfetto di giornalismo da cui tenersi alla larga:

(…) Rimango stordito, le gambe tremano, accecato dai fari che sciabolano il palco per il gran finale. È la meravigliosa, insana follia di un concerto davanti a uno stadio pieno, quella che ho sempre visto dalle tribune e che ora per la prima volta guardo dal punto di vista dei musicisti. (…) Non c’è nulla che assomiglia alla normalità in questo rito. Mi è bastato un solo pezzo per capire. (…) Guardo Ligabue, cerco di incrociare il suo sguardo. Lui ha gli occhi spalancati, il volto raggiante, un sorriso felice. Si capisce che sta cercando di assorbire al massimo l’energia che arriva dall’Olimpico in festa come se fosse l’unica occasione possibile. Vuole portarsi a casa questo tesoro di umanità. (…) Il clamore della folla arriva come una vampata calda, una scossa di adrenalina che ti entra nelle ossa e sale fino alla cima dei capelli. La pelle si arriccia di brividi. Ma Ligabue rimane sorprendentemente calmo, a volte cammina lentamente, se la gode in pieno, gira lo sguardo intorno come se volesse cogliere quegli sguardi uno a uno e rispondere a ognuno. (…) Alla fine scendo anche io con i musicisti che mi danno pacche sulle spalle. “Allora?” mi chiedono. Allora adesso ho capito meglio l’impagabile fortuna dei grandi musicisti. Queste emozioni sono merce rara, rarissima, il frutto dell’amore di sessantamila cuori che battono”.

Un descrittivismo degno di riviste tipo “Visto” o “Chi”... Da far venire il vomito.

Il “fenomeno Ligabue”, d’altronde, meriterebbe ben altre analisi, una volta ammesso – oltre l’innegabile successo di pubblico e vendite di cui gode (può, per una volta, non essere considerato un indicatore del “valore artistico”, questo?) - che il cantante di Correggio non è che uno degli ultimi epigoni del rock americano di importazione, con il limite poetico che i suoi temi sono confinati in un immaginario asfittico, almeno per noi che in pianura padana siamo nati e cresciuti e che “tra la via Emilia e il West” abbiamo preferito sognare di perderci nel West (mitico, ideale, rock) dei Guthrie e dei Dylan, piuttosto che rimanere imprigionati tra i tavoli e le sedie del “Bar Mario” (dove comunque ci è sempre piaciuto andare a bere e mangiare…).

L’Italia è questa, d’altro canto, non c’è molto di che illudersi. A uno Springsteen che fieramente riprende le fila della cultura popolare americana partendo da uno dei suoi grandi padri (Pete Seeger), il nostro Paese risponde non solo con l’insulso rock intimista di Ligabue (non a caso il brano più ascoltato dell’ultimo album è il furbesco “Le donne lo sanno”, volutamente ambiguo e piacione…) o il finto antagonismo rock di un Vasco Rossi, ma rimuovendo beceramente le sue radici popolari, le sue origini più autentiche (e, sotto questa luce, l’operazione De Gregori-Marini a suo tempo da noi aspramente criticata assume una valore sempre più alto con il passare degli anni…).

Il rock è fenomeno internazionale, è vero, un universo sterminato in cui tutto è lecito in termini di creazione artistica, in cui l’ars manipolatoria delle forme è uno dei suoi elementi genetici imprescindibili. Ma se può esistere ancora una “critica rock”, se ha ancora una sua difendibile ragione d’essere, questa è riposta nella sua totale autonomia dal mercato, nella sua assoluta libertà di espressione. È davvero intollerabile l’opera di chi gioca a confondere significati e valori prestandosi alle logiche della discografia, alimentando la mitografia di un eroismo da rotocalco e da suoneria di cellulare.

Il paginone dedicato a Ligabue, sotto questo aspetto, è un monumento alla “morte del rock” più volte annunciata, non la sua celebrazione.

(Si consoli Castaldo, comunque: Giovanni Minoli, la stessa sera su RAI Tre, è riuscito persino a fare di peggio con il santino dedicato a Francesco Totti nel programma “La storia siamo noi”… Tra filmetti amatoriali, canzoni di De Gregori (quella, immancabile quando si tratta di calcio, che “non è da questi particolari che si giudica un giocatore”…), interviste a Sabina Ferilli (“È il numero uno!”, il concetto più chiaro) e Ilary Blasi, si è officiata l’esegesi di un calciatore salito alla ribalta internazionale più per gli sputi agli avversari che per le doti tecniche e inventive… più per la popolarità tra i borgatari de roma che per la sobrietà dello stile e la serietà).

 

Ma chi balla veramente la pizzica-pizzica? Dubbi dal Salento.

(…) Le racconto che dal punto di vista classico il tarantismo è finito, che Cristina è tornata quest’anno a Galatina e che si è sviluppato un vigoroso fenomeno culturale e musicale intorno al fenomeno, che ci sono giovani che si riuniscono per ballare la pizzica-pizzica”

(Luigi Chiratti, “Morso d’amore. Viaggio nel tarantismo talentino” (Capone Editore - Edizioni Kurumuny, Lecce 2006, pag. 113)

 

Torniamo da una breve vacanza in Salento, terra straordinaria. Nulla di nuovo sotto il sole, apparentemente: mare pulitissimo, strade e viabilità pessime, cibo sublime, sporcizia diffusa, confusione e disorganizzazione, pugliesi accoglienti e generosi come raramente ci è capitato di conoscere. Una realtà altamente contraddittoria, forse proprio per questo affascinante per noi che viviamo nel presunto benessere iperconsumistico del nord lombardo.

Quest’anno, diversamente che in passato, abbiamo deciso di partecipare solo ad alcune sagre e feste di paese allo scopo di verificare l’effettivo radicamento della pizzica-pizzica (o pizzica-tarantata) tra le genti del Salento: non concerti organizzati o festival, si badi, non kermesse medianiche pluridecorate tipo Notte della Taranta o festival tradizionali del genere di “Pizzica in Festa” (si tiene a Sternatia), ma semplici sagre di paese a carattere, come si usa dire di questi tempi, enogastronomico. Osservando, quindi, non le dinamiche classiche del turista occasionale o dell’appassionato di musica popolare – che partecipa all’”evento” per semplice curiosità o con il preciso scopo di ‘scatenarsi’ nel ballo munito di tamburello, ma la persona del posto, il salentino DOC, chi vive ogni giorno nell’area oggetto delle storiche ricerche di De Martino, Carpitella o delle più recenti raccolte di registrazioni delle edizioni Aramirè o Kurumuny.

Risultato? Forse alcuni non si sorprenderanno, ma abbiamo avuto conferma dell’impressione già ricavata qualche anno fa che la pizzica-pizzica è un fenomeno ormai quasi esclusivamente di moda, tutt’altro che radicato nella pratica degli abitanti del Salento. Attrazione per turisti, elemento promotore dell’economia locale che accoglie l’assalto agostano d

Proprio come è accaduto nel tempo anche nel nord dell’Italia, in cui la pratica del ballo tradizionale (contadino, non professionale) è stata sostituita dalla dimensione della balera e del liscio (urbano, professionale), anche in Salento la pizzica si ascolta seduti, partecipando da spettatori passivi all’evento-concerto, come a un qualunque altro spettacolo organizzato.

Tra le diverse feste e sagre a cui abbiamo partecipato, due esempi a loro modo emblematici:

Domenica, 29 luglio, ad Alezio, si è tenuta la festa patronale “S. Maria della Lizza”, organizzata dal Comitato locale del paese: ai lati di un bel mercatino dell’usato, tra saltimbanchi e clown, sul sagrato della chiesa del paese medievale hanno suonato i TRIBAL SOUND SALENTINO, gruppo di recente formazione. Prevalentemente pizziche e brani della tradizione come “Lu Rusciu de lu mare” o “Pizzicarella” già ascoltati mille volte. Il gruppo non era niente male: incitava dal palco la gente in dialetto stretto, quasi incomprensibile per noi. La persone presenti, quasi esclusivamente locali, erano sedute di fronte su sedie in plastica: saranno state in trecento, occhio e croce, prevalentemente adulti e anziani, che non battevano neanche le mani, nonostante i continui inviti dei musicisti.

Abbiamo chiesto a un anziano seduto vicino a noi: “Scusi, ma perché non balla nessuno, stasera?”. Ci ha guardati stupito e ha risposto: “Qui non balla mai nessuno. Si ascolta e basta…”. Insistiamo: “Ma i giovani…?!”. “Ci stanno i giovani, ma non sono interessati più a queste cose…”.

Per quanti sforzi facciano i musicisti, per quanta ritmica mettano nella loro musica (ci sono almeno tre suonatori di tamburello, una chitarra acustica, percussioni, batteria e basso elettrico), nessuno sembra intenzionato a muoversi. Tutti seduti ad ascoltare il concerto, come fosse un evento ‘altro’ dalla vita di tutti i giorni, dalle stesse pratiche del tempo libero, del divertimento della comunità…

Il giorno prima, sabato 28 luglio, nella tradizionale Sagra dell’Uva Cardinal (giunta alla 27sima edizione) a Guagnano era di scena Uccio Aloisi e il suo Gruppu. Nella Villa comunale il paese festeggiava una due giorni consacrata al prodotto locale, l’uva appunto. Nell’ampia area numerosi stand con cibi tradizionali (pittule, lampascioni, friselle…) ), vino, uva, frutta. Alle 22 circa, quando la festa era ormai gremita (l’impressione era che comunque i turisti fossero pochi), saliva sul palco Uccio e attaccava una serie di stornelli e pizziche invitando, con il suo caratteristico modo, la gente a ballare e battere le mani. Il pubblico che si accalcava numeroso sotto il palco, però, inizialmente non sembrava intenzionato a ballare. Così Uccio invitava gli organizzatori a spostare le transenne di sicurezza poste sul davanti del palco per consentire alla gente di avvicinarsi a ballare. Ancora nulla. Poi, a un certo punto, dopo che alcuni bambini cominciavano a muoversi a ritmo di musica, e Uccio aveva appena finito di imprecare contro un faretto colorato che lo infastidiva mentre cantava, alcuni turisti, probabilmente fiorentini, si avvicinavano timidamente e iniziavano a ballare: saranno stati tre o quattro in tutto, attorniati da almeno duecento persone immobili, che faticavano anche solo a battere le mani a ritmo.

Abbiamo chiesto a una guardia forestale, sui trentacinque anni: “Ma perché non balla nessuno, qui?”. Lui: “La gente è venuta per la festa dell’uva… mangiano, bevono, parlano…”. “Ma con Uccio Aloisi, che è un’istituzione da queste parti, pensavamo che avrebbero ballato in tanti la pizzica!”. “È una cosa per i turisti”, risponde. “Quelli che ballano sono turisti…”.

In altre feste o sagre dove la presenza era per lo più di ‘locali’, abbiamo registrato le stesse reazioni della gente. La musica come evento marginale, ‘altro’, non significativo. Il ballo come pratica accessoria, non vissuta. Da giovani e vecchi, indifferentemente.

Ma chi balla veramente la pizzica-pizzica in Salento, allora?

 

 

3. Innamoramenti.

 

Jaco, il più grande bassista del mondo.

Bill Milkowski, uno dei più conosciuti critici musicali americani, è l'autore della prima biografia su Jaco Pastorius, genio sprecato del basso elettrico jazz. Lo racconta in un libro avvincente uscito in America cinque anni fa e tradotto da Stampa Alternativa nell'ormai classica collana "Jazz People", la sola a mantenere una costante attenzione alla storia e alle biografie del genere. Nella "Straordinaria e tragica vita del più grande bassista del mondo" (pagg. 155, 12,39 euro), questo il titolo, si racconta delle sregolatezze, del drammatico autolesionismo, dell'inguaribile depressione che trascinarono Jaco Pastorius nel baratro di una vita dissoluta, irrimediabilmente isolata dalla realtà, il cui unico sbocco possibile, a soli 36 anni, fu una morte sciocca, casuale ma prevedibile. Secondo un cliché che ricorre di frequente nel jazz, Pastorius era diventato bassista quasi per caso, dopo essere stato una promessa del baseball.

Nato nel 1951 vicino a Filadelfia, figlio primogenito, aveva assistito impotente allo sgretolamento del rapporto fra i genitori, vivendo come una ferita aperta la loro separazione. Pur nel subitaneo, esplosivo successo di popolarità, dovuto prevalentemente alle sue pirotecniche esibizioni con i Weather Report di Joe Zawinul, giganti della fusion, incapace di far fronte alle pressioni della discografia e alle responsabilità della vita familiare (due i matrimoni falliti), Jaco aveva preso a bere e a drogarsi con ferocia, sempre più incapace di garantire le brillanti, inimitabili performance che l'avevano reso più volte "artista dell'anno" sulle principali riviste specializzate d'America.

Nella documentata biografia di Milkowski, dalla scrittura agile e coinvolgente, gli aneddoti si sprecano, andando ad aggiungersi alle innumerevoli voci che già in vita avevano nutrito la leggenda del Pastorius "artista maledetto". Ma nel ritratto di questa personalità complessa, eccentrica, sfuggente alle semplicistiche interpretazioni psicologiche di rito, squarci illuminanti sono riservati all'analisi dello straordinario genio creativo che ha reso Pastorius il leggendario bassista che merita di essere al di là della biografia. Le innumerevoli voci di amici e colleghi, raccolte in coda al libro, d'altronde, lo confermano.

Come i grandi artisti rivoluzionari, Pastorius ha modificato radicalmente le conoscenze sul basso elettrico aprendo la strada a un suo utilizzo innovativo, spregiudicato, facendone lo strumento leader quando era storicamente relegato alla mera funzione ritmica. Uomo juke-box, Pastorius incendiava le platee con esibizioni aggressive, figlie di un'estetica punk, coniugando generi e stili apparentemente inconciliabili (funky, R&B, psichedelia, fusion...) , miscelati in un groove trascinante fatto di velocità, imprevedibilità, fervida immaginazione tecnica. Come suggerisce Milkowski, sufficiente ascoltare le sue numerose registrazioni (consigliato "Word of Mouth" dell''81). L'introduzione a "The Dry Cleaner", pezzo di Joni Mitchell in "Mingus" del '79, da restare senza fiato.

 

78 giri e grammofoni: un antidoto alla volatilità del suono (e all’aggressività tecnologica).

A girare per mercatini dell’antiquariato (meglio se del “trovarobato”) si possono trovare ancora 78 giri buttati lì, per terra, in ceste o scatole di cartone sfondate. Piccoli tesori dimenticati, celano canzoni sconosciute, mai ascoltate. A 5-8 euro, in genere, è possibile portarsi a casa un 78 giri di quelli, in buone condizioni, con busta originale. Buste color carta da macellaio o colori pastello con le scritte che invitano all’acquisto di altri titoli della casa o consigliano l’uso di un particolare grammofono. Sulla busta del mio ultimo “ritrovamento” – un disco di Maurice Chevalier with Jack Hylton & His Orchestra (“Medley (part 1 e 2)”, His Master’s Voice B 3686, anno di pubblicazione non dichiarato) – la Voce del Padrone inglese, ad esempio, da un lato consiglia l’ascolto del “Carnevale – Suite per balletto Op. 9” di Schumann, eseguita dalla London Philarmomic Orchestra diretta da Eugene Goossens; dall’altro, l’uso dei raccoglitori per dischi prodotti dalla casa, “which are strong and neat in appearance”.

Sono sopravvissuti nel tempo, dimenticati in chissà quali soffitte. Eppure, con un grammofono a valigetta anni Cinquanta o, meglio, di legno a tromba (il mio, un modello His Master’s Voice degli anni ’40 in rovere massello non dispone della tromba e il volume del suono è regolato dall’apertura di due sportelli frontali), li si può ancora ascoltare con infinito piacere.

Di tanto in tanto mi metto comodo, il grammofono di fronte, e mi diverto a fare una “seduta d’ascolto” con alcuni dei dischi che ho raccolto negli anni: titoli di Roy Hamilton o dei Revelers, canzoni di Natalino Otto o Beniamino Gigli. Uno dei miei preferiti di sempre è “Tuxedo Rag” della Chris Barber’s Jazz Band (Pye Nixa NJS.2004, inciso presumibilmente negli anni Cinquanta), che trovai per 1 euro in un mercatino del parmense.

Hanno un suono diverso, questi dischi, se si riesce a soprassedere al fruscio di sottofondo e alla dinamica un po’ meccanica dei suoni. Macchine del tempo, sono un universo a parte, demodé, forse un po’ dandy, un antidoto all’aggressività della politica di chi vorrebbe ridurre il suono a un MP3 da scaricare a pagamento dalla Rete e da ascoltare su un I-Pod (ma, al momento almeno, in l’Italia pare che solo il 9% “scarichi” dalla rete…) .

I 78 giri sono pesanti, fragili, emanano un profumo unico (polvere + muffa + carta invecchiata); è come se contenessero l’essenza della Storia, inducono a ricerche insperate, scoperte inattese, privi come sono, in genere, di informazioni: il disco di Chevalier con l’orchestra di Jack Hylton, ad esempio, è repertoriato nell’Archivio della Lancaster University (https://libweb.lancs.ac.uk/hylton/), che ha una sezione espressamente dedicata al “bandleader” (1892-1965). Nel sito del collezionista Pete Faint (https://www.petefaint.co.uk/jackhylton/music.htm), invece, oltre a pagine dedicate alla biografia del musicista, risulta che il medley è stato registrato il 28-11-1930 ed è addirittura possibile scaricarlo gratuitamente in formato MP3.

Ascoltare un settantotto giri (3 minuti per lato) impone un ripensamento del proprio spazio-tempo: una volta posato sul grammofono, ci si deve alzare quasi subito per cambiare lato; si è costretti a sostituire la puntina dopo due –quattro ascolti, per evitare che deteriorandosi finisca per rovinare i solchi del disco… Per avviare il meccanismo, naturalmente, si deve caricarlo con una manovella…

Anche Robert Crumb, inarrivato disegnatore della controcultura americana, oggi sessantaduenne emigrato nel sud della Francia con moglie e figlia, ha dedicato alcune tavole al piacere di raccogliere e poter riascoltare questi residui del tempo andato, “fragili reperti, modesti depositari di sconosciuti poteri magici”, come li definisce. In un breve apologo del 1989 sulla sua condizione privilegiata di artista (titolo: “Sono grato! Sono grato!”, pag. 61 della raccolta “Io e le donne”, editrice Mare Nero, Roma 2002), si compiace del piacere di scegliere nella sua sterminata collezione (pare di oltre tremila dischi) un titolo e di ascoltarselo comodamente adagiato in poltrona..

Un piacere analogo a quello di chi scopre un disco frugando in uno scatolone sotto il banchetto di un mercatino, è quello che trasmettono le prime pagine del libro straordinario di Evan Eisenberg, “L’angelo con il fonografo” (Instar Libri, Torino 1997), in cui l’autore racconta il miracoloso incontro con un collezionista di vinile che aveva stipato la sua casa semi diroccata, senza luce né gas…

 

Fred Neil - "Tear down the walls" + "Bleecker and Macdougal"

Erano dischi per lo più irreperibili, se non sul mercato del collezionismo in vinile. Oggi la storica Elektra Records, nella collana "Classics", venduta a prezzo medio (L. 26.000 circa), li ripropone rimasterizzati in formato CD: quelli di Tom Rush, David Blue, Tom Paxton, Paul Batterfield Blues Band (storico il secondo "East West"!), Tim Buckley, Phil Ochs sono vere e proprie perle di folk-blues che raccontano l'affascinante maremoto di un periodo - la seconda metà degli anni sessanta - il cui epicentro era il Greenwich Village, crocevia luminoso dell'America beat.

Tra questi titoli, rari e preziosi, i primi due album di Fred Neil, pubblicati nel 1964 e nel 1965, sono diamanti grezzi, disarmanti nella loro intensa semplicità: ventisei titoli in tutto, chitarra e voce, in cui il cantautore (nel primo disco in collaborazione con Vince Martin) propone folk ballad e blues scheletrici, dai testi essenziali, accompagnati con una voce rotonda dal registro grave, penetrante e ispirata che sarà presa a modello dagli stessi, straordinari Tim Hardin e Tim Buckley. Nel '70, dopo il folgorante successo del single "Everybody's talkin'" (cantata, si ricorderà, da Harry Nilsson a commento delle immagini del cult-film "Un uomo da marciapiede"), Neil si era ritirato dalle scene in sordina, misteriosamente, alimentando da quel giorno una piccola, affascinante leggenda, mai tradita da ripensamenti o dalle abituali speculazioni della discografia. Qualche raro concerto dal vivo, la vita appartata in Florida, ad occuparsi degli amati delfini che aveva cantato nella toccante "The dolphins". La morte prematura l'ha sorpreso ancora là, agli inizi di quest'anno.

 

I molteplici Bob Dylan di "Love and Theft" .

È probabile che da qualche tempo alla Columbia abbiano sostituito Bob Dylan con un suo simulacro. Che nell'era del digitale, del virtuale, del simulato, di Dylan ci rimanga l'ombra seducente dell'icona che è diventato. Che il medium qual è stato si sia fatto messaggio. Di Dylan, oggi, rimane la sacra sindone vocale di un mito sopravvissuto a se stesso. Un'allusione, forse, un miraggio sahariano la foto in bianco e nero di "Love and Theft" (CD – Columbia, 2001), l'ultima delle sue fatiche in studio a quattro anni dal pluridecorato "Time Out Of Mind". E c'è già chi si contorce in acrobatiche apologie e nostalgici dejà vu, cavalierati e santini alla memoria, come se di Dylan ne fosse esistito uno solo, "autentico", immortale. Ma il Dylan di queste nuove (?) dodici canzoni non è il caustico killer del '65-'67, né l'ebreo confuso in attesa del Messia ("Save", "Slow Train Coming"). È solo un nobile countryman che si diletta a sfogliare con i nipotini l'avvincente album di famiglia: scatti rubati a "Nashville Skyline", la svolta country-blues del 1968 che spiazzò ancora una volta pubblico e critica; lettere ammuffite dal cassetto polveroso di "John Wesley Harding", suo seguito. Attimi imprevisti di vaudeville, scanzonati divertissement old-timey ("Floater"), sussulti rock'n'roll ("Summer Days"). Addirittura un inconsueto jazz-blues, tra "Blue Moon" e "My baby just cares for me" ("Bye and Bye").

L'hanno sostituito, Bob Dylan, e in molti non se ne sono accorti. Lui, chiunque sia oggi, continua a suonare la sua onesta, infaticabile scommessa con il tempo, facendosi beffe dei tanti (troppi?) Dylan che è stato.

 

Perle ai porci. Gelato ai corvi.

Sulle relazioni tra musica e pittura nell’opera di Captain Beefheart.

Chi ha amato la musica di Captain Beefheart non può non rammaricarsi, oggi, del fatto che egli abbia deciso di abbandonare (pare di capire definitivamente) le scene musicali per dedicarsi a tempo pieno alla pittura.

La critica specializzata Rock, cui è rimasto il mesto esercizio del tributo alla carriera, tenta arditamente di stabilire correlazioni tra la musica di ieri e la pittura di oggi, con un atto dal significato marcatamente “riparatore” che, ponendo implicitamente continuità diacronica, non ha alcun fondamento logico e culturale nell’esperienza dell’artista californiano (cfr. anche recentemente la rivista francese “Best” dell’agosto 1993).1

Beefheart, d’altronde, ha lucidamente sgombrato il campo da ogni equivoco dichiarando: “Preferisco la pittura alla musica perché posso passare un giorno intero su una tela e poi cancellarla. Dipingerci sopra è una bella sensazione”. 2

 

La (S)Fortuna critica

Il musicista, nel corso di diverse interviste rilasciate in questi ultimi anni, ha disseminato dettagli ed indizi sul suo fare musica che ricomposti oggi in un quadro coerente ed organico non possono che suggerirci indicazioni illuminanti sul suo stile di approccio alla materia sonora.

Analizzando le strutture dei brani composti, anche ad un ascolto superficiale, ci comunicano un senso generale di complessità. L’utilizzo a funzione solistica delle due chitarre elettriche e del basso, sganciati definitivamente dal loro tradizionale ruolo di accompagnamento e in intrecci contrappuntistici; i pattern ritmici variabili della batteria (raramente improntati sui classici ¾ e 4/4 del Rock); l’uso della voce, solo raramente melodico, il più delle volte recitativo, sono gli ingredienti superficiali di questa ricetta compositiva che assume le sue matrici culturali nel blues.

Cogliendo le implicazioni strutturali e ideologiche del free jazz (Albert Ayler, Ornette Coleman, Eric Dolphy in particolare) della seconda metà degli anni Sessanta, Beefheart ha liberato gli strumenti musicali dalle loro funzioni stereotipe del Rock e del Blues per inaugurare una forma espressiva completamente nuova, soltanto in apparenza libera, perché vincola da rigide regole compositive predeterminate.3

Gary Lucas, chitarrista nelle ultime formazioni della Magic Band, a proposito delle modalità compositive di “Doc at the Radar Station”, penultimo disco del musicista: “Esce tutto dalla sua testa. I musicisti non suonano neanche una nota che non sia stata precedentemente scritta”.4 Affermazione che conferma un approccio ai suoni di natura accademica che non ha riscontri nella cultura della popular music e che la critica specializzata ha stentato a rinvenire, lasciando l’ascoltatore ad un approccio meramente “impressivo” alla musica, senza offrire alcuna chiave interpretativa della forma sonora. L’ascoltatore, mi si passi la paradossale analogia, è come si fosse trovato di fronte alla Gioconda coi baffi di Marcel Duchamp (“L.H.H.Q.” del 1932) ignorando chi fosse la Gioconda.

Significativo, a questo proposito, il commento di un illustre critico americano che all’ascolto di “Licks my decals off, baby” (Warner Bros. 1970) scriveva: “Inside Captain Beefheart is a corny old ballad-singing crooner, aching to sing those some old songs of sorrow and devotion. But he knows that kind of staff doesn’t have any effect anymore. Once people used to feel their hearts turn when Sinatra sang, but now they just let his voice wash over them; any effects he might have are just conditioned responses. (...) So, using a technique already familiar in filmaking (Andy Wahrol), jazz (Albert Ayler) and painting (Francis Bacon), Captain Beefheart has chosen to reach us through ugliness. He knows that most of us will turn him off, but hopes that the few who stay o listen will get more from him than do the millions who listen (but doesn’t hear, maybe) those big bold stars...”5.

Gillet, cui non mancava certo la competenza per interpretare semiologicamente quella musica, rinuncia in partenza ad una corretta analisi del prodotto sonoro affidandosi alla categoria “estesica”6 della “bruttezza”, limitandosi all’impressione ricavata da un ascolto soltanto superficiale e privo di competenze specifiche.

 

E’ perciò inevitabile che, con il trascorrere degli anni, il corpus dell’opera beefheartiana abbia assunto un significato e un valore così fortemente politici. Rimasta inspiegata, benché comprensibile, negli scaffali di un negozio di dischi, la musica di Beefheart ha mantenuto intatta la sua dirompente forza eversiva nei confronti del suono consonante dei sottogeneri della popular music (Rock, Pop...). Esempio di bruttezza, di freakerie musicale e niente più, appunto, cui è stato negato il grande valore musicologico.

Così, come stupirsi di uno sfogo personale di Beefheart che, proprio in procinto di abbandonare la scena musicale, dichiarava di non essere mai stato compreso seriamente dalla critica e dal pubblico?

Per tutta la vita mi hanno ripetuto che ero un genio. Hanno detto lo stesso delle mie sculture, battendomi la mano sulle spalle... Ma intanto hanno anche insegnato al pubblico che la mia musica è troppo difficile da ascoltare...”7.

 

Dipingere è cancellare

Beefheart abbandona così la musica per diventare quel Van Vliet che aveva convissuto, ma in condizione di chiara subalternità (alcuni quadri del periodo sono riprodotti sulle copertine dei dischi, quasi a volerne illustrare il contenuto), con il musicista fino a quel momento.

La frattura che viene a instaurarsi tra una musica dalla rigorosa e controllata forma compositiva e il nuovo medium, appare oggi concettualmente inconciliabile.

Quando il “ritrovato” Van Vliet dichiara di preferire la pittura alla musica per la ragione più sopra esposta, l’ex musicista ci offre alcune considerazioni implicite sulle relazioni intercorrenti tra i due medium e sui rispettivi processi di significazione. Ammette, anzitutto, che esiste una divergenza fra la sua musica e la pittura sia da un punto di vista tecnico che, soprattutto, riproduttivo.

Se la musica presupponeva conoscenze specifiche in composizione, implicava la capacità di saper utilizzare tecnologie intermediatrici per tradurre le idee musicali in suoni coerenti, dotati cioè di una loro logica interna, che pure fosse comunicativa, la tela diventa come per reazione una sorta di lavagna cancellabile ad oltranza, almeno fino al deterioramento della materia.

Dipingere e cancellare, allora, diventano il processo attraverso cui si esaurisce la creazione, nell’atto stesso del suo farsi, e che non implica necessariamente un pubblico. “In realtà”, ha dichiarato nel 1988, “quello che cerco di fare è rivelare me stesso sulla tela, per congelare il momento in modo che chi osserva possa vedere quello che ho congelato. Cerco di mettere su tela quello che accade dentro di me in una natura morta di quel preciso momento”8.

Ma dipingere “è” cancellare, anche, per le potenzialità intrinseche offerte da tele e colori. Come se la tela diventasse un nastro magnetico cancellabile a piacimento. Senza alcuna preoccupazione per la forma conclusiva, definitiva, necessaria e predeterminata in ogni brano musicale – anche quello che fosse fondato sulla più incontrollata free-form.

Allora, se quella registrata da Captain Beefheart ci si impone criticamente, per utilizzare una categoria in uso nella storia dell’arte, come “musica concettuale”, la pittura si fa invece “retinica” e istintiva, quasi per diretta e interconnessa reazione, assumendo un forte impatto cromatico e segnico. Come se quelle idee, un tempo implose in forme rigide nella musica, fossero oggi lasciate esplodere selvaggiamente sulla tela, con un’incompiutezza, un’infinitezza che prima era negata dalla natura del medium e dalle logiche di un mercato potenziale di ascoltatori.

Come se le idee-suoni, inscatolate in rigidi significanti rimasti inesplorati ai più, diventassero le idee-segni liberate, alleggerite dai pesanti processi tecnico-compositivi e dall’urgenza di dove, comunque, essere significative. Di doversi conquistare, a viva forza, un pubblico9.

Con la forte vis comica di continuare probabilmente a comporre suoni solo per se stesso, magari registrandoli su cassetta per cancellarli con nuovi suoni il giorno dopo.

L’unica cosa che ferma un compositore dal pensare alla musica è il rigor mortis”, ha detto il Capitano, “ed io continuo a comporre tutto il tempo”10.

 

Note:

  1. non è sufficiente ritenere esistano correlazioni dirette tra musica e pittura solo perché il musicista ha sempre amato utilizzare sue opere come copertine di dischi;

  2. da “Captain Beefheart ha 50 anni”, in “Rockstar” n. 126 (marzo 1991), intervista di Jim Greer;

  3. una delle rare interpretazioni musicologiche della produzione di Captain Beefheart è riscontrabile in “The great rock solos of our time”, apparso a firma Fred Frith su “New Musical Express” nell’aprile 1973;

  4. da “Il corvo e la volpe”, di Dali De Clair, “Rockstar” n. 4 (gennaio 1981);

  5. recensione di Charlie Gillet in “Rolling Stones” del 1970;

  6. cfr. la tripartizione proposta dal francese J. Nattiez in

  7. da “Rockstar” n. 4 (gennaio 1981), cit.;

  8. da “Captain Beefheart’s brush with art” di Rip Rense, “San Francisco Examiner” del 25 novembre 1988;

  9. il pittore dipinge in una dimensione che non presuppone il meccanismo della riproducibilità tecnica dell’opera (cfr. Walter Benjamin in “L’arte nell’era della sua riproducibilità”, Einaudi 1936) ed è conseguentemente liberato dall’urgenza di ottenere un consenso di pubblico;

  10. in “New Musical Express” del 6 agosto 1988.

(saggio pubblicato in inglese sul catalogo di opere di Van Vliet “Stan up to be discontinued”, Cantz 1993. Questa versione in italiano, inedita, è un riarrangiamento del novembre 2003)

 

Piero Ciampi - "Andare camminare lavorare e altri discorsi"

"Questo è un miserere senza lacrime/questo è il miserere di chi non ha più illusioni", canta Piero Ciampi in uno dei brani più autobiografici del suo repertorio, "Ha tutte le carte in regola", tra il miglior Leonard Cohen e la chanson francaise d'autore.

La BMG ha recentemente ristampato a basso costo (solo 12.900 lire nella collana "Gli Indimenticabili") uno dei suoi dischi più riusciti, "Andare camminare lavorare e altri discorsi" (RCA 1975), l'ultimo registrato qualche anno prima di morire a soli 46 anni, vittima di un cancro alla gola.

Una vita ai limiti, quella di Ciampi, tra eccessi d'alcol e amori sbriciolati, la passione per i cavalli e l'anarchia, i vagabondaggi per l'Europa, la fatale attrazione per gli emarginati, l'inconcludente idealismo, la poesia sregolata. Un viaggio al termine della notte descritto dall'incedere dolente di "Il Vino", ballata che è più di una bruciante filosofia: "Com'è bello il vino rosso/rosso, rosso, rosso/bianco è il mattino/sono dentro a un fosso/e in mezzo all'acqua sporca/godo queste stelle/questa vita è corta/è scritto sulla pelle.../Ma com'è bello il vino/bianco, bianco, bianco/ rosso è il mattino/sento male a un fianco/ Vita, vita, vita/sera dopo sera/fuggi tra le dita/spera, mira, spera...".

Con Luigi Tenco e il Gino Paoli degli esordi, suoi amici di quei giorni, Ciampi è stato una delle più alte espressioni della canzone italiana - si ammette in questi giorni di parziale riabilitazione critica. La riedizione dell'esiguo catalogo, un premio per emergenti a lui intitolato, una biografia - gli scarni tributi al suo genio scomodo. Ignorato in vita per le insensate sregolatezze e l'irridente rapporto con l'industria discografica, Ciampi rivive oggi nella naiveté della poesia di Paolo Conte (accecanti i rimandi in "Il merlo", a conclusione del disco) e nelle canzoni a manovella di Vinicio Capossela, eredi di un tempo in cui l'esistenza era apparsa stretta come le dita dei piedi in una scarpa, eppur così traboccante d'ebbrezza da ingoiare tutto. Anche la vita stessa.

 

I R.E.M. di "Reveal", maturo ritorno alla vita.

Chi ha seguito i REM (www.remhq.com) negli ultimi vent'anni, cullato dal registro dolente delle loro composizioni pop-rock, sedotto dalla timbrica unica della voce del leader Michael Stipe, avvinto dalla traboccante poeticità dei testi, resterà piacevolmente sorpreso da questo inatteso cambio di scenario.

"Reveal", registrato alla fine dello scorso anno tra Dublino, Athens, Vancouver e Miami con la collaborazione di numerosi musicisti e una sezione di archi e fiati, offre all'ascolto un suono dalle maggiori coloriture e timbriche (soprattutto nell'utilizzo moderato dell'elettronica), meno scabro che in passato, persino più "gioioso" sul piano melodico.

Per chi ha cantato "la fine del mondo" con disperata leggerezza (l'anno era il 1987, il disco "Document"), questo "Reveal" deve aver rappresentato un maturo ritorno alla vita, lo sguardo rinnovato di "splendidi quarantenni" alle cose del mondo: "Batti un tamburo per me, come sbattono le ali di una farfalla", canta Stipe nell'intimista "Beat A Drum", e ammette: "È tutto ciò di cui ho bisogno".

E tra la riscoperta di una natura fino a ieri sinistra ("Summer Turns To Light"), con l'emozione di ritrovare sensazioni forse perdute ("dopo il vino e le pesche noci, le lucciole e il tempo che si muovono come sciroppo nella sera con dolce rassegnazione...") e l'abbandonarsi "definitivo" alla vita che scorre (nella lirica "Beachball"), si colloca il senso di un disco che per musicalità, ricchezza compositiva, densità di idee, è ben oltre le forme più riconosciute del pop-rock d'autore.

"Questa vita è dolce, mentre balliamo in mezzo alla strada, chissà chi potremmo incontrare?...".

 

Michael Hedges - "Beyond Boundaries": un venusiano al bar.

A chi ebbe la fortuna di assistere a un suo concerto, nel corso della tournèe europea del 1987, Michael Hedges fece l'impressione di un venusiano entrato in un bar.

Solo, con la sua chitarra acustica, sul palco del Teatro Comunale di Piacenza, il musicista regalò un'ora e mezza di concerto indimenticabile, parzialmente documentato dal successivo album "Live on The Double Planet". Erano suoni di corde pizzicate, erano rumori percussivi sulla tastiera, erano arpeggi intricati da perderci le dita - un fingerpicking irriproducibile sullo spartito. Completamente soggiogato dalla tecnica stellare del suo suonare, il pubblico seguì quasi ammutolito l'esibizione di una musica che di lì a qualche anno sarebbe stata venduta sotto la furba etichetta di "new age". In realtà, piuttosto, Hedges rincorreva sulle corde un folk diafano, carezzevole, deturpato da improvvisi sussulti timbrici, da una percussività inquieta. Un folk di una bellezza sgraziata, disarmonica, prorompente.

A quattro anni dalla sua morte improvvisa, dopo solo sette album in studio (consigliato soprattutto "Aerial Boundaries" dell''84), lo straordinario progetto musicale di Hedges torna a impressionarci con questo intenso, pirotecnico CD (Windham Hill, USA 2001) che raccoglie alcune delle pagine del suo repertorio composte e suonate per chitarra acustica, in studio e dal vivo. Il lucido disegno di un'idea "orchestrale" dello strumento - la chitarra a sei corde che diventa, come per arcana alchimia, tanti strumenti in uno. Una tecnica ancora oggi irripetibile, interprete di un'anima che ha cercato, riuscendoci, di tradurre le idee e le emozioni con la fatalità e il mistero di una mano che si appoggia sulle corde pescandone suoni.

 

Vittorio Giacopini – “Al posto della libertà. Breve storia di John Coltrane”

Novantuno le pagine con cui Vittorio Giacopini, direttore della rivista “Lo Straniero” e autore di numerosi saggi, ritrae la straordinaria storia di John Coltrane, concentrando l’attenzione sugli ultimi, miracolosi lavori (“A Love Supreme”, “Ascension”, “Meditations”, “Expression”) che fecero definitivamente deflagrare le dimensioni del jazz e, per esteso, della stessa musica.

Al posto della libertà” (Edizioni e/o, Roma 2005, prezzo di copertina € 8), titolo tratto da una riflessione di Ralph Ellison (“(…) L’arte – il blues, gli spiritual, il jazz, la danza – era quello che gli schiavi avevano al posto della libertà”), è un sentito, appassionato omaggio a uno dei più determinati musicisti del secolo scorso che con la sua arte, appunto, ha rincorso l’idea di una espressività libera, intima, spirituale, eppur così profondamente umanistica, addirittura “popolare”.

La sua, una musica per il popolo che trascendeva gli stereotipi omologanti della cultura di massa (e degli stessi codici della creazione artistica), e aspirava a una forma-medium che potesse condurre l’uomo alla sua ascesi, al dialogo con Dio.

Usare la musica per fare del bene”, scrive Giacobini, usare la musica comunque per fare qualcosa. Dopo questo estenuante viaggio dentro sé stesso, dopo questi anni di ascesi o di scavo interiore, Coltrane non resta a guardarsi dentro uno specchio offuscato e preferisce invischiarsi nel mondo, recuperare un rapporto con gli altri, con le cose”.

Un libro breve, particolare, dal taglio personale, scritto con stile semplice e diretto. Poco adatto a chi – ed è una delle ossessioni di questi tempi – va cercando una guida all’ascolto, “album by album” (per questo, nel desolante vuoto “critico” su Coltrane, sufficiente leggere l’ottimo “Coltrane” di Roberto Valentino, edito dagli Editori Riuniti nel 2002, l’unico libro in italiano disponibile!).

 

Sandro Fresi - “Zivulà” (CD – autoproduzione Associazione Iskeliu, ITA 2003)

La personale ricerca di Sandro Fresi, giunta al quarto capitolo, continua con questo nuovo lavoro, Zivulà, raccolta di brani di tradizione e di nuova composizione uniti dal comune sentimento ispirativo del vento che lega Sardegna e Corsica e più in generale i paesi affacciati al Mediterraneo.

Decisamente distante dalle assillanti operazioni di maniera, quelle che certa critica superficiale e interessata non esita a definire sbrigativamente “mediterranee” (sufficiente sia presente nell’organico benas o launeddas...), “Zivulà” non soltanto conferma il talento di Fresi - musicista assolutamente misconosciuto ai più ma tra i più significativi della scena folk contemporanea -, ma anche che un’altra strada nel ripensamento del “folk” è ancora possibile: una strada accidentata, impervia, in cui l’obiettivo è la ricerca di un equilibrio espressivo tra sperimentazione timbrico-armonica e carezzevole melodia – equilibrio facile da smarrire, almeno a giudicare dai numerosi lavori in circolazione, vittime della più irritante stucchevolezza delle forme.

Il disco, prodotto dallo stesso Fresi, presenta dodici pezzi prevalentemente tradizionali, dell’area del gallurese, di varia provenienza storica (dal 1200 agli anni ‘60), della Corsica e delle Baleari: splendide ballate lente cantate dall’ottima Paola Giua (come “Nanna corsa”, ninna nanna corsa della metà dell’Ottocento) o strumentali dalla cadenza imperiosa, (come “Sartè”, ispirata a Sartene, in Corsica - “fiera città di granito” - o l’iniziale, cristallina “Muresca di l’albabureddha”, entrambe composte da Fresi). Non manca, proprio a conclusione del disco, anche un sentito tributo a Fabrizio De Andrè, di questi tempi quasi obbligatorio, per quanto di frequente scopertamente opportunistico: non è il caso dell’“Ave Maria” (tratta, si ricorderà, dall’album “La buona novella” del 1974) qui riarrangiata da Fresi per tre voci femminili, e due cori, però, non solo perché legittimo e doveroso nel ricordare il generoso artista che intuì il valore del gallurese (fu proprio Faber, infatti, a presentare nel ‘98 con parole semplici e puntuali il disco d’esordio di Fresi, “Iskeliu”), ma anche per il coraggio di aver voluto “sfidare” la bellezza di un classico minore del cantautore genovese restituendocelo nella sua profondità emozionale.

Album di grande immediatezza espressiva, seducente, accattivante nell’impasto delle timbriche, nato come per sottrazione, “Zivulà” è un raro prodotto di folk d’autore, assolutamente competitivo con le grandi produzioni internazionali. Incredibile (ma forse non troppo...) che un autore e un disco così siano ancora alla ricerca di un valido distributore...

 

Cantodiscanto - "Medinsud": magma di armonie.

Come un fiume in piena il villaggio globale delle economie trascina con sé la musica portandola fino a noi, spuria, limacciosa, schiumante. E il cosiddetto "secondo folk revival" si arricchisce giorno per giorno di nuovi lavori, profondamente radicati nella storia regionale del nostro Paese, arditamente incrociati con armonie e timbriche di altre non meno degne geografie dell'anima. I Cantodiscanto, alla seconda prova discografica (pubblicata da Harmony Music, ITA 2001), offrono un'ora di musica di sofisticata ricerca sonora, immersa in quell'area ideale che passa abitualmente sotto la facile, logora etichetta di "musica mediterranea": un affascinante, seducente magma di armonie del Salento, ma anche arabe, maghrebine, jazzistiche, rinascimentali, bandistiche che caratterizza tredici brani di intensa, ispirata tensione espressiva.

Guidati da Guido Sodo (chitarra e oud), autore della maggior parte dei brani che compongono il disco, offrono all'ascolto un'opera matura, ben suonata, ottimamente cantata (merito di Silvia Testoni e dell'ospite palestinese Faisal Taher), dall'attraente varietà timbrica (chitarre, oud, contrabbasso, clarinetto, bass fretless, bongos, fisarmonica) e dal brillante lavoro di produzione. Tra i brani, dai testi di poesia, la tradizionale "Tarantella del Gargano", riproposta recentemente anche da Daniele Sepe, è introdotta dai vocalizzi di Tahel sfumando nella coda, opportunamente intitolata "Taradixie", con un trascinante e inatteso "dixieland". E come aver potuto immaginare un madrigale ad incipit e in coda di un brano dichiaratamente "popolare" come "Figliole 'nnammurate"? I puristi (e certi beceri politicanti) continueranno a soffrirne ogni giorno di più. La vita non potrà che guadagnarne.

 

L’aria mefitica e viziata dei Pogues di "Streams Of Whiskey" .

Erano una sgangheratissima live band, i Pogues, ritratto sonoro della faccia sdentata di Shane MacGowan, il loro immarcescibile leader. Morto e resuscitato mille volte, da un coma etilico all'altro, MacGowan è l'archetipo dell'hobo alla deriva. Un homeless ai limiti della sopravvivenza, una voce sgraziata, sfinita, spappolata, aggrappata alla ballata irlandese dopo lo scontro frontale con il treno della modernità punk.

Coi Pogues, reels e gighe sono triturate in lamiere di aggressiva elettricità, un suono che ha il profumo del whisky buttato lì dal titolo di questa registrazione "recuperata" da un concerto in Svizzera del 1991. Sedici brani dal glorioso repertorio della band - cinque dischi in tutto dall''84 al '90 - che all'esordio salvò più di una generazione dalle patetiche smancerie elettroniche di Duran Duran e Spandau Ballett, affogando la scena di "drinking song", tradizionali rivisitati, composizioni originali di MacGowan distillate nelle discariche d'Irlanda. "The Body Of An American", "Summer In Siam", "Dirty Old Town", "Rain Street": piccola bigiotteria sbeccata, lasciata in un angolo a riflettere la luce nella polvere; intense melodie suonate con la voluta approssimazione del dilettante al pub, storpiate nel grezzo compiacimento dell'ennesima bevuta notturna.

"Streams Of Whiskey" (CD - Sanctuary Records, UK 2002) è un baule di stracci inatteso. Una boccata d'aria viziata, mefitica, azzardo esemplare di art brut musicale.

 

Moreno Veloso + 2 - "Music Typewriter" (CD - Hannibal Records, USA 2001)

Chi considera la musica tradizionale un laboratorio di ricerca vitale e non una teca di suoni imbalsamati da affidare alle osservazioni dell'entomologo, saluterà l'esordio del figlio d'arte Moreno Veloso (il padre, l'illustre Caetano) con legittimo entusiasmo. "Music Typewriter", il titolo di un lavoro in bilico fra passato e futuro, sonorità delle radici (la samba, il tropicalismo) e suggestioni tecnologiche noise. Un Joao Gilberto passato per un modem fax, la samba come l'abbiamo conosciuta e amata con evidenti problemi psichiatrici - diagnosi: personalità multipla - che "parla da sola" i linguaggi di una contemporaneità disturbata, in cui la comunicazione è quella delle reti telematiche contaminate dai virus e dai mutanti hacker. O, se preferite, un Gilberto Gil scannerizzato a risoluzione accelerata, ritoccato con le tinte pop dell'Andy Warhol seriale.

Se le iniziali "Sertao", "Deusa do amor" (con gli scombiccherati inserti finali di pianola che richiamano Pascal Comelade o Hector Zazou), "Eu sou melhor" scrivono con mano precisa la penetrante poesia del Veloso padre, senza mai sconfinare nel mero calligrafismo, "Das partes", "O libro e o beijo" e, soprattutto, "Enquanto isso", con un sincopato degno degli XTC, descrivono traiettorie inedite per una forma (la samba) che troppo spesso è sembrata destinata al circolo vizioso della rituale ripetitività. Qui, Moreno Veloso interviene sul ritmo, accelerandolo, accumulando timbriche, inserendo lievi ma incisivi rumorismi. Superando le rigidità imposte dalla tradizione.

Non tutto convince in quest'album coraggioso, comunque. Due brani almeno - "Arrivederci" e "Assim" -, imboccano il vicolo cieco di un funky-disco-rap dalle ritmiche e dagli arrangiamenti scontati, evidentemente pensati per un ipotetico, per quanto improbabile, lancio radiofonico. Ingenuità, in ogni caso, che non compromettono granché l'impressione di trovarsi di fronte a un giovane artista di talento destinato a provocare strappi stimolanti nelle maglie troppo spesso inamidate della musica popolare.

 

Dissói Lógoi - "III" (CD - Edizioni Il Manifesto, ITA 2001)

Alla sua terza prova, indubbiamente la più matura, la band milanese propone un affascinante percorso tra le musiche del bacino mediterraneo dell'Italia centro-meridionale, ispirato alle testimonianze della grande civiltà etrusca. "Partendo da documentazioni e trascrizioni risalenti ad un periodo storico situabile fra il I sec. a.C. e il II sec. d.C.” - tengono a precisare per sgombrare il campo da ogni possibile equivoco di carattere filologico – “abbiamo cercato di cogliere i fili rossi che legano quelle antiche tracce alle tradizioni musicali ancora viventi.”

Anche perché le composizioni, dispiegando strumentazione acustica di varia provenienza - dal continente africano (adungo, sanza, calabash...) all'area balcanica (soz, zurna, zummara), alle regioni sudamericane (cahòn, teponàtzli) - e un uso sapiente e contenuto dell'elettronica, seguono traiettorie prevalentemente improvvisative, tra iteratività etnica, free-jazz e colto minimalismo, confermando la brillante propensione live dell’ensemble: 10 pezzi su 15, non è un caso, sono tratti da diverse performance del ’96, ‘97 e ’98, tenutesi prevalentemente nell’ambito della rassegna “Netturno Etrusco”.

Ne deriva un lavoro dal forte impatto timbrico, omogeneo, di brillante musicalità, che rimanda a importanti esperienze di “frontiera” (Third Ear Band, Oregon, Stephan Micus...) troppo in fretta rimosse in questi tempi di volgare aggressione sonora, in cui il cosiddetto “cross-over” di genere è più spesso, in realtà, mero pretesto per esotismi a buon mercato. I Dissói Lógoi, al contrario, con una ricerca rigorosa e audace che conducono da anni, propongono i "discorsi contrastanti" evocati dal loro nome: una musica per menti libere da condizionamenti, disposte all’obliquità e al fascino di un suono che appartiene da sempre alle profondità della terra e al dei popoli, non allo sgraziato vociare di ben altre, siliconate sirene.

 

Riccardo Tesi Banditaliana - "Thapsos" (CD - Dunya Records, ITA 2001)

Dopo il riuscito "Banditaliana" (Edizioni Il Manifesto, 1998), Riccardo Tesi continua a pompare nelle vene degli ascoltatori una musica sanguigna, senza barriere, costruita su armonie raccolte nel crocevia delle culture di piazza, nei paesi polverosi dell'Italia di provincia, sulle spiagge del Madagascar o nei deserti iraniani. Nel mondo. È "world music", probabilmente, e di quella autentica, anche se il termine è logoro, inflazionato, e pizzica la lingua anche solo a sussurrarlo. Un gruppo di talentosi musicisti al seguito, Banditaliana, percorre nel suo nuovo lavoro le rotte di una musica realmente libera, nervosamente dolce, delicata e frenetica, appassionante. “Thapsos” ha quindici pezzi da perdersi via, trascinati nel gorgo della seduzione di sonorità vicine e lontane, intrecci di strumenti della tradizione popolare e del jazz, linee armoniche che saldano scale pentatoniche a mazurche ("Donde Estas Maria"), ritmiche afro a intervalli be-bop ("Thapsos") in cui lo strumento leader non è il sax ma il melodeon di Tesi.

E c'è da rimanere impressionati dall'intelligenza compositiva di chi, giocando con i generi, gli stili e le forme più diverse riesce pienamente nell'intento di realizzare un disco immediato, gioioso, di facile ascolto, in cui "facile" non è necessariamente sinonimo di "semplicistico". Ne è prova lo strumentale "Penombre", il cuore del disco, che conferma Tesi musicista dei più raffinati: sostenuto dal tema melodico del melodeon, dichiaratamente "piazzolliano", il brano ha un incedere rilassato, giocato sull'iterazione di lievi variazioni al tema che lo conducono in territori minimalisti, nell'intrecciarsi di soprano, chitarra e tablas.

 

Bert Jansch - "Birthday Blues" (CD - Sanctuary Records, UK 2001)

"Mi ci sono voluti anni per scrivere alcuni pezzi, per altri solo un paio di minuti", dichiarava Bert Jansch a "Zig Zag" nel 1969, all'uscita del suo quinto album, "Birthday Blues". Il disco, passato allora quasi inosservato, è oggi rimasterizzato dalla Sanctuary Records che ha recuperato gran parte dei titoli del catalogo Transatlantic, etichetta degli esordi.

Almeno venticinque dischi a suo nome, un "Folk Award" alla carriera ottenuto agli inizi dell'anno scorso, Jansch (www.bertjansch.com) è il prototipo dell'anti-eroe folk, tutto genio e introversione. I suoi lavori, quando cominciarono ad uscire nel '65, diventarono influenti per la personale tecnica chitarristica, l'interpretazione vocale aggressiva, la felice vena creativa dei testi (tra cui l'antesignano inno anti-eroina "Needle Of Death"), intelligenti bozzetti di sconfinato intimismo. L'assenza o quasi di esibizioni live e la parallela attività con i Pentangle, gruppo-culto del periodo, ne covarono la leggenda negli ambienti folk facendone, con l'amico John Renbourn, uno dei principali protagonisti sulla scena. Dopo un paio di album a far la conta dei padri ispiratori del blues (su tutti Lightin' Hopkins e Big Bill Broonzy) e due fragili operine di folk revival ("Jack Orion" e "Nicola", rispettivamente del '66 e '67), "Birthday Blues" racchiudeva i primi frutti dell'esperienza coi Pentangle: frutti acerbi, certo, ma determinanti nel testimoniare l'affascinante ampliamento di sonorità dagli scarni arpeggi bluesy a un rotondo e raffinato folk baroque venato di timide aperture jazz.

 

Fabrizio De Andrè - "Ed avevamo gli occhi troppo belli" (CD - Editrice A, ITA 2001)

Finisce sempre così. Uno muore, bravo o mediocre che sia, e gli viene dedicata una statua equestre. Improvvisamente, quello, diventa patrimonio di tutti, ed è uno sprecare di "lo conoscevo bene, io"... Anche a De Andrè, lo straordinario autore di "Crueza de Ma", "Nuvole" e "Anime Salve", per dire solo degli ultimi dischi registrati, è toccato un destino così. Nei mesi successivi alla sua morte, sono comparse dal nulla biografie e saggi, radio e tivù hanno mandato speciali non-stop con invitati più o meno illustri, immancabili i premi alla memoria... La discografia, da quel tragico 11 gennaio 1999, naturalmente non è stata a guardare: un disco live con videocassetta dall'ultimo tour; un cofanetto dell'opera (quasi) integrale, bello ma costosissimo; un'antologia di canzoni sparse "minori" (tra cui la storia di Marinella in duetto con Mina); la raccolta delle primissime incisioni per la Karim, con l'incomprensibile esclusione del primo 45giri, e altro ancora.

In vita, per il musicista genovese che non finiva di stupire con la sua rigorosa, solitaria ricerca non era stato tutto un simile tripudio, per la verità, e questo esile bel gesto della Rivista Anarchica (www.anarca-bolo.ch/a-rivista), nato dalla stretta collaborazione con la moglie Dori Ghezzi, è lì per ricordarlo. Sono diciotto minuti scarsi di "parlato", introduzioni a canzoni dell’ultimo tour, un solo inedito (la versione live di "Se ti tagliassero a pezzettini" da un concerto di Milano del 1991), per affermare la comune consonanza di idee politiche, la coerente instancabile opera di difesa e rivendicazione della dignità e della libertà dei più "umili" (Princesa, Marinella, il popolo Rom, gli indiani d'America...), il pudore di una vita di coraggiosa integrità morale e culturale, l'intransigente visione libertaria.

Il cd, in vendita esclusivamente per corrispondenza (Editrice A, casella postale 17120, 20170 Milano) e nelle librerie "alternative", è presentato in un lussuoso digipack, con libretto di 70 pagine zeppo di foto inedite, trascrizioni delle tracce registrate, analisi affettuose e puntuali. Con un breve ricordo di Brassens, l'unico vero maestro riconosciuto da De Andrè, che non aveva voluto incontrare per non infrangerne, dentro di sé, "il mito".

 

Uaragniaun - "Skuarrajazz" (CD - Dunya Records, ITA 2001)

La straordinaria vitalità della musica popolare italiana è documentata da questa quarto lavoro del gruppo pugliese Uaragniaun alle prese con un repertorio tradizionale di rara bellezza costituito da stornelli, pastorali, tarantelle, canti di lavoro della Murgia e della Basilicata. Luigi Bolognese, Silvio Teot e la cantante Maria Moramarco, accompagnati da numerosi ospiti (tra cui i noti Daniele Sepe e Ambrogio Sparagna), propongono sedici composizioni suggestive (per ben 74 minuti!), melismatiche, traboccanti di rimandi culturali in cui è la vocalità l'anima del progetto e la musica il risultato di un'attenta compenetrazione di tradizione e modernità. "Motus", ad esempio, estratto della colonna sonora del film di Michele Lanubile "Io non ho la testa", è un breve strumentale per percussioni, voce, tastiere e darbouka di estrema raffinatezza, immerso com'è in sonorità che gli ossessi dell'etichetta definirebbero come "ambient". Nel disco, l'impressionante dispiego di strumenti della tradizione popolare italiana (violini, organetto, flauto, chitarra...) e straniera (bouzouki, bendir, duf, djembè, sicus...) conferma la compatibilità di tradizioni e localismi apparentemente distanti con un suono che è timbricamente più ricco, accresciuto, interetnico: in "Nenia", breve canto di lavoro e preghiera dell'Alta Murgia barese, su un esile tappeto sonoro di "suoni dal mondo arabo" si dispiega, austero, il cantato di Moramarco dal registro interpretativo orientale, con un effetto di straniante bellezza.

 

AA.VV. - "The Look Of Love. The Burt Bacharach Collection" (CD - Warner Bros., USA 2001)

"Non ho mai scritto canzoni pensando di farne dei successi, perché è impossibile sapere cosa ne verrà fuori", dice Burt Bacharach nelle note introduttive del booklet di questo doppio CD. Eppure, se c'è un autore che ha saputo incidere profondamente nell'immaginario middle-class dell'America del dopoguerra è stato lui, con una serie di hits che hanno venduto milioni di copie nel mondo. Tra i cinquanta pezzi dell'antologia, impossibile non ricordarne almeno cinque - "Magic Moments" (1958), "Rain Keep Fallin' On My Head" (1969), "I'll Never Fall In Love Again" (1969), "Anyone Who Had A Heart" (1963), "This Girl's In Love With You" (1968) - gioielli melodici che racchiudono l'illusione di un tempo spensierato con cui gli americani perbene esorcizzavano le forti contraddizioni del progresso incalzante di quegli anni.

Costretto sin da bambino dalla madre a rinunciare al pallone e ai pattini a rotelle per il piano, era rimasto folgorato dal jazz di Parker e Monk, prima di finire impigliato nelle delicate trame orchestrali dell'Impressionismo francese - Debussy e Ravel in testa. Dalla fine degli anni cinquanta, il lungo sodalizio artistico con Hal David, brillante autore di testi romantici, avrebbe proiettato Bacharach nell'olimpo dei compositori "leggeri" del secolo scorso grazie alle voci di cantanti "confidenziali" della fama di Gene Pitney, Dionne Warwick, Perry Como, Tom Jones, Cilla Black. Un suono carezzevole, quello di Bacharach, in cui sono la vocalità e la melodia ad essere esaltati con un impiego intelligente dell'orchestrazione in cui spiccano archi e cori. Una musica così ben congegnata da ispirare tutta una schiera di artisti pop contemporanei, tra cui Elvis Costello, che nel '98 ha duettato con lui nell'intenso, bellissimo "Painted From Memory".

 

John Coltrane - "The Olatunji Concert: The Last Live Recordings” (CD - Impulse, USA 2001)

Aspirava a una musica assoluta, John Coltrane, alla fine dei suoi giorni, a suoni che fossero espressione dell'OM. Una ricerca che era cominciata anni prima, intorno al 1959, con dischi di jazz "interstellare" come "Giant Steps", già oltre l'hard-bop, quando a dispetto della forma blues, Coltrane aveva sperimentato cambi velocissimi di modulazione, derivandoli da giri armonici di terza, ripetuti. Di lì a poco, il critico Ira Gliter avrebbe coniato l'espressione di sheets of sound, lastre di suono, per descrivere gli assolo di tenore o soprano che si scontravano nei brani squarciandone l'armonia, creando dissonanze, crepiti, urla, in un paesaggio armonico che aveva abbandonato la logica dell'accordo per approdare alla modalità.

Nel marzo 1967, poco prima di morire di tumore a 41 anni, Coltrane si esibì sul palco del Centre of African Culture "Olatunji" di New York, inaugurato da qualche giorno anche grazie al suo sostegno economico. Pubblicata per la prima volta dalla Impulse, dopo essere circolata per anni tra i fan più appassionati, la lunga performance presenta due sole composizioni - "Ogunde" e la dolce "My Favorite Things", la ballad di Rodgers e Hammerstein lanciata dal film "Tutti insieme appassionatamente" che Coltrane amava suonare in concerto. È proprio quest'ultima a proiettare indizi illuminanti dell'ultima fase atonale del musicista: confrontata con altre non meno straordinarie interpretazioni (la prima hard-bop registrata nell'album omonimo del '61 o quella free del live "Afro-Blue Impressions" del '63), in questa aleggia come uno spirito ultraterreno, arcano. Dopo il lungo assolo di contrabbasso, sostenuto da un irrefrenabile, irregolare tappeto ritmico di Rashied Alì e dall'arpeggiare della moglie Alice al piano, Coltrane sbriciola con il tenore il tema della popolare melodia e lo strazia in un disperato, sublime canto al suo "supremo amore".

 

Uccio Aloisi Gruppu - “Robbe de smujo” (CD - Edizioni Il Manifesto, ITA 2003)

Saranno gli effetti del nubifragio di pizziche e tarante che ha investito l’Italia folk negli ultimi anni, ma il ritorno sulla ribalta discografica di Uccio Aloisi con il suo “gruppu”, dopo una bella prova in concerto del 2000 passata quasi inosservata (“Pizziche, stornelli e canti salentini”, Novaracne VL01, 2000), ha il potere del balsamo taumaturgico.

Registrato nel marzo 2002 “nelle campagne di Cutrofiano” (Lecce), dove Aloisi è nato e vive dal 1927, “Robba de smuju” è prezioso documento, vivido ed emozionante, del patrimonio straordinario che sopravvive nella Grecia Salentina, ben oltre gli stereotipi di maniera della forma pizzica, appunto, che tanto ingrassa organizzatori di festival e musicisti di questi tempi.

Un disco unico, intenso, ispirato, insomma, autentico come ancora sanno essere oggi i davvero pochi progetti che afferrano al volo quanto resta della tradizione senza ridurla a immaginetta oleografica, a poster con didascalia.

Il repertorio presentato dal quintetto (Antonio Aloisi, voce e tamburo; Domenico Riso, voce e tamburo; Antonio Calsolaro, mandolino e chitarra; Rocco Biasco, organetto e chitarra; Gianluca Corvaglia, tamburo), prevalentemente caratterizzato da stornelli, canti d’amore, ninne nanne tradizionali, si snoda in nove esecuzioni catturate in presa diretta, senza sovraincisioni, in cui fondamentale è il valore dell’improvvisazione e accettato fieramente il rischio di un’esecuzione tutt’altro che impeccabile, in cui è privilegiata su tutte la dimensione espressiva. Tra i brani, colpiscono in particolare i sei minuti di “Stornelli”, retto dalle voci di Aloisi e Riso dall’impressionante registro melismatico; “Trainieri”, dall’anima ipnotica e sinistra; “Ntunucciu”, dolente ballata in tre tempi e la famosa “Pizzica degli Ucci”, già cavallo di battaglia del gruppo in cui cantò, da voce solista, l’indimenticabile Antonio Bandello, l’altro uccio – una delle voci tradizionali più rappresentative dell’Italia meridionale (cfr. la bella raccolta “Bonasera a quista casa”, curata nel ’99 da Roberto Raheli per le edizioni Aramirè).

Anche se discutibile ci è parsa l’improvvisa “scoperta” da parte dei media nazionali del “personaggio” Aloisi – spacciato come l’equivalente nostrano di Compay Segundo (ma una differenza sostanziale è che Aloisi non ha mai smesso di cantare...) – assolutamente impagabile la scelta del Manifesto di fissare su CD l’arte di uno degli ultimi grandi cantatori popolari del nostro Paese: per coloro che non sono ancora riusciti ad ascoltarlo dal vivo, nelle numerose feste di piazza che affollano la Puglia, questo “Robbe de smujo” (che si dice di una bella donna o della verdura cotta al punto giusto...) è un valido surrogato, commovente e fiero.

 

Daniele Sepe - "Jurnateri" (CD - Edizioni Il Manifesto, ITA 2001)

Daniele Sepe è un alchimista di suoni, un ricercatore che scava nel profondo delle tradizioni popolari e ne raccoglie suggestioni, spunti di riflessione, provocazioni sul presente. Come già in "Viaggi nei paraggi" (del '96), ancor più del recente "Conosci Victor Jara?", in cui l'omaggio al grande cantautore cileno era occasione per una visione severa sul contemporaneo, questo "Jurnateri" - nel suo brillante miscelare di stili, forme e culture - è opera di straordinaria attualità e innegabile bellezza. Undici brani di colto trovarobato - tra pagine scolorite del catalogo Fonit Cetra (“Lamentu per la morte di Turiddu Carnivali”), canzoni marinare bretoni e normanne (“Pique la baleine”, “Le Grand Coureur” e “Stormy Weather”), tarantelle, popular songs greche (“Saranta Palikaria”), inglesi, toscane - riarrangiati con stile personale e rara sensibilità.

Uno stile che attinge dalla profonda conoscenza filologica di forme ed epoche musicali, permeato da un diffuso registro ironico (come nella citazione clownesca del tema della glenmilleriana "In the mood" nel brano d'apertura “Si vide all’animale”) e dall'intelligente concezione d'insieme del "fare musica", espressione di indubbia maturità compositiva. Più del brillante Riccardo Tesi (bellissimo il suo recente "Thapsos"), non meno radicale dei misconosciuti Officina Schwartz (nel purtroppo dimenticato "L'Internazionale Cantieri" del '97), Sepe è soprattutto un autore "politico", per quanto vaga oggi possa apparire l'espressione: "Jurnateri" è riflessione amara sul lavoro, sull'esperienza dolorosa dello sfruttamento passato e presente, sulla "guerra che ogni giorno si combatte per campare", sull'extrema ratio che resta alla nostra supposta "civiltà superiore" di riequilibrare le ingiustizie socio-economiche del pianeta. Esplicito il testo della conclusiva "Un'altra via d'uscita", divertito reggae agro-dolce in quartine a rima baciata che si conclude con il verso: "Se sei un contadino e un illustre scrittore/hai incontrato le botteghe del mondo/che pagano il lavoro al suo prezzo giusto e tondo/fuori dalla legge di un mercato brutale/per uno scambio più equo e solidale".

In allegato, oltre al booklet ricco di note e dei testi, il CD-Rom dell’omonimo cartone animato realizzato da Maurizio Forestieri per le scuole, efficace strumento di sensibilizzazione su un tema cruciale del nostro presente.

 

Andrea Parodi-Elena Ledda – “Rosa Resolza” (CD – S’ard Music, ITA 2007)

È difficile ascoltare questo disco senza essere travolti dall’emozione della voce di Andrea Parodi che non c’è più.

Registrato tra il 1999 e il 2006, in parte dal vivo, è il coronamento di una lunga amicizia e un’intensa collaborazione artistica tra Parodi ed Elena Ledda, due delle voci folk più significative dell’Italia contemporanea; pubblicato postumo, è anche fatalmente il testamento artistico di un musicista inquieto, pieno di talento, costantemente alla ricerca di nuove esperienze di espressione dopo il successo discografico nel circuito pop-rock con i Tazenda (hit “Spunta la luna dal monte” del 1991).

Dopo l’ottimo “Abacaba” (Storie di Note, 2002), che inaugurava una nuova stagione di ricerca nell’ambito della nuova tradizione, dopo la terribile scoperta della malattia, “Rosa Resolza” è un vero capolavoro sin dal primo ascolto, suonato e cantato con passione, felice nella composizione e personale nella rivisitazione del repertorio popolare (un brano tradizionale cantato da Maria Carta, uno di Violetta Parra), intenso nei registri, equilibrato nei suoni, minimale nell’uso della strumentazione acustica affidata a notevoli musicisti (tra questi, Mauro Palmas e Rita Marcotulli). Un vero miracolo, considerate le condizioni in cui è stato registrato.

Srotola undici pezzi che attraversano il catalogo delle musiche popolari dell’oggi, accarezzando un’idea davvero convincente di ‘etnico’, per quanto oggi il termine possa significare qualcosa di univoco. Una musica lieve ed intima, raccolta come in preghiera, tra sonorità medio-orientali e lieder classico. Una musica da camera che si impone all’attenzione dell’ascoltatore e rifugge dall’uso funzionale di sottofondo distratto e distraente, pretendendo orecchie attente e sensibili, promettendo emozioni e commozione, stabilendo da subito una forte complicità ideale con l’ascoltatore.

E quando arriva il momento di “Gracias a la vida” (evergreen di Violetta Parra), proprio in chiusura dell’album, è davvero impervio non lasciarsi travolgere dal tragico valore simbolico dell’interpretazione di Parodi: registrato dal vivo nel settembre 2006, proprio poche settimane prima della sua morte, è un appassionato inno alla vita,

 

(…) Grazie alla vita che mi ha dato tanto,

mi ha dato il cuore e il suo battito forte

quando guardo il frutto del cervello umano,

quando guardo il bene così lontano dal male,

quando guardo il fondo dei tuoi occhi chiari.

Grazie alla vita che mi ha dato tanto,

mi ha dato il riso e mi ha dato il pianto,

così distinguo gioia e dolore

i due materiali che formano il mio canto

e il canto degli altri che è lo stesso canto

e il canto di tutti che è il mio stesso canto…”.

 

Come dire che l’arte è più forte della morte; che i sentimenti, le emozioni, le idee ci sopravvivono comunque, nella memoria di chi ha condiviso con noi l’irrinunciabile esperienza del vivere.

La voce di Andrea Parodi, dentro di noi, per sempre.

 

"Studiare la popular music" con Richard Middleton.

"Happy new ear", ironizzava anni fa John Cage, augurandosi una nuova epoca di ascolti più intelligenti della musica (e del rumore) che ci circonda.

Una mappa di ricognizione sulle origini e i significati della "popular music" è da poco nuovamente disponibile nelle librerie italiane grazie alla ristampa Feltrinelli del classico di Richard Middleton "Studiare la popular music" (pagg. 414, L. 22.000), edito per la prima volta in Inghilterra nel '90.

A Middleton, docente della Open University di Newcastle, dobbiamo lo studio probabilmente più lucido e significativo apparso negli ultimi trent'anni sull'argomento, da quando cioè, uscendo dalle aule ammuffite delle università, alcuni studiosi hanno cominciato a interrogarsi sulle musiche variamente definite come "popolari", "leggere", "non colte", "di massa".

Middleton, nel secondo capitolo del libro, confuta una volte per tutte - e con colte argomentazioni convincenti - le tesi di chi ha voluto vedere (il più celebre è stato T.W. Adorno) nelle musiche "popular" una manifestazione deteriore della comunicazione di massa, venuta "dal basso" al solo scopo di edulcorare, inquinare, svendere la cultura "alta".

L'ozioso dibattito sulla legittimità e la dignità culturale della "popular music", mentre le musiche (com'è ovvio) continuano ad essere prodotte e ascoltate dalla gente, non è certamente chiuso, tutt'altro. Dietro ad ogni angolo di rivista e di quotidiano di provincia è sempre in agguato il critico di turno che, metronomo alla mano, si preoccupa ancora di dimostrare che un gruppo come i Beatles, in fondo, non aveva conoscenze sufficienti dello spartito o che espressioni quali il "minimalismo" non avrebbero ragion d'essere se il compositore di turno, alla "fatidica prova dei fatti", sembra a digiuno di lezioni di piano...

Consigliamo questo libro soprattutto a loro, i "critici colti". Potranno forse trovare più di una risposta ai loro amletici dubbi sulla natura di certe sospette, oblique musiche contemporanee.

 

BonificaEmilianaVeneta - "Variabile/Naturale" (CD - Felmay, ITA 2001)

Alla seconda prova ("Apotropaica" era del 1999), dopo tre dischi influenti registrati come Piva dal Carner, la Bonifica abbandona decisamente l'ambito angusto della tradizione e della ricerca filologica per approdare su una terra ancora prevalentemente inesplorata.

"Variabile/Naturale" è la mappa di un territorio appena immaginato, forse, ma possibile, dove il percorso è chiaro e il rischio alto: sicuri di un bagaglio/fardello tradizionale considerevole, i quattro della BEV riarrangiano suoni familiari in una chiave assolutamente nuova, lavorando su ritmiche dispari e cesellando timbriche, mescolando sapientemente gli stili, ripensando le fonti di una storia (la nostra storia!) a rischio di rimozione collettiva. Il "variabile"/"naturale del titolo, allora, assume improvvisamente un'intelligibilità insospettata perché possibile è la trasformazione, l'attualizzazione delle forme e dei rimandi testuali partendo appunto dal passato.

C'è la lezione del miglior folk inglese anni settanta, la polifonia vocale della cascina, l'iteratività armonica di certa tradizione ("celtica") nordica, abbozzi di progressive italiano, l'impiego di strumentazione rigorosamente acustica e di disparata provenienza (clarinetto, organetto diatonico, sax, piva, violino, contrabbasso...). Dodici brani splendidi, stilisticamente omogenei, che richiedono un ascolto attento anche alle più lievi sfumature melodiche. Opera del coraggio di un gruppo che, pur cambiando così radicalmente, ha saputo mantenere un'invidiabile integrità. Una delle espressioni più avanzate del folk italiano contemporaneo.

 

Trilok Gurtu - "The Beat Of Love" (CD - Blue Thumb, UK 2001)

Mentre masse pigre e distratte rincorrono gli esotismi in serie di Manu Chao o Goran Bregovich, rassicuranti luoghi comuni di un ideologismo controcorrente da karaoke, altrove la musica che passa generalmente sotto l'ambigua etichetta di "world music" pulsa di idee, contaminazioni, avvincenti provocazioni. Trilok Gurtu, alla sua ultima prova solista, conferma la vocazione per la sperimentazione sonora con un disco di impressionante bellezza, accessibile, autentico sismografo della modernità in musica.

Enfant prodige di Bombay, genitori musicisti (padre sitarista, madre cantante classica), Gurtu vanta un curriculum impressionante: percussionista eccezionale (si è aggiudicato il premio della critica del prestigioso "Down Beat" negli anni '94-'95-'96-2000 e 2001!), polistrumentista, ha suonato con artisti del calibro di Don Cherry, Jon Garbarek, Oregon, la Mahavishnu Orchestra di John McLaughlin, Bill Laswell, Pat Metheny, partecipando alle principali manifestazioni live mondiali (tra le altre, l'ormai leggendaria WOMAD).

"The Beat Of Love" è una raccolta di undici composizioni stilisticamente indefinibili, immerse in un humus di riferimenti alle tradizioni folk afro-asiatiche, al jazz, al funky-soul, al juju, al techno-rock, al rap, con una varietà ritmica e timbrica sbalorditiva. Merito anche della produzione brillante di Wally Badarou, già collaboratore dei Level 42, e del suggestivo cantato della Zap Mama Sabine Kabongo e dell'attore senegalese Wasis Diop.

Un lavoro di intelligente fusione sonora, autentico ponte tra culture, che realizza compiutamente e sviluppa ricerche già attive altrove (ben documentate, ad esempio, dal catalogo Real World), ricomponendo in modo convincente l'eterna tensione dialettica fra acustica ed elettronica, fra tradizione e modernità.

 

Radiohead - "Amnesiac" (CD - EMI, UK 2001)

"Tenere lontano dalla luce; preferibilmente al buio in un cassetto con i vostri segreti", suggerisce una nota in corpo sei sul retro dell'ultimo album dei Radiohead (www.radiohead.com). A chi ha amato il precedente "Kid A", pubblicato solo alcuni mesi fa, questo "Amnesiac" sembrerà sin dal primo ascolto un'immersione ancora più radicale nel groviglio di suoni-parole-emozioni del più recente corso creativo del gruppo. In effetti, come spiega Tchocky nelle sezione del sito predisposto per la stampa (www.spinwithagrin.co.uk), il nuovo lavoro nasce dalle stesse sedute di "Kid A".

"È come se si trovasse in soffitta una vecchia cesta con mappe, disegni e indicazioni per arrivare in un posto che non si riesce a ricordare". I Radiohead, cinque album dal '93 (tra cui l'hit "Ok Computer"), soffrono di una benefica quanto rara amnesia: quella dei luoghi comuni della forma rock, di cui ben più famosi eroi contemporanei vivono di rendita ad ogni disco.

Un'amnesia che li induce, rabdomanti, a una ricerca sul suono in cui sono il timbro e il ritmo a prevalere (come nell'iniziale "Packt like sardines in a crushd tin box"), con un citazionismo "a perdere" che pesca tra le più significative esperienze della popular music" europea - la dimenticata musica dei Can e del "krautrock" in genere; la new wave inglese più "colta" degli anni ottanta (Japan, Wire...); il pop destrutturato dei This Heat. Qui, all'esplicita propensione per la melodia che aveva caratterizzato "Kid A" anche nelle sue pagine più sperimentali, è preferito un misurato "wall of sound" elettronico. Anche quando, come nel pezzo che ha anticipato l'uscita del disco (il single "Pyramid Song"), un notturno al piano interpretato dalla voce dolente e sofferta di Thom Yorke è "inquinato" nel finale da archi sintetizzati e rumorismi dissonanti.

Musica per intelligenti meditative orecchie contemporanee.

 

Carlo Muratori - “Sicily” (CD – Folkstudio , ITA 2004)

Dopo la recente riproposta in edizione Cd delle più riuscite pagine dei Cilliri, gruppo con cui cominciò l’attività di ricercatore e musicista sul finire degli anni Settanta, Carlo Muratori torna ad immergersi nel caldo ventre della musica tradizionale siciliana con questo nuovo straordinario album autoprodotto. Ventuno le canzoni, prevalentemente tradizionali, riarrangiate e cantate con la collaborazione di musicisti d’ambito folk che sono il rinnovato atto d’amore e al tempo stesso la fiera rivendicazione di un’identità.

Tutt’altro che revivalistico, il disco espone con lo sfrontato e il delicato stile che è proprio di Muratori (animo sanguigno, di pietre e di fuoco) un’idea di tradizione “rivisitata” (“geneticamente modificata”…?!), certamente affine alle diffuse esperienze di “folk revival” diffusesi in questi ultimi anni, ma inequivocabilmente “altra” rispetto all’interpretazione dei più. Idea che felicemente sintetizzata nelle note del libretto allegato da Sergio Bonanzinga, docente dell’Università di Palermo, restituisce idealmente a un patrimonio davvero straripante un’identità nobile, una legittimità.

Ci voleva coraggio”, scrive, “per un musicista raffinato, autore di musiche e testi che hanno restituito una nuova dimensione della canzone siciliana contemporanea, a misurarsi con un repertorio comunemente ritenuto squalificante. Molte di queste canzoni sembra di ascoltarle per la prima volta, finalmente sottratte a quella patina di insopportabile banalità frullata dai vari “canterini” dell’Isola”.

Abolendo intenzionalmente tamburelli e fisarmoniche, zavorre timbriche di “quel” suono kitsch, e affidandosi ad altra strumentazione più adatta (chitarre, bouzouki, mandolino, mandoloncello, marranzano, basso…), Muratori propone un repertorio di brani notissimi – altrove straziati da improbabili riletture “in costume di scena” – come “Mi votu e mi rivotu”, “Vitti ‘na crozza”, “Ciuri Ciuri” - e altri meno conosciuti, raccolti intorno a una visione alta della musica (e dello stesso lavoro di studio e di rielaborazione delle fonti), ben consapevole dell’ambiguità dell’ossessione filologica che assilla molti in questi tempi di ostentati localismi e desiderosa al contrario di comunicare nell’oggi con passione, gusto e raffinatezza. Oseremmo affermare: verità.

Noi che avevamo azzardato all’epoca di “Folk Geneticamente modificato” un giudizio di valore su Muratori propendendo per la sua attività di folker, ammettiamo oggi con imbarazzo il clamoroso errore di percezione: appassionato ricercatore e rielaboratore della tradizione, certo, ma anche grande compositore e interprete di canzoni (d’autore...), ha raggiunto negli anni una cifra artistica assolutamente personale, tale da far cadere inesorabilmente ogni distinzione di genere. Uno dei pochi musicisti a 360 gradi di questo sventurato, insensibile, ingrato Paese.

 

"Un augurio hippy pieno di sogni da quattro soldi per un mondo migliore": i trent’anni di “Imagine” di John Lennon.

Martedì 11 settembre, ore 16.45. Mentre dalla radio dell'auto un cronista sta commentando gli sviluppi dell'attacco terroristico in America, che ha ferito al cuore New York, un'interferenza manda le note di "All you need is love", Beatles 1967. Una grottesca casualità, a pensarci, dovuta all'instabilità delle frequenze radio e alla saturazione dei canali, ma quel "love, love, love", intonato dai quattro Beatles in mondovisione quell'anno, suona sinistro e sconfortante, oggi, viste le circostanze.

Perché proprio in questi giorni (era il 9 settembre 1971) si festeggiano i trent'anni di "Imagine", il manifesto pacifista di John Lennon, "la canzone più importante del secolo" - nella maggior parte dei sondaggi dell'anno scorso -, che il "tricheco" di Liverpool aveva deciso di pubblicare come trailer dell'imminente disco omonimo. La genesi del pezzo, destinato ad attraversare generazioni di giovani, era stata piuttosto casuale: nella grande villa di campagna di Tittenhurst, Lennon e Yoko Ono avevano deciso di invitare alcuni amici per registrare dei nuovi pezzi insieme. Tra questi "Imagine", composta inizialmente al pianoforte, offriva il testo più audacemente idealista del musicista, ispirato dalle idee sul potere del sogno e dell'immaginazione che la moglie aveva brandito in "Grapefruit", la raccolta di scritti e poesie pubblicata solo qualche mese prima. Lennon cantava:

 

"(...) Immagina che non esistano stati/non è poi difficile da fare/

che non ci sia niente per cui uccidere o morire/e nessuna religione/Immagina che tutta la gente viva in pace...

Dì pure che sono un sognatore/ma non sono l'unico/Spero che un giorno tu ti unisca a noi/e il mondo diventerà una cosa sola..."

 

"Un augurio hippy pieno di sogni da quattro soldi per un mondo migliore", avrebbe scritto sarcasticamente anni dopo Albert Goldman, il biografo più spietato di Lennon. Altri (Robertson, ad esempio), si sarebbero limitati a denunciarne le profonde contraddizioni "interne", riconoscendo quanto Lennon fosse "pienamente consapevole di non essere un ricco in procinto di passare per la famosa cruna dell'ago". Ma la semplice melodia, la voce nasale di John, la straordinaria innegabile cantabilità del ritornello (adattata ad altre composizioni "politiche" del periodo) risultarono immediatamente irresistibili, oscurando l'evidente carattere utopistico dei contenuti. Lo stesso Lennon, nel film biografico distribuito qualche anno dopo ("Imagine: John Lennon", Warner Bros. 1988), avrebbe ammesso rispondendo a un fan che gli chiedeva di rivelargli la "Verità": "Non confondere le canzoni con la vita." E ancor più laconicamente: "Sono solo uno che scrive canzoni".

New York è in ginocchio, in queste ore. New York come Gerusalemme, Belfast, Mostar. "Imagine", una poesia ingenua per irriducibili sognatori.

 

John Hammond – “Wicked Grin” (CD - Pointblank Records, USA 2001)

Non è il nuovo album di Tom Waits, ma poco ci manca. Manca, per l’esattezza, solo la sua voce. Perché testi, musiche, arrangiamenti e produzione, oltre che chitarra, sono di Waits. La voce, invece, del cinquantottenne John Hammond. Nome glorioso, il suo. Non solo perché figlio dell’Hammond che sperperò i risparmi scrivendo la leggenda di Billie Holliday e di altri grandi del jazz, oltre a mettere sotto contratto nientemeno che Dylan e Springsteen; ma perché protagonista dal ’62 di tutto quanto è passato sotto la voce “blues” con innumerevoli prestigiose collaborazioni (verificate al sito www.johnhammond.com).

Stavolta, però, è Tom Waits a giocare al talent-scout: vinta la scommessa di rilanciare Chuck Weiss, mangiafuoco del blues americano dei Cinquanta, pensa bene di riportare in studio Hammond cucendogli addosso un disco di modern urban blues - tredici variazioni sullo standard delle dodici battute, con ritmiche e timbriche del suo repertorio più ortodosso (quello vicino all’ultimo “Mule Variations” più che ai forse irripetibili capolavori “Swordfishtrombones” e “Rain Dogs”). Certo, quello di “Wicked Grin” è un blues di classe. E la voce torbata di Hammond una garanzia che dovrebbe soddisfare i puristi del genere. Ma come già nel ritorno di Weiss, anche in questo “Wricked Grin” la fantasia ha il fiatone e la verniciatura della Ditta Waits, alla lunga, accenna a scrostarsi.

Resta un fatto, comunque: in questa contingenza di mine telematiche, giorge sbraitanti e giovanotti ipercinetici, un’immersione in questi raffinati, sporchi, autentici, perduti suoni (e testi) roots ha l’effetto del camino acceso mentre fuori nevica. Il gioiello “16 Shell” per convincersene. Lo sgangherato gospel-blues di “I Know I’ve Been Changed”, anche, per rischiare di innamorarsene.

 

Daniele Sepe - “Senza Filtro” (CD - Felmay , ITA 2002)

Non è scontato che l’operazione di “sdoganamento” culturale della musica tradizionale italiana operata da Daniele Sepe con questo suo ultimo “Senza Filtro” debba centrare l’obiettivo di far conoscere la “nostra” musica al resto del mondo occidentale: d’altronde, cosa si aspettano di ascoltare, oggi, gli appassionati “stranieri”? D’altronde, qual è la “nostra” musica tradizionale, oggi, A.D. 2002? Certo è che, al di là degli scivolosi scopi dichiarati, il trattamento di alcune delle canzoni tradizionali del sud Italia, “de-composte” (come recita il sottotitolo del CD) dal musicista napoletano, conferma una volta di più la sua straordinaria versatilità compositiva e arrangiativa, per lo spaziare con impressionante disinvoltura nella treccani della musica mondiale, tra madrigali, jazz, techno, ska, avanguardia, colta novecentesca che lo rende caso pressoché unico nel pur ricco panorama nazionale.

Nell’antologia, tra brani già ascoltati altrove (“Tammurriata Nera” nella versione di “Viaggi fuori dai paraggi” del ’96; “Tarantella Guappa”, “Elektrika Pisulina”, “Sante Caserio” da “Jurnateri”del 2002; la grottesca “Brutta Cafona” di Matteo Salvatore dall’album “Spiritus Mundi” del ‘94…) trovano spazio composizioni inedite integrate perfettamente nell’idea di fondo della proposta – sintetizzare tradizione e modernità raccontando di un’Italia che era e ancora è: e se in “Sammuchella” (da un classico di Raffaele Viviani tratto da “I Dieci Comandamenti”) e “Amuri” contemporaneo è soprattutto lo “spazio sonoro” (strumenti e struttura restano ancorati alla tradizione), nella variazione del tradizionale “N’auciello a cantari” i suoni sono volutamente immersi in una sensibilità che è dell’oggi, catturata dall’impiego della voce filtrata e ritardata, dall’assolo rock della chitarra elettrica e dalle sonorità della tastiera elettronica responsabile dei misurati effetti e dell’incalzante drumming.

Non abbiamo idea se questa del disco sia esattamente la musica che si aspettano di ascoltare gli appassionati stranieri (pare comunque sia stata ottima la risposta della critica inglese…), ma è di sicuro un piacere poter contare sulle de-mummificazioni della musica tradizionale di questo incorreggibile Zappa napoletano, colto e popolano, solidale e sensibile, politicamente schierato senza esitazioni e ipocrisie dalla parte degli sfruttati in tempi così difficili e volgari.

 

Matilde Politi – “A tirannia” (CD – autoproduzione, ITA 2007)

Non si tratta di un lavoro facile, tutt’altro, e per più di una ragione. Disco coraggioso per scelta del repertorio (canti politici e storici della Sicilia), adozione del dialetto paterno che rende difficile la comprensione del testo, registro interpretativo ‘popolare’, registrazione minimale, rendono quest’opera aliena al panorama (anche) folk di questi anni.

Nulla di indulgente nell’ora di registrazione, nessun ammiccamento a forme biodegradabili radiotelevisive, tarantelle & tarante da festival milionario e assessori sorridenti su carri affollati di pupi e marionette.

Per comprendere la bravura esclusiva di questa giovane interprete (ma anche ricercatrice, studiosa, docente di musicologia), cui tempo fa dedicammo un’accorata ‘apologia’, basterebbe abbandonarsi all’ascolto del primo brano del disco, “a tirannia”, registrato dal vivo, rivisitazione di un classico della tradizione già nel repertorio della grande Rosa Balistreri: i precisi richiami alla grana della voce dell’indimenticata leggenda folk, il piglio interpretativo, il timbro vocale della Politi hanno dello sbalorditivo e gravano come un macigno in termini di responsabilità sul futuro di questa artista straordinaria, ancora (colpevolmente) poco conosciuta. Cosa potrà mai regalarci Matilde Politi dopo prove di questa cristallina bellezza?

Arte bruta, abbiamo scritto a proposito di altri grandi miracoli contemporanei (Tonino Zurlo il più recente), fatta di nuda e cruda verità. Priva com’è di infingimenti, calcoli, carinerie ancheggianti, sonorità meritrici che seducono al primo ascolto e lasciano interdetti dal secondo. Questa è arte della più autentica e non occorrono grandi competenze musicologiche per comprenderlo: un paio di orecchie e il cuore, è tutto. Per rimanere turbati, aggrediti, accarezzati, messi all’angolo, abbattuti e rialzati, storditi.

Eppoi, come non applaudire, fino a farsi sanguinare il palmo delle mani, la scelta di testi profondamente ‘dentro’ il politico, come “Guvernu ‘talianu” , che sembra scritta dagli autori (sin troppo celebri, ma sono i tempi…) di “La casta”:

 

Guvernu talianu si veru buttanu Governo italiano sei una puttana!

ci suchi lu sangu a lu povir’omu succhi il sangue al pover’uomo

li tassi chi metti su’ veru tremendi le tasse che metti sono tremende

ca fannu arrizzari li spaddi ed i denti che fanno venire la pelle d’oca

cc’è tassi pi tuttu manciari e biviri c’è una tassa per tutto, mangiare e bere

figghiari e durmiri campari e muriri far l’amore e dormire, vivere e morire

cc’è solo dui cosi nt’a a chistu mumentu ci sono solo due cose in questo momento

ca nun su’ suggetti a lu tassamentu che non sono ancora state tassate

 

Guvernu ‘talianu ti ringrazio Governo italiano ti ringrazio

ca pi piasciari nun si paga dazio che per pisciare non si paga dazio

e pi farisi na ca…ca…cantata e per fare una ca…ca…cantata

non c’è bisogno di carta bollata non c’è bisogno di carta bollata…”

 

O come il “Lamentu pi Turiddu Carnivali” (il testo è di Ignazio Buttitta), reso celebre da Cicciu Busacca nel 1971, e diventato a pieno titolo tra le maggiori composizioni di impegno civile mai circolate in Italia?

Scrive bene Matilde nella breve introduzione al suo lavoro: “(…) Le testimonianze arrivate a noi che, nella lingua del popolo, narrano questi avvenimenti vanno allora lette, seppure distanti nel tempo e nelle forme, come un’unica “cantata” che dimostra come la parte migliore del popolo in Sicilia abbia da sempre reagito, e reagirà, con la stessa fierezza e la stessa determinazione contro ogni “tirannia”.

Opera a tutto tondo, il disco impegna e appassiona. Non è indicato per questo agli adepti di gighe e reel scoto-irlandesi, ballerini di musica tradizionale, attarantati e spacciatori di facili commistioni con il pop-rock. Questa è arte della più pura, mica furba risciacquatura di furbo popolarume.

 

3 Mustaphas 3 - "Play musty for me" (CD - Kartini, D 2001)

A dieci anni di distanza da "Friends, Fiends and Fronds", quinto album in studio, i tre-Mustafa-tre (www.acerecords.co.uk) tornano nei negozi con una raccolta delle migliori esibizioni dal vivo alimentando le speranze di chi li vorrebbe ancora sulle scene.

Perché questo gruppo, costituitosi nel 1986, è stato uno dei primi esempi di "world music" in ambito "popular", con un crossover intelligente e ironico che ha legato musica balcanica, sonorità arabe, pop-rock europeo, folk e cabaret quando ancora le svolte artistiche di Paul Simon, Peter Gabriel e David Byrne erano da venire.

Un suono che sorprenderà per il coraggioso, abile melting pot di suggestioni musicali, con rimandi a Frank Zappa, Bonzo Dog Band, Liverpool Scene, They Might Be Giants e tutta la congrega di stralunati, ammattitisi all'idea di una musica "oltre", capace di saltare alla fosbury le regole del buon senso e realizzare un'opera caleidoscopica, incoerente e contraddittoria, ma autenticamente "nella vita", spumeggiante e coinvolgente come la musica deve essere quando parla alla gente, quando intende comunicare.

Nel disco, sono quattordici pezzi da vertigine, una giostra che gira a tripla velocità su armonie arabe ("Ah Ya Assmar El Bawn"), bislacchi remakes di successi più o meno famosi ("Perfidia", "Speed The Tracktor"), danze romano-ungheresi ("Maramures Zydeco"), canzoncine africane ("Nylon Dress"). Con un consiglio all'ascolto degno dei grandi Monthy Phyton: "Ungete il CD con un po' di olio di oliva e del pepe nero fresco e posatelo su una teglia bollente o su un barbecue, e bruciacchiatelo per due minuti a lato."

 

The James Dean Story theme: piccolo gioiello di orchestrazione jazz.

Nel '57, praticamente al suo esordio registico, Robert Altman gira un lungometraggio-tributo su James Dean. La critica lo stronca, troppo ripiegato sul culto dell'attore, si scrive, tanto che non ottiene nomination all'Oscar. Altman ammette: "Ero partito con l'idea di fare a pezzi il mito di Dean, ma alla fine temo che siamo stati tutti vittima del suo mito."

Prodotto dalla Warner Bros., la colonna sonora era stata affidata al giovane astro nascente Leith Stevens, già autore della soundtrack del cult "Il Selvaggio", rampa di lancio dello sputnik Marlon Brando.

Registrati a Los Angeles nel novembre 1956, gli undici brani vengono arrangiati da Mandel e Holman e suonati da un'orchestra jazz che vede, tra i maggiori session men del suono west coast (Shank, Davis, Budwig...), Chet Baker alla tromba solista, quell'anno venticinquenne.

Il disco, distribuito dalla Pacific Jazz e ora disponibile in edizione CD a prezzo medio, segna il riuscito incontro tra sonorità big bands e cool jazz, con brillanti intuizioni ellingtoniane (dell'Ellington degli anni Cinquanta, per intenderci) e una struggente ballads conclusiva (l'unica a firma Livingston-Evans), ripresa del tema strumentale del film, interpretata dalla voce acerba dello stesso Baker, già ai livelli di “It Could Happen To You”, bel disco del '58.

Non avendo ancora avuto la fortuna di assistere a "The James Dean Story", difficile poter sostenere la sintonia della soundtrack con le immagini del film. Certo è che la colonna sonora si impone all'attenzione come opera autonoma, piccolo gioiello di orchestrazione jazz: basterebbe in ogni caso la stupefacente prova di Chet Baker a garantirne un ascolto appagante. 

 

 

4. Delusioni.

 

Madredeus - "Movimento" (CD - EMI, UK 2001)

Nell'eterna dialettica tra tradizione e innovazione, solo raramente ricomposta, neanche i Madredeus di quest'ultimo "Movimento" trovano il giusto equilibrio.

È un suono raffinato, quello della band portoghese più famosa al mondo, ma l'inedito innesto del sintetizzatore nelle trame popolari della chitarra di Pedro Ayres Megalhaes e nella seducente vocalità della cantante-immagine Teresa Salgueiro, non convince granché in più di una circostanza.

C'è nel disco, in effetti, un insistente indulgere in atmosfere new age stucchevoli (come in "Ecos na Catedral"), accattivanti ballate rette da arpeggi certo impeccabili ("Afinal", "O Olhar") ma di un ingombrante virtuosismo; languidi pianoforti esitanti e sfondi sintetizzati ambient che rendono le sonorità irrimediabilmente distanti, gelidamente perfette, come in altri sterili esercizi di stile contemporaneo. E lo "spazio sonoro" che ne deriva all'ascolto è quello dei cuori gelidi che osservano l'orizzonte oleografico di un documentario della National Geographic: un paesaggio perfetto, di un'intensità struggente ma austera, senza emozione, camera iperbarica degli affetti abitata da asettici androidi audiofili ("A Quimera").

Sono tempi difficili, questi, per la rinata musica popolare. La tecnologia a ricordarci che, per quanto irrinunciabile risorsa, ne è al tempo stesso la più insidiosa delle minacce. Utilizzare mezzi freddamente metronomici (lo studio digitale, il CD, il computer...) per esprimere emozione sembra la vera sfida del futuro per le arti. E i Madredeus (www.madredeus.net) hanno saputo, in passato, esprimere molto più di questo immobile, controllato "Movimento".

 

Pink Floyd - "Echoes" (CD - EMI, UK 2001)

Una compilation è cosa di attimi, sospiri che durano il tempo di un brano da tre minuti. È l'ossessione per il tempo che passa senza lasciare traccia. Un'antologia, anche, è atto di proterva ambizione - quella di raccogliere i fuochi d'artificio del repertorio - fatalmente precario, impreciso, ambiguo.

Così, la nuova antologia dei Pink Floyd - senz'altro la più pretenziosa, dopo i tentativi di "A Collection of Great Dance Songs" (1981) e di "Works" (uscita nell''83 solo per il mercato americano). Ma se la raccolta di "grandi canzoni da ballo" celava un criterio di selezione, seppur autoironico, sin dalla copertina (quanto è ballabile effettivamente la musica dei Pink Floyd?); se "Works" infilava corallini vecchi e nuovi mai arrivati in America; questa "Echoes" non rivela a prima vista una logica d'insieme che la giustifichi - a meno non si tratti semplicemente dell'ennesima operazione speculativa pre-natalizia (del tipo di "One" dei Beatles, che per lo meno un criterio l'aveva), sostengono i maligni.

Certo è che la track-list dell'antologia, nel suo mescolare un po' casualmente brani e fasi dell'epopea floydiana, lascia con l'amaro in bocca, fatalmente, per le scelte operate e le conseguenti esclusioni. Nel Museo delle Cere di questi ventisei attimi congelati, dunque, c'è la bella presenza del fantasma di Syd Barrett, che soddisferà i nostalgici della psichedelia 1967 con alcune mentine di straripante visionarietà; c'è la "terra di mezzo" della "globalizzazione floydiana", inaugurata da "Dark Side" (1973); c'è, ingombrante, la sagoma del Waters ostaggio delle sue ossessioni, che infestano "Animals", "The Wall" e "The Final Cut" ('77-'83); c'è, infine, il corso più recente dei "nuovi" Pink Floyd, effetto della diaspora watersiana, con una manciata di canzoni siliconate non proprio indimenticabili.

Al di là dello stimolante package di Storm Torgherson, un guazzabuglio kitsch di riferimenti alla trentennale storia del gruppo, insomma, il doppio CD è solo un bigino per neofiti, niente di più. Troppo limitato per risultare rappresentativo. Troppo eterogeneo per funzionare come disco in sé. Con l'attenuante della splendida, commovente "When The Tigers Broke Free" (da "The Final Cut", 1983), per la prima volta in formato CD, il requiem che Roger Waters dedicò al padre, morto nel tragico sbarco di Anzio nel 1944.

 

Sonny Rollins - "This Is What I Do" (CD - Milestone, USA 2000)

Qualche giorno fa a Reggio Emilia per una delle cinque date europee del suo tour, Sonny Rollins - settant'anni - già entrato nella leggenda jazz come "colossus" del tenore per aver inaugurato uno stile inimitabile, esce con il nuovo "This Is What I do", registrato tra il maggio e il luglio 2000. Delude, ma era prevedibile.

Da almeno cinquant'anni sulle scene, una discografia sterminata alle spalle (tra cui spiccano classici quali "Saxophone Colossus", "Newk’s Time", "Freedom Suite"), collaborazioni che sarebbe eufemistico definire "prestigiose" (Monk, Davis, Don Cherry, Bud Powell...), Rollins è sopravvissuto a se stesso come molti, d'altronde, attraversando epoche e stili che hanno infuocato spesso la stampa di mezzo mondo. Quest'ultimo disco, registrato con la collaborazione di due gruppi distinti, presenta sei brani, tre a sua firma, figli di un hard bop di maniera in cui il tema - troppo spesso esile collanina melodica - è ripreso più volte con variazioni calligrafiche minime e improvvisazioni ridotte all'osso.

Così, se la slow ballad "A Nightingale Sang In Berkeley Square" offre qualche emozione all'ascolto, riportandoci indietro nel tempo al Rollins dei Cinquanta, è la sola "Charles M." ad alzare il livello mediocre del lavoro, ma più per il duettare di piano (Scott) e basso elettrico (Cranshaw) che per i prevedibili assolo del leader.

Per il resto, è un nubifragio di suoni nati già vecchi, appunto, un boppare scolastico che, probabilmente, potrà ancora divertire dal vivo, ma su disco, a un ascolto attento, perde i colpi e si ingolfa annoiando.

Rollins, d'altronde, sembra esserne perfettamente cosciente: perché mai avrebbe intitolato il suo disco proprio così?

 

Leonard Cohen – “Ten New Songs” (CD - Columbia, USA 2001)

Ha meditato per anni, Leonard Cohen, nel monastero vicino Los Angeles del guru Joshu Saski Roshi. Lui, Jikan, "il silenzioso" nella seducente allegoria zen, è tornato da quei giorni con un disco di nuove canzoni - "Ten New Songs", appunto -, a nove anni dall'ultimo "The Future" che aveva suscitato controversi giudizi nella critica.

Resoconti più recenti delle cronache, squarciando la cortina di una strenua riservatezza ai limiti della misantropia, lo ritraevano nella comoda casa di Los Angeles circondato da scarni arredi e pochi oggetti, in un contrasto esplosivo tra colto pauperismo e hi-tech. "A pianterreno, la casa consiste di una stanza per la meditazione e di una per la ginnastica ", scrive Ira Nadel, una delle biografe più affascinate, compiaciuta della naturalezza con cui l'artista è riuscito a trovare un equilibrio nella sua esistenza privata. "Al primo piano le camere sono arredate molto spartanamente, compresa la stanza da letto, le cui uniche stranezze sono costituite da un televisore nero, un registratore portatile e un CD player. Il suo studio, addirittura, dispone di un sintetizzatore, un fax e un Mac, che utilizza per i lavori di grafica...".

Cohen, canadese di 67 anni, i più trascorsi a evitare accuratamente i riflettori della ribalta, è il Jacques Brel anglofono prestato alla musica, tra innumerevoli opere in prosa e poesia. Undici album soltanto, dall'esordio del '68 "Songs of Leonard Cohen", il musicista ha attraversato gli ultimi vent'anni quasi con riluttanza, con prove generalmente estranee alle "canzoni d'autore" che avevano sedotto l'America nel corso degli anni Settanta, facendone una delle voci più suggestive dell'immaginario giovanile dell'epoca (da ascoltare i capolavori "Songs from a Room", del '69, e "Songs of Love and Hate", soprattutto, del '71).

Così, cercare anche in questo "Ten New Songs" la magia di canzoni indimenticabili quali "Suzanne", "Bird on the Wire", "Sisters of Mercy", sarebbe un'imperdonabile ingenuità. Ma lo sciapito pop radiofonico iper prodotto di questo lavoro non rende giustizia di uno degli ultimi artisti più significativi delle scena "popular", rinchiudendolo nell'insormontabile gabbia di un 4/4 noioso, snobisticamente soft, sintetico e falso, distante una galassia dai fremiti di un rock contemporaneo agonizzante, certo, ma "reale". Ha meditato a lungo, Cohen, ed è rimasto là, sulla montagna del suo guru. L'anima imperturbabile di questa musica, nonostante certi improvvisi bagliori di poesia nei testi, è quella di una "muzak" adatta solo alla sala d'aspetto di uno studio dentistico.

 

Lu (Luisa Cottifogli) – “Rumì” (CD – Forrest Hill Records FHME41, ITA 2006)

C’è una tendenza all’interno della cosiddetta “world music” che guarda alla commistione di suoni, strumenti, culture come alle torte di Nonna Papera: smussare ogni spigolo, carteggiare le asperità, limare le irregolarità per rendere la materia omogenea, morbida, accattivante all’ascolto. In una parola, “carina”. Il catalogo delle carinerie ‘world’ (spesso alla voce: “musica mediterranea”), a far mente locale, straripa di nomi e cognomi, titoli, dischi. Qualche grande autore, che amiamo da sempre, è ‘a rischio’ (vedasi l’ultimo Riccardo Tesi), altri, semplicemente, abbracciano da sempre questa attitudine al confezionamento di cioccolatini sonori da mal di pancia.

Ultima arrivata Luisa Cottifogli, in arte Lu, recentemente voce di una delle promesse tradite della ‘popular music’ italiana, i Quintorigo (che dall’uscita di John Di Leo, va detto, non sono più stati quella stupefacente fucina di ricerca…).

Il suo primo vero album da solista (in passato si era cimentata, ricorderanno gli appassionati più esperti, in alcune raccolte di canti popolari del nord Italia) è a questo proposito paradigmatico di quanto sopra: sotto il profilo compositivo, “Rumì” è un lavoro valido, addirittura interessante: su undici dei brani proposti, ben dieci sono di composizione su testi tradizionali, uno solo (“Fé la nàna”,“Fate la nanna”) tradizionale, dal repertorio delle mondine di Medicina, legati insieme dall’errare di Rumì che “cammina da una borgata all’altra, nelle piazze, nelle fiere, nei mercati, sulla soglia della porta di casa biascica la sua orazione mendicando un soldo o un tozzo di pane”, protagonista di “un mondo sconfinato di voci che vengono dai tempi lontani e che sentiamo così vicine” (dalla presentazione di Cottifogli).

La bella copertina, il sobrio ma accurato packaging (un digipack veramente di buon gusto), l’apparato testuale, appunto, avrebbero reso l’album un vero e proprio evento, per lo meno in ambito folk, ma la scelta dei suoni, benché opera di musicisti indubbiamente validi, la stessa produzione, affossano i brani in una collanina di melodie stucchevole. Tanto che si fatica a raggiungere la fine del disco. Sarà il timbro e la grana della voce di Cottifogli (potente e intonata, certo, ma caramellosa…) che permea tutto il lavoro; saranno gli arrangiamenti o certe scontate soluzioni armoniche, ma l’album lascia interdetti, tradendo lo spirito dichiarato di Rumì, vestito di stracci a recitare la parte del povero nelle feste di beneficenza di qualche ricca dama di carità di provincia.

Spiace, perché la serie “Mediterraneo” della Forrest Hill Records ci aveva abituati a ben altro spessore (ricordiamo, ad esempio, gli ottimi lavori dei Cantodiscanto). A nostro modo di vedere, dunque, un vero e proprio passo falso.

 

Enzo Favata Tentetto – “The New Village” (CD – Edizioni Il Manifesto, ITA 2007)

Gli anni ’70 sono stati quelli della new thing, della grande black music, della innovazione nella musica, dell’interesse verso le culture popolari, gli anni di un grande sogno di libertà giovanile. Questo progetto è dedicato a quel periodo e ai tanti musicisti che allora hanno sperimentato nuovi linguaggi. (...) Ho sempre pensato alla mia musica come una tradizione in transizione. Mescolando l’arcaico talento dei Tenores di Bitti “Remunnu ‘e Locu” con la Black Music e il Free Jazz degli anni ’70, ho voluto dare l’idea del villaggio che muove verso la metropoli, un villaggio fatto di uomini che nella grande città nascondono, dietro una maschera, le proprie conoscenze e radici antiche per aura di renderle vulnerabili, con tutto il senso di sradicamento che ciò comporta, ma con la volontà di affermare la propria volontà anche in diverso contesto”.

Questa la poetica da cui muove il nuovo lavoro di Enzo Favata, polistrumentista jazz tra i più noti in Italia, già con un’ampia discografia alle spalle.

Qui, come altrove (pensiamo, in particolare, a “Voyage en Sardaigne”, del 1999, e a “Made in Sardinia”, del 2003), l’idea di fondo è appunto quella di fondere forme del jazz con la tradizione sarda, affidandola a un’istituzione del canto popolare mondiale, i Tenores di Bitti, da sempre collaboratori del musicista.

Ma se in passato questa fusione era risultata compenetrante della musica, pervasiva e profonda, ricca dei contributi di storie e stili difformi (anche grazie alle collaborazioni con Cuncordu di Castelsardo, Tenores di Orosei, Totore Chessa, Luigi Lai...) integrati tra loro in un’idea di brano ‘mutante’, aperto, espressione di una musica che avevamo definito “profondamente espressiva, erratica, sincretica, manifesto di un ‘folk geneticamente modificato’ che allude a universi in divenire”, qui il progetto (tributare gli anni settanta) sembra imbrigliare gli esiti musicali, appiattito com’è sull’estetica di un free jazz di maniera, nato vecchio, senz’anima (si ascolti invece, per restare nell’ambito dell’etichetta del Manifesto, quel capolavoro che è stato “Reunion” dell’Art Ensemble of Chicago...).

Pur ben suonato (la tecnica dei musicisti, al solito, è assolutamente fuori discussione!), il disco soffre di un’anima duplice, dalle componenti apparentemente inconciliabili: da un lato i Tenores di Bitti, straordinaria macchina di armonizzazioni vocali; dall’altra il sestetto jazz. Due dimensioni espressive che, solo raramente, sin dalla composizione dei pezzi (dalla loro ideazione) risultano integrate giustificando l’idea di “tentetto” voluta da Favata.

Si ascolti l’iniziale “Comare Mia” (11 minuti e 02), assolutamente paradigmatica dei limiti che denunciamo:

  1. il brano (Favata si ispira a due canti tradizionali – “Quartinos” e “Ballu Seriu” di poeti vari - da sempre nel repertorio dei Tenores) si apre con una breve intro strumentale per contrabbasso, tastiera, chitarra e batteria [00.00-00.49];

  1. da cui si leva una performance vocale dei Tenores di Bitti che espone il tema [00.50-01.10];

  1. il sestetto riprende il tema in quattro strofe, due della stessa tonalità del cantato, due su variazioni [01.11-01.50];

  1. i Tenores riprendono brevemente il cantato [01.51-02.12];

  1. sul sax di Favata si riprende il tema in quattro strofe, come al punto c [02.13-02.52];

  1. lunga sequenza di improvvisazioni basata su concatenate variazioni del tema iniziale [02.53-10.04];

  1. ripresa del tema da parte dei Tenores di Bitti, chiusura in dissolvenza con contrappunti di sax [10.05-11.02];

In “Comare Mia”, come si evince dalla sequenza di passaggi, il contributo dei Tenores è solo strumentale all’esposizione del tema in apertura e chiusura del brano. Per il resto, il corpus principale del pezzo è articolato in improvvisazioni sul tema e aleatorietà (rumorismi acustici, lievi effetti elettronici...) da ‘new thing’ del jazz (Coleman, Shepp, Sanders...), confinando a ruolo di comprimario (certo illustre) un patrimonio espressivo che avrebbe potuto contribuire in ben altro modo, attenuando oltretutto l’indubbia difficoltà dell’ascolto (oltre settanta minuti la durata del CD).

La “Boche ‘e notte” registrata coi Tenores nel 2003 per “Made in Sardinia” la prova convincente, esemplare, che un incontro virtuoso, davvero compenetrante, è (stato) possibile...

 

Cowboy Junkies - "Open" (CD - Cooking Vinyl, USA 2001)

Ci avevano abbagliato all'esordio con "The trinity session", dodici anni fa (RCA,1989). Un disco irripetibile, avevamo pensato, distillato dal miglior country-rock di quei giorni. E infatti, nel corso degli anni, dopo prove comunque dignitose ("The caution horses" usciva nel 1990), un album come quello i Cowboy canadesi non l'hanno più registrato. Qualche pezzo qua e là, di tanto in tanto, più a riacutizzare le aspettative tradite che ad affermare un nuovo corso, e poco altro.

Questo "Open", pubblicato dall'intraprendente Cooking Vinyl (recente chioccia degli XTC dopo il tormentato divorzio con la Virgin), è un'operina scialba, disomogenea e ripetitiva, scavata nella sabbia della più prevedibile west-coast californiana. Pezzi privi di identità, a corto di idee, in cui quello che un tempo era uno dei tratti distintivi del gruppo - la voce suggestiva di Margo Timmins, tra le più affascinanti sulla scena - oggi è un carillon arrugginito, sommerso dai decibel invadenti della chitarra elettrica e dal fragore della batteria. Alla fine, nell'irritante eccesso della produzione, due soltanto le perle: l'attacco da brivido dell'iniziale "I did it all for you", con l'arpeggio di acustica e la voce sussurrata in eco che si sovrappone in dissolvenza su un assolo di chitarra elettrica distorta, e la delicata ballata lenta "Thousand year prayer", impreziosita da grappoli di note slegate al piano.

Troppo poco, per il nuovo album di un gruppo che era riuscito a emozionare critica e ascoltatori con un intenso campionario di ballate struggenti, di quelle che fa bene tornare ad ascoltare in preda alla delusione.

 

Kepa Junkera – “Hiri” (CD – Lagun Aro, SPA 2007)

Continuano le carinerie di Kepa Junkera, paladino dell’organetto diatonico contemporaneo, genio, si continua ad affermare, della composizione. L’ultimo dei suoi dischi, uno specchietto sonoro per le allodole appassionate di folk. Traccia n. 3, “Lurkoi-Busturian”, ‘inno alla gioia’ di barillesca melodia: un tripudio di voci angelicate, un incedere in crescendo di archi che, immaginiamo, farà felici le anime belle in circolazione. Da proporre per i prossimi giochi olimpici o per qualche manifestazione internazionale a sfondo benefico.

Torta affogata nella crema shantilly, questo “Hiri”, già tributato come ‘album dell’anno’ e bla bla giornalistico di retorica, infinita ipocrisia, è in realtà disco mediocre, noioso e ripetitivo. Lontano dalle originali sorprese di che lo impose al mondo sonoro, l’album si trascina stancamente in un politically correct inappuntabile, da manuale cencelli della discografia dell’oggi: un po’ di suono pseudo world, un po’ di idiomi etno (Enzo Avitabile e i Bottari di Portico in un simil-rap da sagra di paese), un po’ di minimalismo e di iterativismo colto, timbriche esotiche quanto basta, collaborazioni internazionali di tutto rispetto, perché ormai anche il suono è ‘global’…

È difficile affrancarsi dallo stereotipo di genio e tornare ad essere semplicemente musicisti creativi, capaci di piegare la musica alla propria identità e urgenza poietica.

 

Fiamma Fumana - “Home” (CD - Mescal, ITA 2003)

Con tutto questo coro monodico di entusiastici giudizi in circolazione si rischia di sembrare reazionari a voler criticare il secondo album dei Fiamma Fumana, “Home”, da poco uscito per la Mescal/Omnium. Eppure, a dispetto dell’interesse suscitato dall’esordio “1.0”, giusto due anni fa, il nuovo lavoro tradisce ancor più i limiti di un progetto che, al di là dei proclami ad effetto, vorrebbe riattualizzare il folk con i fichi secchi di una “contaminazione” elettronica riuscita solo parzialmente.

Se “1.0”, acerbo manifesto di un’ardita concezione di tradizione senza più vincoli pseudo-filologici, aveva legittimamente suscitato interesse per l’esito tutt’altro che trascurabile di alcune rivisitazioni (“Quattro Piemontesi”, ad esempio...), “Home” non aggiunge granché in termini di esplorazione di quell’ipotesi affascinante e lascia il percorso ancora incompiuto, aggiungendo semmai dubbi e perplessità a quelle che già c’erano.

Cosa non convince in questo disco? La rigidità strutturale dei brani, anzitutto, la fredda operazione di arrangiamento che tratta ogni brano, tradizionale o di nuova composizione, allo stesso modo, giustapponendo le due anime del progetto (l’una – folk -, acustica e melodica; l’altra – elettronica -, rumoristica e timbrica) senza mai generare tensione alcuna, ma al contrario lasciando che l’effetto pervasivo sia quello di facili, orecchiabili canzonette dance, piacevoli certo, ma per lo più indifferenziate. A voler ragionare di elettronica, poi, appare decisamente modesta e riduttiva la pratica di intervenire nelle armonie tradizionali/popolari con loops e live electronics, quando da trent’anni sia in ambito colto che “popular” e tradizionale l’elettronica ha mostrato nei suoi esempi più avanzati quali siano le sue potenzialità reali (Neu, Can, Faust, Garmarna, Hedningarna...).

E se la sola “Bella Ciao” suscita emozioni più per le voci naturali delle Mondine di Novi che per l’abusato sfondo sonoro di tastiere, i restanti pezzi anche dopo ripetuti ascolti risultano senza identità, “modificati” da interventi solo superficiali, ridondanti ritmicamente (unica variabile il ritmo delle drum machines), con lievi, risibili colori rumoristici qua e là.

Spesso si batte il piede, certo, come nella migliore tradizione popolare, verrebbe da dire; ma l’ambientazione è quella gelida di una discoteca postmoderna, dove l’emozione è come devitalizzata, siringata via, e sono rimasti i gusci vuoti di uno scaltro tecnicismo à la page.

Oltre ogni logoro moralismo settoriale (è innegabile che i Fiamma Fumana riscuotano un grande successo, imparagonabile alla maggior parte delle band italiane di folk revival...), questo che appare come un episodio interlocutorio della strada coraggiosamente imboccata dal gruppo, ci induce a pretendere molto di più in termini di sperimentazione e ricerca.

L’attualizzazione della tradizione crediamo richieda più coraggio, meno timori reverenziali, più rischi: questo insipido ibrido sonoro avvicinerà forse più giovani, ma non è scontato che aggiunga qualche elemento critico significativo nella straordinaria epopea del folk italiano, scollato com’è oggi dalla realtà dei vissuti, sempre meno capace di raccontare il nostro tempo.

 

Kachupa – “Gabrovo Express” (CD – World Music Magazine, ITA 2006)

L’abbattimento dei costi di produzione del disco, la tecnologia facilmente accessibile a chiunque, hanno reso la produzione di nuova musica, anche in Italia, un fenomeno esplosivo. Troppi titoli, a voler ben vedere, il più di scarsa qualità. Quelli che un tempo erano demo registrati alla bell’e meglio su cassetta, oggi assurgono alla dimensione del vero e proprio album, spesso ancor prima che il gruppo o il musicista abbiano fatto esperienza di palco, si siano macerati nel sudore dell’esibizione di piazza.

È questo il caso dell’ultima produzione della rivista “World Music”, allegata al numero in edicola in questi giorni (il 78). A prima vista, la copertina del CD della “folk band” Kachupa, prometteva molto più di quanto non mantiene nell’ascolto: una locomotiva fumante, il Gabrovo Express (titolo del disco), lanciata verso i lidi più disparati e lontani in nome della “world music”, etichetta sempre più ambigua e sotto cui i titolari della cultura ufficiale continuano furbescamente a contrabbandare di tutto e di più….

E se il brano omonimo, a firma del gruppo, illudeva che i territori esplorati avrebbero abbracciato area balcanica e medio-orientale, i tradizionali che seguono lasciano interdetti soprattutto per il gusto assolutamente discutibile degli arrangiamenti (ascoltare l’ennesima versione de “Lu Rusciu de lu mare” con la ritmica imbarazzante di un’orchestrina di liscio della balera sotto casa) e, quel che certo è peggio, la mancanza di “calore” interpretativo: Kachupa riesce a stravolgere addirittura in peggio classici del popolare quali “Tammuriata Nera”, “La Bergera”, “Riturnella”, “Nanneddu Meu”, “Jan D’Leiretto”, già pesantemente logorati da produzioni affrettate, prive d’amore e di scarsa qualità: quante riproposizioni di “Riturnella” o de “Lu Rusciu de lu mare” dovremo ancora ascoltare prima di convincerci che questo sistema di produzioni discografiche, di progetti (come sostiene in genere un ufficio stampa), di “cultura” non regge?

Può sembrare retorico ma lo scriviamo una volta di più: meno produzioni discografiche (le cento scarse che mediamente escono in un anno sono sin troppe considerata la qualità media…) e più concerti. Meno istinti predatori e commerciali e più cultura. Meno carta patinata e più sostanza…

Il folk, l’abbiamo scritto e ripetuto in molte occasioni ormai, ha bisogno di riappropriarsi della sua storia, della sua identità, dei suoi luoghi. A meno (ed è ciò che accade oggi) di considerarlo meramente una “forma musicale” come le altre, da vendere. Con l’effetto imbarazzante di questo “nuovo” CD.

 

Corou de Berra – “Maschi, femmine & cantanti” (CD - Forrest Hill Records, ITA 2005)

Dalla sua morte avvenuta nel 2003, com’è costume nelle riabilitazioni post-mortem, si sono succeduti numerosi tributi all’opera di Fabrizio De André – saggi, biografie, DVD, album… - non tutti di specchiata buona fede e inequivocabile qualità (breve digressione bibliografica: delle molte parole scritte pubblicate sul cantautore meritano di essere lette soprattutto quelle di Franco Fabbri del saggio “Il suonatore Faber”, apparse sul volume “Belin sei sicuro? Storia e canzoni di Fabrizio De André”, a cura di Riccardo Bertoncelli, Giunti 2003).

Il Corou de Berra, gruppo nizzardo con nove dischi all’attivo e una solida attività live soprattutto in Francia (www.coroudeberra.com), aggiunge all’esegesi dilagante una rilettura di nove brani del cantautore genovese attingendo in particolare dai suoi primi lavori.

Va subito detto che il progetto - che nelle intenzioni del direttore artistico Michel Bianco era quello di “appropriarci di una dozzina di canzoni di Fabrizio De André, cercando di conservarne la musicalità della lingua, l’originalità della poetica, il tratto e la visione globale del mondo, tipica di Fabrizio” - convince solo in minima parte, sortendo effetti controversi proprio a cominciare dall’elemento portante della poetica del musicista - la voce -, strumento protagonista del disco nell’impiego polivocale “a cappella” del Corou.

Perché, se gli arrangiamenti strumentali a impianto cameristico risultano funzionali nel definire uno sfondo sonoro discreto con cui valorizzare l’espressività delle voci, sono proprio i registri interpretativi e la cadenza a lasciare perplessi, in particolare quando ricalcando le armonie originali finiscono per ridurre alcuni brani a prevedibili filastrocche infantili, tiritere popolaresche lontane anni luce dalla poetica e dalla sensibilità di De André (esempi su tutti, “La guerra di Piero” e “Bocca di rosa”…). In altre circostanze, inoltre, è il timbro vocale della voce solista a risultare inadatto: nel caso di “Princesa”, addirittura, canzone dalla dirompente drammaticità, l’uso del vibrato conferisce al pezzo un carattere melodrammatico assolutamente fuori luogo e ai limiti del grottesco, se comparato alla voce profonda, evocativa, severa dell’interpretazione originale di De André.

Sono esecuzioni cristalline, non c’è dubbio, quelle del disco, in cui è esaltato il lavoro di produzione e il cesello dei suoni, ma di una stucchevolezza addirittura fastidiosa per chi, come noi, ama il torbido delle sonorità dell’ultimo De André - quello di “Crueza de Ma”, “Le Nuvole” ed “Anime Salve”, in particolare - la sua straordinaria “poesia del/dal basso” che siamo convinti mal si presti ad essere reinterpretata con le logiche dell’esecuzione tradizionale (partitura, metronomo, voci impostate ...).

È certamente implicito nei rischi di una rilettura alternativa dell’originale perdere la misura del significato profondo di un’opera, la sua stessa ragion d’essere; ma ci è parso per lo meno discutibile arrivare a stravolgerla a tal punto da disinnescarne la carica emozionale, banalizzandola, edulcorandone la straripante poeticità. Riducendo quel fiore nato dal letame a un’inutile collezione di palline di vetro natalizie.

 

 

5. Sorprese.

 

Chuck E. Weiss - "Old Souls & Wolf Tickets" (CD - Rykodisc/Slow River, USA 2002)

Chuck E. Weiss è un licantropo di cinquant'anni che canta blues. Il suo ultimo disco, che segue l'ottimo "Extremely Cool" del '99, documenta una ritrovata seconda (o terza?!) giovinezza, dopo quasi trent'anni sciupati a sussurrare gospel, boogie-woogie, ragtime nelle bettole più sordide dalle parti di Los Angeles, ai margini delle scene che contano.

Oggi, con imbarazzata indulgenza, è considerato lo zio meno fortunato di Tom Waits per la grana ruvida della voce, i testi strappati da vite ai margini, l'andamento irregolare e sghimbescio della musica, che è sì blues, ma nell'accezione più ampia. Un crocevia polveroso di New Orleans, attraversato su una sferragliante Buick del '55 da cui una radio manda pezzi di jungle music, R&B, rock'n'roll, falsetti ubriachi. Come babau-Bukowski, Weiss l'anima la riduce in pezzi, la strangola, la riempie di botte, la insulta come farebbe un magnaccia, poi scatarra, vomita, piange fino a perdere le lacrime.

E se all'ascolto di brani come "Sweetie-O" o "Anthem for Old Souls" non si può, appunto, non restare stregati dalla stessa magia con cui Waits interpretò "Blue Valentine" (era il 1978, ricordate?), in "Tony Did The Boogie Woogie" e "Sneaky Jesus" lo sfregio è quello del Captain Beefheart "primiannisettanta", di dischi del tipo di "Clear Spot" e "The Spotlight Kid" maltrattati frettolosamente da certa critica oltranzista: qui, come il Capitano là, Weiss si invola a precipizio in funky-blues indemoniati che tentennano su pattini quasi-rap fino a cadere rovinosamente per terra, con la Buick del '55 che prende male la curva, perde la carreggiata, finisce contro il filo spinato di un campo sotto lo sguardo attonito e imperscrutabile delle mucche.

 

Giovanni Straniero-Mauro Barletta - “La rivolta in musica. Michele L. Straniero e il Cantacronache nella storia della musica italiana” (libro – Lindau, ITA 2003)

Un libro breve (solo 163 pagine) per tributare l’opera e l’azione di un grande intellettuale della cultura popolare italiana, Michele L. Straniero. A curarlo i giornalisti Mauro Barletta e Giovanni Straniero, nipote di Michele, che hanno raccolto e sintetizzato molteplici materiali e fonti dirette di personalità della cultura (dai fondatori di Cantacronache ai cantautori degli anni Settanta) per offrirne un ritratto a tutto tondo, ricco di provocazioni e spunti di riflessione sul contemporaneo: perché miglior tributo a Straniero non poteva essere che quello di renderlo ancora “attuale”, per certi aspetti precursore, piuttosto che ridurlo a mito impagliato da esporre sotto teca.

Straniero (Milano, 1936-Torino, 2000) ha attraversato la storia del secondo Dopoguerra italiano con l’intelligenza e l’irruenza dei grandi anticipatori, con una significatività inversamente proporzionale all’ignoranza che ha dovuto combattere: sua l’intuizione di Cantacronache, movimento di provocazione nato per contrastare la cultura popolare “bassa” della canzonetta sanremese (ma sviluppatosi molto oltre e con obiettivi che si sarebbe capito dopo ben maggiori...); sue le numerose ricerche multidisciplinari a carattere etnografico e musicologico (tra i saggi, fondamentale “Le canzoni della cattiva coscienza”, scritto con Liberovici e De Maria, pubblicato da Bompiani nel ’64); suoi i tanti dischi e le cassette cantate e curate per i Dischi del Sole e le edizioni Albatros (“Con i comforts della religione”, del , e “Quando ero monaca”, del , quelli a cui sono più affezionato...), che risolvevano efficacemente la storica problematicità del rapporto tra intellettualità e pragmatica offrendosi come possibile modello di ricerca.

Con questo bel libro, gli autori si propongono di stimolare nel lettore una lettura personale della storia di Michele L. Straniero attraverso l’appaiamento delle testimonianze di suoi amici e collaboratori (Amodei, Virgilio Savona, Liberovici...) - e di coloro che in qualche modo ne hanno raccolto la pesante eredità (dai cantautori Guccini, Vecchioni, Lolli, Bertoli ai protagonisti della scena folk Giovanna Marini, Teresa de Sio, per giungere ai più giovani Zulu Persico dei 99Posse e Luca Morino dei Mau Mau) - e la fedele ricostruzione storiografica dei contesti, anche se la mole di citazioni e il “peso” dei fatti documentati non può non indurre a considerare in tutta la sua evidenza la straordinarietà della figura di intellettuale infaticabile e colto, la passione profusa nello studio e nella ricerca, il vezzo della provocazione e del divertissement dadaista, la prorompente contagiosa idea di libertà sottesa nelle sue opere...

E la vera scommessa dell’oggi, per mantener viva veramente la “lezione” di Straniero, appare sempre più quella di approfondire i fenomeni, documentarli, impegnarsi nella circolazione delle conoscenze senza perdere il piacere per le cose della vita... Proprio il contrario di quanto, purtroppo, sembrano fare coloro che tentano di accreditarsi come i diretti continuatori della sua fondamentale esperienza e che, al contrario, lavorano per realizzare una cultura museale il cui unico scopo rimane quello di vendere merce per esercitare potere.

 

Blend - "Far Leys. Tribute to Nick Drake" (CD - Ponderosa Music&Art, ITA 2001)

Sono sei le canzoni di questo mini-Cd, tributo all'opera di Nick Drake, il folker inglese prematuramente scomparso a soli 24 anni, nel 1974, per un’overdose accidentale di barbiturici. Anche i Blend (www.blendsite.com), dopo le convincenti escursioni nel "folk-pop psichedelico" di "Waterjag" (1997) e "Cellophant" (2000), ne riprendono alcune pagine più conosciute del catalogo in una rilettura rispettosa dell'originale, ben suonata, a tratti persino suggestiva. Merito indubbio della bellezza delle ballate scelte, che coprono l'arco temporale dell'intera, esigua produzione del cantautore(dall'esordio di "Five Leaves Left" e “Bryter Layter”, rispettivamente del '69 e ’70, allo splendido "Pink Moon" del '72), ma merito anche del misurato, minimale trattamento scelto dai musicisti che riescono a non snaturarne l'identità e il "mood" originale.

Due soltanto i limiti dell'operazione: la voce solista, ricalcando lo stile interpretativo del cantautore inglese, rivela fatalmente di non reggere il confronto con quella di Drake, mentre la conclusiva, carezzevole "River Man", sostenuta dal piano e da un delicato lavoro dei piatti, adotta quasi alla lettera – in un plagio a dir poco imbarazzante! -, lo straordinario arrangiamento voluto qualche anno fa dal genio jazz Brad Meldhau,inquinando lo scrosciare dell'acqua in sottofondo con liquami "new age".

Peccati veniali, in ogni caso, per un giovane gruppo tra i più originali dell'italico underground (ne è la prova "Slow Days", l'unica ballata di loro composizione del CD) che ha il merito di tener vivo il ricordo di un misconosciuto autore folk la cui visionaria poetica ha marchiato profondamente la sottocultura giovanile di questi ultimi vent'anni.

 

Welcome to Caffe Lena” (LP – Biograph Records, USA 1972)

Siamo qui per ascoltare cosa avete da suonare” piuttosto che “siamo qui, intratteneteci” era la filosofia del Caffè Lena, la storica coffeehouse di Saratoga Springs, New York, che dagli inizi degli anni sessanta ha visto salire sul piccolo palco un’infinità di musicisti e gruppi di folk revival americano e inglese.

Ci sono parecchie buone ragioni perché il Caffè Lena è così bello”, scrive nelle note di retro copertina Michael Cooney. “Su tutte perché c’è Lena Spencer. Anche lei suona, è della parte. Piccola e grande; grande da ; sempre presente, anche se quasi fuori controllo (nelle serate incasinate); un gran cuore, caldo e forte; un sorriso e un benvenuto per tutti... Lei è il caffè e il Caffè è lei. Ha visto passare tutti. Ha visto di musicisti andare e venire da qui. Quasi tutti i musicisti che avessero qualche legame con la musica folk sono stati qui, da Almeda Riddle a Missisipi John Hurt fino a Bob Dylan. Il suo caffè era lì prima del Boom del Folk ed è passato attraverso il periodo della follia dell’Hootenanny e sarà al suo posto quando arriverà la prossima”.

Questo “Welcome to Caffe Lena”, un pesante vinile trovato di recente tra gli scaffali di un negozietto di provincia, è stato pubblicato nel 1972 dalla storica Biograph Records di New York, tra i titoli di uno dei cataloghi più prestigiosi di musica americana (con dischi di Leadbelly, Ethel Waters, Scott Joplin, Reverendo Gary Davis, per fare qualche nome...).

Tredici brani in scaletta, registrati dal vivo quell’anno più per piacere documentale che per scopi commerciali, raccoglie alcuni nomi minori del folk angloamericano di quegli anni:

MICHAEL COONEY, purista della tradizione autore di vari album (“The Cheese Stands Alone”, uscito per la Folk-Legacy, è forse il più conosciuto); un sorprendente PAUL GEREMIA (con un bellissima “Elegant Hobo” per chitarra e voce), ‘minore’ del folk revival assolutamente da (ri)scoprire; l’ottima voce di ROSALIE SORRELLS, autrice di raccolte di canti tradizionali dell’Idaho e dell’Utah; l’ironico PATRICK SKY, con una provocatoria presa in giro di papa Giovanni (“Giovani Montini, the Pope”) cantata à la Dylan; il mandolinista FRANK WAKEFIELD, noto soprattutto negli ambienti del bluegrass, e la stessa LENA SPENCER, accompagnata da chitarre e contrabbasso.

Un disco che restituisce l’atmosfera intima del locale, il senso dell’esperienza nel suo farsi, la spensieratezza dei tempi, senza protagonismi e imposture commerciali.

Un piccolo grande gioiello capitatoci tra le mani per caso. Come può accadere ancora, di tanto in tanto, a chi come noi non ha perso il piacere di frequentare i polverosi negozi di provincia.

 

Greg Osby - "Symbols Of Light (A solution)" (CD - Blue Note, USA 2001)

A dispetto della copertina retrò del suo ultimo album, un ritratto seppiato anni '40 incorniciato in oro, Greg Osby sorprende con una musica innovativa, affascinante, mischiando jazz a contemporanea e reinventando il concetto stesso di quartetto. Nato a St. Louis (Missouri) nel Sessanta, quindici dischi registrati a suo nome dal 1987, Osby è il classico "enfant prodige" sconosciuto alla maggioranza, un sassofonista di talento attratto dalla sperimentazione. Si è fatto le ossa a New York, naturalmente, con artisti del livello di Dizzy Gillespie, McCoy Tyner, Lester Bowie prima di strappare un contratto alla storica Blue Note. Devoto al tenore di Sonny Rollins, sedotto dalla maestria compositiva di Lee Konitz, in questo prodigioso "Symbols Of Light (A solution)" propone un'idea di jazz avventurosa, nondimeno eccitante: undici brani in precario equilibrio sul filo di una musica che sembra l'hard bop più avvincente senza esserlo, "disturbato" com'è dalla presenza discreta di viola, violini e violoncello che iniettano nelle ritmiche irregolari di contrabbasso e batteria elementi di dissonanza, variazioni minimaliste, coloriture, arditi cromatismi. Sono microviaggi condotti dal sassofono (tenore e contralto) del leader, proteso ad estendere le nobili, sconvolgenti visioni che fecero esplodere il jazz quarant'anni fa (Ayler, Coleman, Coltrane) lasciando sgomenti i sostenitori della consonanza. Nel disco, il tessuto sonoro è fitto, denso di riferimenti, essenziale; il quartetto di Osby illusorio, ingannevole, piegato com'è a un "interplay" di impressionante, ispirata coesione, in cui pianoforte, batteria e contrabbasso giocano un ruolo non meno determinante del sax. "Con ogni mio progetto", dichiara il sassofonista nelle note del booklet, "è mia intenzione mandare all'aria tutte le aspettative". Detto. Fatto.

 

Marlevar - “Marlevar” (CD - Forrest Hill Records, ITA 2002)

In un catalogo ricco di opere coraggiose e innovative (Lino Cannavacciuolo, Cantodiscanto, Nuova Compagnia di Canto Popolare…), in cui l’idea di tradizionale è affrancata dai facili rischi della mummificazione autocompiaciuta e accetta la sfida del metissage contemporaneo, la fiorentina Forrest Hill propone l’opera prima di Marlevar, ensemble raccolto intorno alla figura di Davi Arneodo, già con Troubadours de Coumboscuro, autore delle musiche e dei testi dell’album.

Marlevar”, il titolo, è ricco di spunti melodici suggestivi e audaci incontri armonici cantati in lingua provenzale dalla voce brillante di Luisa Cottifogli, autrice lo scorso anno dell’autoproduzione “Aiò Nenè”. L’ottimo gruppo di musicisti che la affiancano (Marco Ficarra, violino e chitarra; Luca Allievi, chitarra; Roberto Chiriaco, basso elettrico, contrabbasso e clarino; Edoardo Bellotti, batteria e percussioni; Davi Arneodo, flauti e organetto), coaudiuvato dall’Athena String Quartet (due violini, viola e violoncello), lavora su un’idea di materia sonora ampia, in cui nuove tecnologie e vecchie armonie raggiungono il più delle volte un equilibrio incantato - radici piantate nelle magiche valli d’Occitania con il cuore e lo sguardo in volo al di là delle Alpi, nel Mediterraneo – realizzando efficacemente una sintesi espressiva che attraversa il miglior folk italiano e certo pop-rock d’autore, “straniata” dall’impiego nel cantato di un idioma duttile e musicale come il provenzale.

Dins lo vert di tiéi uéi” (“Nel verde dei tuoi occhi”), dall’incalzante sezione ritmica (basso-batteria-archi), la lieve “Stella di Venere”, un delicato tre tempi in cui fraseggiano suasivamente violini e accordeon, “Un’immensa Claridad”, con un respiro sognante dalle inflessioni iberiche e il conclusivo tributo al genio di Fabrizio de Andrè di “Megu Megun”, gli episodi più impressivi del lavoro, raro esempio di affresco dell’oggi, la cui grondante poeticità dell’intimo rivendica fieramente la storia e l’identità di un popolo e di una terra che è Occitania, Provenza, mondo – in cui, come cantano i Marlevar, “siamo la nostra fortuna”.

 

Matthew Grist – “RaNdall LiNes” (CD – Tram Records , UK 2004)

L’abbiamo scritto molte volte, ormai. Chi ha tentato negli anni di cimentarsi in composizioni “drakeiane” o “barrettiane” o à la Buckley a nostro avviso ha fallito quando ha cercato di sovrapporsi al modello originale, tentando riproposizioni simil filologiche o riletture “d’atmosfera”.

La critica “ufficiale”, d’altronde, non perde occasione per lanciare periodicamente l’ennesimo, presunto clone di qualsivoglia figura culto del passato: è toccato a Brychan, Eric Wood, Elliott Smith, Devendra Banhart, per fare qualche esempio recente, essere paragonati al chitarrista di Tamworth on Arden, quando negli anni Ottanta era toccato a Julian Cope, Robyn Hitchcock, Paul Roland, Anthony Moore fare i conti con la sacra sindone di Barrett.

È la sindrome delle “cover band” che insidia le dinamiche della creazione musicale contemporanea, la dipendenza psicologica dei più dall’”originale” che preclude la capacità di intercettare il “nuovo”…

Della voce di Matthew Grist, quindi, non diremo che ricorda, sin dal primo ascolto, Nick Drake piuttosto che Jeff Buckley, né che i suoi brani per sola chitarra sembrano le scheletriche ballate di un Devendra Banhart o del Nick Haeffner acustico dell’unico, splendido “The Great Outdoors”. Matthew Grist, inglese, ventun anni, con il suo disco d’esordio, autoprodotto e registrato in bassa fedeltà, distilla nove brani dai titoli ispirati alla sensibilità bucolica tutta inglese che pretendono, impongono, un’attenzione diretta, autentica, non inquinata da riferimenti/rimandi altri. Sarebbe un imperdonabile errore, d’altronde, considerata l’unicità della sua bella voce incastonata in strutture armoniche semplici e rari contrappunti di pianoforte o archi, che rendono “RaNdall LiNes” una scintillante, splendida prova d’autore, ricca di intensa poesia contemporanea, carezzevole e brutale come certe storie dell’oggi.

In attesa del seguito, previsto pare nei primi mesi di quest’anno (www.matthewgrist.com).

 

Mascarimirì - “Kaddé” (CD - Radio Popolare-Sensible, ITA 2001)

Tra gli oltre centocinquanta gruppi che negli ultimi dieci anni hanno rappresentato il rinascimento della musica tradizionale nel Salento, tra autentiche realtà radicate e operazioni puramente speculative (d’altronde, si sa, c’è chi azzarda a suonare pizziche e tarante anche in Toscana, piuttosto che in Emilia-Romagna…), i Mascarimirì si impongono per l’assoluta peculiarità del progetto. Più gruppo live che da studio, con una riconosciuta presenza nel territorio, il quartetto guidato da Claudio “Cavallo” Giagnotti (voce, fiati, tamburi a cornice) propone un lavoro coinvolgente e affascinante, rivisitando la tradizione attraverso un’operazione di arrangiamento sonoro assolutamente convincente.

Sufficiente l’ascolto del tradizionale “Conosco na carusa”, qui in una ripresa dal vivo, vertiginosa taranta basata su tamburello, chitarra e basso elettrico, con un’attitudine che potremmo definire “punk” se non rischiassimo di venir fraintesi: un arrangiamento che trascina l’ascoltatore nel vortice di suoni ipnotici diretti costringendolo all’irrefrenabile movimento del corpo.

Kaddé”, sei brani tradizionali e sette originali, esibisce un’omogeneità rara, dettata da un trattamento dei suoni coraggioso e disinvolto, risultato di un sapiente, solido mescolamento di strumenti acustici ed elettrici, di generi e stili espressivi (folk, rock, avanguardia, ska…) in cui è la ritmica (in particolare del basso elettrico) a segnare profondamente il lavoro e la chitarra a definire un’atmosfera “psichedelica” che, rimandando a un’estetica più rock che tradizionale, non rinuncia in alcun modo alla matrice folk. Un album che impone più ascolti, che costringe al movimento e allude a una dimensione comunitaria del fare musica che neppure certi dischi integralmente dal vivo sanno rendere.

 

Dave Douglas - "Witness" (CD - Bluebird, USA 2001)

"Questo progetto ha avuto inizio in Italia, mentre mi trovavo in treno vicino al confine jugoslavo. Stavo leggendo un articolo piuttosto noioso sull'incremento della produzione di armamenti da parte dei costruttori americani durante l'intervento della Nato in Yugoslavia. Non molto lontano da dov'ero, mezzo milione di persone era accampato nel fango senza molte speranze di scappare o ritornare a casa. Come al solito, c'era chi ci stava speculando sopra. L'idea mi rese ancora più incazzato nei confronti di quella "guerra". Mi sentivo così fortunato e privilegiato a non trovarmi in quel campo melmoso, a poter suonare tutte le sere la mia musica davanti a un pubblico attento. Ma lo choc per ciò che stava accadendo rendeva difficile separare quello che facevamo dall'orribile e continuo abuso di denaro e potere che è alla radice di questo genere di situazioni."

Queste le ragioni dell'ultimo lavoro di Dave Douglas (www.davedouglas.com), dotato trombettista del New Jersey alla sua diciottesima prova discografica: "Witness", è un album di "testimonianze", appunto, contro le guerre e le speculazioni che si portano dietro.

Sono nove brani strumentali composti per piccola orchestra - che include, tra gli altri, il violinista Mark Feldman, Joshua Roseman (trombone) e la voce di carta vetrata di Tom Waits - ispirati all'opera di uomini di cultura o organizzazioni che negli anni hanno coraggiosamente professato la nonviolenza a costo della loro stessa vita. Un disco che costringe a un ascolto impegnativo, denso e traboccante di sonorità che sconfinano arditamente dal trascinante hard-bopping del miglior jazz afro-americano per adagiarsi sugli ispidi cuscini di spilli dell'avanguardia jazz europea (John Surman? La Jazz Composer Orchestra? Il Charlie Haden della pluridecorata "Liberation Music Orchestra"?). Un avvincente groviglio di fortissimi e pianissimi, con orchestrazioni incastonate qua e là che riattualizzano forme radicali della musica "colta" d'inizio novecento, quella di Stravinsky, Bartok e Varese. Un lavoro complesso, da avvicinare a più livelli, come suggerisce lo stesso Douglas: "Godetevi questo disco come pura e semplice musica. O cercate di approfondire di più le fonti di ispirazione e immergetevi."

 

Miquel Gil – “Katà” (CD – Galileo GMC005, SPA 2005)

Miquel Gil ha la faccia del pugile con il vizio del bere e la vita storta. Ci si immagina, guardandolo sulla copertina, proprio la voce che ha: strozzata, roca sul punto di scomparire, forte e flebile come l’ultimo, drammatico Chet Baker.

È appoggiato a una parete con le mani in tasca, da guitto irridente, e tu sai che mettendo il suo CD nel lettore non avrai molto altro da fare che ascoltarlo. Perché non è musica da sottofondo, la sua, è poesia senza retorica che ti sale dentro e ti scuote. È sangue e sudore, calore e vomito, è soprattutto passione. Undici pezzi che sono un rosario dell’anima sgranato nel pozzo profondo del tempo che va via veloce: è fado, fandango, bolero, cantato con un castigliano che lascia lì, tramortiti, e racconta di un universo “basso” (“katà”, appunto), di cose umili, spurie, vere, contrapposto a un mondo di (solo presunta) “pureza”. “Parola oscena”, scriveva Julio Cortazar.

Brevi attimi strappati dal gioco dell’esistere degli uomini, come in “Bolero (ad Alcudia)”:

 

La luna tutta intera sta cadendo

sui sentieri

mentre lì cantano e ballano

dodici coppie.

Dodici coppie, madre,

dodici coppie,

che di notte hanno mani ardenti.

Ti amo, bella rosa,

garofano di zucchero,

occhi d’acqua profonda, che piangono sulle spalle”.

 

Come nell’affettuoso, rapito stupore per l’eterna ciclicità della natura di “Tornada” (“Tornata”):

Sei tornata a bere, luna

sei tornato ad annusare, sole

sei uscita dall’armadio, primavera

ti sei innamorata ancora, sciocchina

sei tornato a germogliare, seme

ancora una volta sei fiorito, fiore”.

 

Ad accompagnare Gil in questo appassionato girovagare del sentimento, sei musicisti tradizionali (tra cui due degli Ham de Foc) e alcuni collaboratori capaci di un equilibrio timbrico altamente suggestivo (tra i numerosi strumenti utilizzati, chitarra portoghese, bouzouki, liuto, percussioni orientali, flauti, organetto, contrabbasso…).

Il suono, magistralmente prodotto da Oscar Roig e dallo stesso Gil, è vecchio e nuovo insieme, come sa essere oggi, seppur raramente, la musica contemporanea di qualità.

 

AA.VV. - "Il Mondo Dorme. Ninnananne da tutto il Mondo" (CD - Virgin Music Italy, ITA 2002)

Li farò ascoltare a mio figlio Giulio che ha cinque anni e mezzo e non ha ancora dormito una notte intera nel suo letto. Li consiglierò a tutti quei genitori che passano le notti in bianco, agli amanti pensierosi, agli anziani insonni, alle persone tenere, a chi ha semplicemente bisogno di rilassarsi.

Sono quindici pezzi dalle provenienze più disparate, ninnananne composte e interpretate da artisti famosi e meno noti, che invitano a "un morbido viaggio sulle note di un canto notturno, delicato, ammaliante per un tenero mondo di piccoli addormentati" - per dirla con le parole del curatore Paolo De Bernardin, "storico" giornalista di "Repubblica".

Tra le carezzevoli e un po' stucchevoli composizioni originali dell'arpista svizzero Andreas Wellenweider, di Madredeus, Maire Brennan, Bobby Mc Ferrin - straordinario equilibrista del vocalismo jazz -, Mary Chapin Carpenter, Estrella Morente, sono soprattutto i trentacinque secondi della ninnananna del Coro delle Mondine di Correggio ("Fa la Ninna") a toccare intensamente con la loro polivocalità popolare e la ruvida naivitè. Per non dire del bizzarro "Valzer dell'anguilla" del francese Pascal Comelade, qui in dichiarato debito con il piano di Erik Satie, e l'inatteso contributo ("Paul's Dance", scritta con Steve Nye) del mai abbastanza compianto Simon Jeffes della Penguin Cafè Orchestra, un arpeggiare leggero di chitarra graffiato nell'anima. Per immergersi, in questi tempi di incubi ad occhi aperti, in un sonno profondo e tonificante.

 

René Aubry - "Invités sur la terre" (CD - Wagram, FRA 2001)

Undici album registrati, il francese René Aubry incanta con la delicatezza compositiva di questo "Invites sur la terre", un brillante lavoro di musica acustica contemporanea, suggestivo e ben suonato. Tuba, piano, tromba, contrabbasso, trombone, chitarra, violino, accordeon, banjo, balalaika, clarinetto, bouzouki, gli strumenti; dodici i collaboratori. Aubry compone colonne sonore per film ("Minoush" di Paule Muxel, "Killer Kid" di Gilles de Maistre...), musiche per balletto (prestigiose le collaborazioni con Carolyn Carlson), sonorizzazioni per il teatro.

Fedele alla tradizione dei più attivi autori francesi contemporanei (Hector Zazou, Pascal Comelade, Yann Tiersen), il musicista ha composto quattordici brani minimalisti, giocati sull'iterazione delle linee melodiche e il calibrato, sobrio intersecarsi delle timbriche che lo accomunano con le appassionanti ricerche di Simon Jeffres, il recentemente scomparso leader della straordinaria Penguin Cafè Orchestra, meteora del suono d'autore "popular" ("Music from the Penguin Cafè" e "Penguin Cafè Orchestra", i capolavori).

In alcuni brani ("D'un pas si facile"), ecco affiorare in superficie la magica semplicità armonica di Erik Satie, padre della "musique d'eumblement"; in altri, il rimando è ora alle ripetute armonizzazioni di Michael Nyman, ora alle atmosfere sospese di Ennio Morricone ("Solitarie", "Pauvre Juliette!") o alle delicatezze chitarristiche dei misconosciuti Durutti Column, affascinanti coriandoli pop anni ottanta. Tradotto dalle splendide immagini pastello di Lorenzo Mattotti (sua la copertina), "L'invito sulla terra" di Aubry è un candido, rilassante attraversamento in un paesaggio che non è di questo mondo. E suona quasi ironico, a pensarci bene, il titolo: sommersi da spazzatura radiofonica, ridacchianti DJ e classifiche, case discografiche e pubblicità televisive, questa musica è piuttosto un richiamo a ritrovare la semplicità e la discrezione dei suoni che nutrono l'immaginario e la sensibilità.

Tonino Zurlo – “Nuzzole e pparolu (semi e parole)” (CD – Anima Mundi, ITA 2007)

Esistono opere d’arte che trascendono la categoria del ‘bello’, la sovvertono con la loro deliberata ruvidezza, la loro urticante verità di denuncia, la poesia. Opere preziose, che anche se raramente capita di incontrare per caso, fuori dei canali tradizionali della comunicazione ufficiale.

Candidato a diventare uno dei dischi più significativi degli ultimi anni, se non dell’intera storia del ‘popolare’ in Italia, “Nuzzole e pparolu” di Tonino Zurlo è il capolavoro per cui vengono a cadere le prerogative del linguaggio descrittivo-analitico: com’è possibile, d’altro canto, descrivere, analizzare, comprendere un’opera di siffatta bellezza?

Non inganni l’uso del termine ‘bellezza’. Bellezza è per noi, qui, durezza di sentimenti, forza espressiva, potenza dell’anima, mettersi a nudo in tutta la propria fragilità di sentimenti

Esistono oggi opere di questa natura?

Dodici pezzi cantati in dialetto (il brindisino parlato a Ostuni), tutti di nuova composizione, interpretati (prevalentemente da Zurlo) e suonati (da Guido Sodo e i Cantodiscanto) con l’inconsueta . Nulla appare ‘pensato’, cesellato, prono alle logiche perverse del suono che dissimula (la presunta autenticità dell’essere popolare, la schiettezza del rappresentarsi autore tradizionale…) per irretire pubblico. Nessun suono è simulacro di un’idea nostalgica di un tempo che non è più, come gran parte dei lavori di musica ‘tradizionale/’popolare’/folk pubblicati in Italia in questi anni; né tanto meno la voce di Zurlo si presta a possibili fraintendimenti di senso: è voce nuda, appunto, che scava dentro la propria interiorità ed estrae idee, sentimenti, nostalgie, paure e felicità altrove inespresse o comunicate maldestramente: ‘verità’ dovremmo definire l’esito stupefacente di essere così ‘dentro’ questa vita raccontata, di viverla così profondamente, tanto schiettamente da mettere noi, semplici ascoltatori, nell’imbarazzo dell’emozione incontrollata?

La forza dei sentimenti espressi nel disco rende persino superflua l’esatta comprensione dei significati del testo, per altro adattati in un italiano corrente stucchevole e assolutamente inadatto a ‘questa’ comunicazione: Zurlo è poeta autentico, come lo sono pochi altri (De André, ad esempio, o Piero Ciampi, Luigi Maieron, Matteo Salvatore, Rosa Balistreri…), e non si presta a una facile edulcorazione della comunicativa, tanto è duttile e potente d’immagini il suo dialetto. Come rendere, d’altronde, l’incipit di “Core d’ore”, canzone d’amore:

 

Quànne nascìste tu,

lu solu cu lla luna tè te vasòje

e llu còre tua po’ tutte d’ore deventoje…”

 

o l’invocazione in “Criste mie”:

E cchjangi stu cori

cca nu ttròva la stràta

cu ccànti e cu grìti

stasèra sola sola.

La Matònna ti la tèrra

si ènghi di soli

la Matònna ti la tèrra

si ènghi di fiòri…”

 

che trattiene tutta la sua drammaticità espressiva nel miracoloso impasto di voce e parole?

Zurlo sa anche essere, come già nell’esordio di “Ja viente”, profondamente e intelligentemente politico: guarda all’oggi con ironica amarezza quando denuncia la disumanizzazione del nostro vivere ne “L’automatismo”, ostaggio del consumo compulsivo e del presunto benessere; ma sa guardare con fiducia al domani quando invoca maggior intelligenza e creatività nel vivere in “Canto dell’anima” (“… abbiamo bisogno di nuove idee… c’è bisogno di nuovi maestri…”), ispirato alla metafora della potatura dell’albero. Grottesco il ritratto di “Lu povere Mengucce”, mandato in guerra “sane” e tornato “fèssa” (sfigurato tanto da essere soprannominato “Muso di cane”), breve apologo parlato dell’inutilità e del disastro di tutte le guerre passate, presenti e future (“Ma chi vuole la guerra… chi la pensa? Chi fa le guerre… chi le vuole le guerre?”); sarcastico il ritratto di Mussolini (“Paperine”) che rese gli italiani “pecoroni” regolando i dissidenti con “uègghje de rìgene” (olio di ricino) per finir poi “ammazzato, dopo aver distrutto la patria”. E come un mantra dolente, Zurlo ci ricorda la pesante eredità del Meridione:

Sottomessone, emigrazzìone, cliendelìsme, umeliazziòne

chèssa ìte l’eredetà du cure gruèsse Paperòne”.

 

Bob Marley. Una vita di fuoco.

Una biografia ben scritta e notevolmente documentata, opera del giornalista americano Timothy White, tratteggia la vicenda umana e artistica di Bob Marley, leggendario vate del reggae. In "Bob Marley. Una Vita di Fuoco" (Feltrinelli, pagg. 356, €12), l'autore ricostruisce il clima socio-culturale in cui il musicista di "Woman No Cry" strutturò la sua "coscienza di classe", alimentò la sua urgenza empatica verso i neri, le popolazioni più umili, cantando per il mondo il culto millenaristico del "tafarismo".

Un'inossidabile figura simbolica per gli afroamericani, più banalmente una star internazionale per i luccicanti scenari del rock europeo, dove era stato catapultato alla fine degli anni settanta grazie all'intraprendenza del discografico, talent scout Chris Blackwell, fondatore dell'Island Records. Forse, più verosimilmente, uno sciamano contemporaneo, orgoglioso mistico con la chitarra e la voce capace di aggregare milioni di giovani intorno a un'idea nostalgica di "destino" - il ritorno in Africa, in Etiopia, Terra Madre del "re dei re" Hailé Selassiè I.

Una tensione morale, intellettuale, emozionale, quella di Marley, che si sarebbe interrotta tragicamente nel 1981, a soli 46 anni, a causa dall'implacabile tumore al cervello che aveva rinunciato a curare, coerente coi dettami della sua religione ("I rasta non ammettono l'amputazione. Non ammettiamo che un uomo venga smontato").

Con una decina di dischi bellissimi - in particolare "Natty Dread" (1974), "Exodus" (1977) e "Kaya" (1978) -, Marley contribuì, tra i primi, a rompere l'ottusa resistenza dell'Occidente nei confronti delle musiche tradizionali: un tre tempi sincopato, lieve, godibile per suggestivi versi di poesia dell'anima. "... Aprite gli occhi e guardatevi dentro/Siete soddisfatti della vostra vita?/Sappiamo dove andiamo, sappiamo da dove veniamo/Stiamo lasciando Babilonia/Stiamo andando nella terra del Padre Nostro...".

 

Cecilia Pitino - “Far Lunari” (CD - MM&B MC 017, ITA 2003)

Basterebbero i quattro minuti della sua “Mi votu e mi rivotu” per imporre Cecilia Pitino come una delle migliori interpreti di musica popolare oggi in Italia, se non fosse che “Far lunari”, il disco con cui esordisce in allegato al numero 30 della rivista “World Music”, è molto altro e di più.

Altro, perché le coordinate su cui si agita la musica, in prevalenza di nuova composizione, sono solo tangenti all’idea di “popolare” e “tradizionale”, attingendo a forme e suggestioni timbriche e melodiche di disparata origine (etnica, jazz, minimalismo, colta contemporanea...); di più, perché Cecilia Pitino si afferma non soltanto come eccezionale interprete dialettale (tutti i brani sono infatti cantati in siciliano) ma come musa affascinante del progetto, realizzato con l’apporto determinante degli ottimi Dounia, certo tra i gruppi più convincenti dell’ultima generazione etnica (dopo “New World”, del 2002, una conferma il recente lavoro con Moncef Ghachem, libro-CD di traboccante poeticità...).

Album tra i più belli ascoltati in questo inizio d’anno, coeso, denso di idee, ricco di testi di rara poeticità (quasi tutti a firma Sal Costa e Faisal Taher), “Far Lunari” rivendica coraggiosamente un’incolmabile distanza dall’ormai dilagante, quasi obbligatoria “mediterraneità” di maniera, moda cicisbea di combinare i suoni in nome di una presunta idea cristallizzata e retorica di musica etnica del sud Europa, ideata in vitro per i piaceri del Mercato.

Intenso e autentico nell’esecuzione e nell’interpretazione dei brani (come nella tradizionale “Abbobbò”, ninna nanna basata su un insistente arpeggio iterato di chitarra, armonizzato da un suggestivo contrabbasso in minore o in “Nami”, ballata cantata in arabo...), raffinato nella pratica esecutiva e vocale (davvero straordinari i vocalizzi di Taher, ormai punto fermo della vocalità etnica italiana...), il disco della Pitino è una toccante visione postmoderna di folk contemporaneo.

Piacevole come sa essere la musica quando non trucca alle carte ma insegue, appassionata e rapita, le pieghe dell’anima (“’U Jocu”).

 

Sarah-Jane Morris - "August" (CD - Fallen Angel, UK 2001)

In tempi di ridondanza elettronica, sms, new economy, gigantismi tolkeniani, il nuovo disco di Sarah-Jane Morris è un massaggio per l'anima, scarno ai limiti dell'essenziale, intenso e profumato come il tappo di sughero di un Barbaresco d'antan. Dodici pezzi registrati in tre giorni soltanto, nell'agosto di due anni fa a Londra, zona Portobello Road, sfogliando l'album delle figurine preferite con il guitar hero Marc Ribot, stralunato apprendista stregone dei migliori lavori di Tom Waits e John Zorn.

C'è, nel disco, la struggente "Into My Arms" di Nick Cave, sciolta nel burro di una voce rubata a Sara Vaughan; il Leonard Cohen di "Chelsea Hotel" passato per un raffinato trita-country; una saltellante "Piece Of My Heart", lanciata da Janis Joplin nei suoi anni più belli. E, ancora, il soul di Marvin Gaye e Curtis Mayfield al lume di candela e l'impertinente Lennon, a chiudere l'incanto, con un rifacimento letterale di "Whatever Gets You Through The Night".

Tra tanta abbondanza, il capolavoro: in "Don't Explain", ballad di Billie Holiday e Arthur Herzog Jr., è la sola voce ad avvolgere le parole in un abbraccio struggente, poi la coda è lasciata all'assolo jazzy di Ribot con arpeggi che sembrano lacrime versate su una lettera d'addio. Dal '94, ormai, Sarah-Jane Morris sembra aver abbandonato al loro destino i "lucignoli" di un pop insulso per le "fatine" di un brumoso, magico autunno jazz (favoloso anche "Blue Valentine" del '96, registrato dal vivo al Ronnie Scott di Londra...). La vittoria a Sanremo con Cocciante (ricordate?) una macchia di sugo sulle sue candide ali di angelo della nuova canzone soul-jazz.

 

Ghetonia – “Terra e sale” (CD – Anima Mundi Records AM 001, ITA 2006)

Grazie ad Anima Mundi, etichetta-negozio di Otranto nata solo pochi anni fa (https://www.suonidalmondo.com), Ghetonia approda alla prima produzione ufficiale dopo alcuni, eccellenti album realizzati in edizioni di fortuna (allegati, autoproduzioni…).

Confermando i precedenti lavori, che impongono il gruppo come uno dei migliori, più seri e originali della scena salentina, “Terra e sale” è un piccolo capolavoro di musica del nostro tempo, radicato fortemente nella tradizione grika (lingua ancora oggi parlata nell’area della Grecia salentina) e aperto all’incontro con le forme di un contemporaneo attraversato da suggestioni colte e tradizioni altre.

Tredici brani, quattro su musiche composte da Salvatore Cotardo (sax soprano e clarinetto del gruppo), il più di “anonimo popolare”, una sola caduta di stile (…) per un disco che non esitiamo a considerare tra i più riusciti degli ultimi anni per maestria esecutiva, varietà del repertorio, forza e autenticità espressiva.

La poetica dell’opera riassunta dalle parole del pittore Ruggero D’Autilia nelle note del booklet allegato:

 

È terra. Terra degli ulivi nelle notte disseminate di stelle, tra l’acqua benedetta e l’acqua salata –un’acqua di amarezza quest’ultima – l’acqua mara che non rende fertile.

È terra. Madre e femmina, persuasa dalla vanga e dall’aratro, fecondata dalla pioggia, dalle lacrime e dal sangue, seme del cielo e dell’uomo.

Ed è sale. Sale che sana la malia ma che rende sterile la terra; è comunione e legame:si divide il sale come si divide il pane. E’ fuoco liberato dalle acque. Vampa che si cela.

Occhi, come pozzi che raggiano sul fondo, nervi dei piedi e delle mani, la grazia dei lini con la greca, la pazienza delle dita nell’intreccio a rose dei capelli grigi, la pazzia delle cicale, la terra, il sale”.

 

Oltre le suggestioni di una terra ispiratrice, ancora parzialmente “storica” (ma chi è stato come noi in quell’area non può non essere rimasto abbagliato dai forti, peculiari contrasti del paesaggio…) , il disco regala forti suggestioni klezmer (“Aspro E’ To Xartì”), greche (“Panta S’Agapisa”), salentine (“Oriamu Pisulina” e lo splendido ‘classico’ “Rindineddha Ci Rindini Lu Mare”, qui un capolavoro!), con la voce roca dal registro medio di Emanuele Licci accompagnata da sonorità dall’influenza folk-jazz e colta (accenni che richiamano la scuola francese del primo Novecento), dall’equilibrio davvero raro e dalla calda, onesta comunicativa.

 

Quintorigo – “Grigio” (CD - Universal, ITA 2001)

Meritatamente penultimi al Festival di San Remo con la bizzarria “Bentivoglio Angelina”, un old timey-jazz/progressive che ha fruttato il premio della critica di qualità per il miglior arrangiamento e fatto capitombolare dalle poltrone i giurati “popolari”, i Quintorigo prendono aria dopo le asfissie della riviera dei fiori (?!) con un brillante album che venderà poco, c’è da scommetterci.

Eppure i Quintorigo sono tra le espressioni più interessanti del nuova onda italiana per più di un motivo: una voce, quella di John De Leo, raccolta tra le pagine dimenticate del mai abbastanza compianto Demetrio Stratos; armonie assolutamente disertate dalla maggioranza dei musicisti nostrani; testi stimolanti che verserebbero candeggina su uno qualsiasi dei compitini di Jovanotti (libro Feltrinelli compreso).

In questo loro terzo lavoro, tra uno strumentale per violino solista di struggente intensità (“Intro/Opening Credits”), tratto dalla soundtrack di “Lola Darling” di Spike Lee; colte digressioni jazzistiche (Enrico Rava al flicorno in “Precipitango”); aggressività progressive sbirciate dal repertorio degli Area (“Egonomia”); esotismi a cappella che lascerebbero a bocca aperta i Neri per Caso (“Zahra”); arrangiamenti spiazzanti di classici perduti (una strepitosa “Highway Star” dei Deep Purple dal potente registro hard-blues), l’ascolto procede divertito e curioso fino alla chiusura, lasciata proprio a “Bentivoglio Angelina”, il brano meno sanremese degli ultimi cinquantun anni. Poi, a sorpresa, l’intricata ghost track “Alle Spalle” - radio dramma per voce recitante, archi e contralto - sigilla uno degli album più riusciti di questo sciapido inizio d’anno.

 

Matteo Salvatore - “La luna aggira il mondo e voi dormite. Autobiografia raccontata ad Angelo Cavallo” (libro - Stampa Alternativa – Nuovi Equilibri, ITA 2002)

 

Apricena, 1940 o giù di lì. Siamo tutti credenti, ma li prevete hanno astuzia e furbizia più del lupo. Non so come mai, tutti i preti del mondo devono fregare il popolo. L’arcivescovo aveva due serve e ogni giorno dava ordini su cosa e come dovessero cucinare. Il giorno prima della Processione della Madonna di Maria Santissima Incoronata, tutta la popolazione si inginocchiava per terra. Lui stava sul bancone a dire messa. Al mattino presto di quel giorno, una donna aveva regalato all’arcivescovo due galline vive. L’arcivescovo aveva dimenticato di dire alla serva come doveva cucinarle. Ormai la messa era avviata. La serva con le due galline in mano, dietro alle spalle nostre e di tutta la popolazione, non poteva parlare e gesticolava con una mano, mentre coll’altra reggeva le galline. Gesticolava per far capire: “Come le devo cucinare?”. L’imbarazzo dell’arcivescovo era enorme. Continuava a dire: “Santa Maria, madre di Dio, siamo tutti peccatori, orete frete! Requiem e materne, mezza arrosto e mezzo leeeessssooooo!”. Tutta la popolazione, come fessi: “Ameeen!”.

Questo, Matteo Salvatore, cantautore foggiano vissuto in giovinezza nell’analfabetismo e nell’assoluta povertà, prima di riscattarsi con la forza prorompente della sua poetica musicale che ha anticipato, sin dagli anni Cinquanta, il fenomeno dei cantautori, che ancora riconoscono in lui un vero e proprio iniziatore (Guccini: “Matteo Salvatore è un artista assolutamente straordinario”).

Da una sequenza disordinata di ricordi e testi di canzoni, raccolti dal curatore Angelo Cavallo e adattati in italiano da Raffaele Vescera, emerge la storia rocambolesca di un musicista che ha saputo precorrere i tempi raccontando con la chitarra e la voce la sua terra e le vicende di un’Italia provinciale uscita a fatica dalla guerra, senza mai rinunciare alla propria integrità e alla propria coerenza.

Sufficiente l’ascolto delle dodici tracce contenute nel CD allegato, registrate in presa diretta nell’agosto dell’anno scorso in collaborazione di Ziringaglia e Leo Mansueto: canzoni interpretate con rara intensità che parlano d’amore, povertà, vecchiaia, piccoli fatti del quotidiano. Un Murolo o un Carosone pugliese assolutamente da (ri)scoprire. Non a caso, di lui, Italo Calvino ebbe a scrivere: “(…) È l’unica fonte di cultura popolare, in Italia e nel mondo, nel suo genere. Noi dobbiamo ancora inventare le parole che dice Matteo Salvatore”.

 

Leadbelly -“The Definitive Leadbelly” (CD - Catfish Records, UK 2002)

Continua l’opera meritoria di sistematizzazione del catalogo blues da parte dell’inglese Catfish Records, che dopo la proposta dell’integrale di Charlie Patton e di altre oscure meraviglie (Casey Bill Weldon, Robert Lee McCoy, Ramblin’ Thomas…), lancia un’ampia raccolta dell’opera di Huddie Ledbetter, in arte Leadbelly. Sono 75 i brani contenuti nel CD box triplo, corredato di un esauriente libretto dalle suggestive foto color seppia che racconta la vicenda umana e artistica del musicista.

Nato in Lousiana nel 1848 da genitori schiavi, Leadbelly attraversò l’America del primo Novecento con una chitarra dodici corde, oscurando le sue indubbie qualità di compositore e musicista con la fama - solo in parte leggendaria - di “sciupafemmine manesco”, sempre pronto a tirar fuori pistola o coltello per farsi giustizia da sé, secondo un’iconografia ormai stereotipa nella storia del blues.

Dentro e fuori dal carcere, passando da una donna all’altra, Leadbelly avrebbe soltanto sfiorato la fama in vita con una manciata di 78 giri pubblicati grazie al breve, burrascoso sodalizio con John Lomax, padre di Alan, che l’aveva registrato per la prestigiosa Library of Congress. Pur coinvolto nel movimento contestatario della sinistra, in compagnia di Woody Guthrie, Sonny Terry e Pete Seeger, il chitarrista visse comunque da anima inquieta, vagando senza scopo e vivendo di espedienti quando la musica non lo consentiva.

Solo dopo la morte a New York nel 1949 e una decade sommersa dalla mareggiata del rock’n’roll e dall’ingombrante icona di Presley, l’opera di Leadbelly sarà riscoperta dalla generazione del rock anni Sessanta e Settanta, grazie alle riprese di Rolling Stones, Creedence Clearwater Revival, Led Zeppelin e del blues elettrico inglese fino, più recentemente, al grunge di Kurt Cobain. Il suo blues sofferto e dolente, sostenuto da una voce stentorea e da un’interessante, unica tecnica chitarristica caratterizzata dall’uso delle tonalità gravi e da marcati giri di basso (tecnica appresa dall’ascolto nei bordelli dei pianisti di barrelhouse), si esprime in un’ampia gamma di generi e stili - dal gospel allo spiritual, dal country al boogie-woogie – ancora oggi straordinariamente attraenti benché la qualità sonora della masterizzazione CD sia tutt’altro che omogenea.

 

Hedningarna - "Hedningarna" (CD - Northside, USA 2001)

Da poco ripubblicato in America per la Northside (www.noside.com), etichetta specializzata in gruppi nordici, l'esordio degli Hedningarna (1989) è l'occasione per una straordinaria (ri)scoperta. Attivo dal 1988, il trio svedese è una delle più interessanti realtà del folk contemporaneo: cinque album in tutto (i più raccomandati "Hippjokk", del 1996, e "Karelia Visa", del '99) di ricerca libera, oltre le convenzioni di genere, tra musica popolare, classica-contemporanea e rock d'autore con un'attitudine nell'interpretazione aggressiva e diretta, vicina ad alcune misconosciute esperienze tedesche che incendiarono l'Europa agli inizi degli anni settanta (Faust, Guru Guru, Embyo).

Quelle del disco, sono composizioni solo strumentali dall'anima inquieta, rabdomantica, che generano all'ascolto un senso di spaesamento, di vertigine. Tredici brani dalle ritmiche in evidenza, che poggiano sui reiterati, insistenti, quadri del violino di Anders Norudde (autore di quasi tutti i pezzi) e sull'intreccio di numerosi strumenti acustici - tra questi, cornamusa svedese, liuto, chitarra barocca, morharpa (un violino a tre corde), alcuni di fabbricazione propria.

E se in "Sarna Galma Brudmarsch", un tradizionale suonato in occasione dei matrimoni, le scale pentatoniche della cornamusa introducono lentamente un quasi-raga sostenuto dai soli accordi pieni della chitarra acustica, in "Fulinghalling" il minimalismo di flauto, scacciapensieri e ghironda fanno a brandelli un "reel" inaugurando una forma inedita, in una dimensione in cui etichette e interpretazioni critiche rischiano di ridursi a impotente tautologia.

 

Luigi Maieron - “Si Vif” (CD - Eccher Music, ITA 2002)

Al suo terzo lavoro (l’esordio, “Anime Femine” era del 1998), Luigi Maieron suscita emozioni con dieci composizioni di folk cameristico che aggirano in modo convincente l’idea riduttiva di “canzone d’autore”, avvicinandolo più alla tradizione di certe ballads angloamericane che al frusto cantautorato italico rinvenibile a un ascolto solo superficiale.

Cantato in dialetto carnico, scabro idioma delle montagne, “Si Vif” racconta i sentimenti della gente comune, tra umili distillati di saggezza (“Non si cresce mai abbastanza senza buoni ricordi/ si vive comunque, ma costa un po’ di più…”), concordanze con la natura (la descrizione della nebbia in “Ce ch’a è?”), descrizioni di luoghi della memoria (“”Foglie, foglie cadono/ sul prato, cadono/ i fuochi d’autunno l’aria di neve/il mio paese che piano batte sui ricordi”), confessioni disarmanti (“Sono fatto per vivere in due/ma sto troppo con me/ho un carattere leggero che trema con poco/un carattere normale che si basta da solo…”) che sembrano estratte dalle alchimie verbali del Fernando Pessoa dell’Inquietudine.

Il verso sciolto rende i brevi testi vere poesie in musica (Maieron è anche autore della raccolta poetica “Orepresint”), con la voce dalla grana grossa impostata sul registro basso, che srotola pigramente le parole con levità zen. Un “recitar cantando” madrigalistico, depurato da ridondanze di accenti e virtuosismi, disposto a un delicato rapporto con la parola, resa ora intimo sussurro, ora adagio confidenziale. Prodotto da Massimo Bubola, un grande album di musica tradizionale italiana che appena pubblicato ha già la statura del classico.

 

Crispell-Peacock-Motian - "Amaryllis" (CD - ECM, D 2001)

Mentre anche l'ex-genio Bjork, suo malgrado, finisce ostaggio di Vincenzo Mollica su RAI Uno oggetto di un'imbarazzante apologia alla libertà di "vestirsi da cigno" per ricevere l'ennesimo music award, la benemerita ECM (www.ecmrecords.com) pubblica uno degli album più intensi della scena jazz di quest'anno con il rischio, naturalmente, che si tratti della classica, nauseante, "cosa nostra" di un manipolo di illuminati e sensibili appassionati del genere.

Perché il nuovo disco di Marilyn Crispell (piano), Gary Peacock (double-bass) e Paul Motion (batteria) non verrà mai presentato con tanto di fanfara su RAI Uno?

Semplice: è disco troppo intenso, troppo ben suonato, troppo coeso, troppo "creativo" per risultare appena ascoltabile a un'orecchia media. Troppo carico di nobili riferimenti al passato più luminoso (Bill Evans... la rivoluzione dell'interplay...?), troppo commovente, sconfinatamente triste per maggioranze distratte, dedite e devote alla fitness del pensiero e dei sentimenti, al karaoke radiofonico dell'anima.

Nelle sobrie note di presentazione, la Crispell scrive: "La rivelazione di questa musica è stata che la libertà non è un concetto che può essere destinato a un qualche stile di musica improvvisata. Per me, è sia un'estensione del passato che un nuovo inizio."

Le dodici composizioni dell'album, infatti, sono un unico fiume sonoro che scorre libero, "free form", senza comunque smarrire la melodicità, la cantabilità del pianoforte, tra abbozzi di song e digressioni free-jazz (Cecil Taylor... Keith Jarrett...), e la straordinaria presenza di un basso erede del genio di Scott La Faro e di una batteria discreta, esaltata nelle timbriche essenziali dei piatti.

Album notturno, "Amaryllis", parla il linguaggio di un jazz che esiste da sempre, "classico", eppure riesce a vincere i limiti delle forme codificate e degli stili che troppo spesso ingolfano questa sovraccarica contemporaneità.

 

Jazz in Paris: Kenny Clarke’s Sextet - Plays Andrè Hodeir (CD – Universal, FR 2000)

Parigi capitale europea del jazz. Dagli anni Trenta, raccontati nelle pagine di Jazz-Hot da Boris Vian, tutti i più grandi musicisti passano di lì a registrare, si esibiscono dal vivo. Lasciano segni indelebili, incisioni uniche per etichette durate il tempo di un aperitivo lungo la Senna – la Sonopresse, l’America, il Club Francais du Disque. Nomi da far rabbrividire: al Palais des Sports, il 4 giugno 1956, Armstrong registrata con gli All Stars un concerto memorabile; Django Reinhardt e Stephane Grappelli all’Hot Club de France immortalano una collaborazione oggetto di culto tra i collezionisti e Art Blakey, coi suoi Jazz Messengers, nel ’59 dà un concerto con un ospite che ha fatto la storia del piano bop, Bud Powell... Adesso, proprio in questo asfittico inizio d’anno avaro di vere novità, l’Universal ha pensato di riordinare molte di quelle pagine impolverate in una collana che farà la gioia degli appassionati, Jazz in Paris, appunto, distribuendola al modico prezzo di 15.900 lire il CD in una lussuosa edizione cartonata bilingue (francese/inglese) debitamente rimasterizzata a 24 bit.

Peschiamo nel mucchio. Kenny Clarke’s Sextet plays André Hodeir, registrato in tre sessions tra l’ottobre e il novembre 1956 nello studio Apollo di Parigi, è una felice incursione nel miglior hard bop, tra brani storici di Monk, Mulligan, Duke Ellington, Davis, Benny Carter e Milt Jackson, rivisitati con mano sicura e fantasiosa dal compositore/arrangiatore francese André Hodeir, noto fra gli appassionati anche per i brillanti contributi musicologici (storico il suo Uomini e problemi del Jazz, Longanesi 197) .

Un disco divertente, brillantemente eseguito, retto sulla batteria pirotecnica di uno straordinario Clarke, tra i padri della rivoluzione Be Bop, e sull’arrangiamento a tratti mingusiano di Hodeir: sua l’idea di fondere al corpo più tradizionalmente improvvisativo del jazz un’anima classica. Un piccolo artificio armonico che seduce ancora oggi per la sua immediata levità.

 

Ziringaglia - “Stralunando” (CD - Storie di Note-Il Cavallo Giallo, ITA 2002)

Tra gli effetti della salutare deflagrazione di generi musicali etnici e tradizionali che ha investito il nostro Paese nell’ultimo decennio, Ziringaglia è una piacevole realtà da seguire con particolare attenzione e affettuosa benevolenza.

Nati nel ’96 a Bari, sulla spinta del cantante chitarrista Kino Fiore, Ziringaglia si vota all’intelligente rimescolamento delle forme realizzando un trascinante gramelot musicale che, con radici culturali e sociali ben affossate in terra di Puglia, combina musica zingara, jazz, canzone d’autore, melodie popolari divertendosi e divertendo.

Cantati in italiano e in dialetto barese, i brani del loro ultimo lavoro “Stralunando” (tutti di nuova composizione) estremizzano le già convincenti intuizioni dell’esordio (“... meglio saltimbanco che un rango da curar” era del 1998), con una sequenza ben congegnata di suggestioni sonore in cui ritmica in tre tempi, fisarmonica, clarino e voce sono gli ingredienti base disposti per esaltare la parola, fulcro del progetto. Testi intelligenti e ironici, poesie, brevi racconti, che sono un inno all’esistenza, alla libertà, alla magia degli incontri.

Citando disinvoltamente Tom Waits, Buscaglione, De Andrè e Nino Rota, in un vorticoso, rutilante caleidoscopio di suoni che ubriacano, Ziringaglia interpreta con passione contagiosa una dimensione dello spirito prima ancora che di un’etnia o di un popolo. “Il mare è mio padre, la terra è mia madre, il cielo mi guarda e attende, non so cosa fare...”, dall’iniziale “Nell’attesa di partire”, la bruciante coscienza di un tempo offerto come possibilità. Proprio come la musica, che in Ziringaglia si muova sinuosa, avvolgente, erratica, incarnando profondamente il senso di questa nostra volatile contemporaneità.

 

Fausto Amodei – “Per fortuna c’è il cavaliere” (CD – Nota, ITA 2005)

Erano più di trent’anni che Fausto Amodei non registrava un disco. Le ultime prove, pubblicate da I Dischi del Sole nel 1972 e 1974 (“Se non li conoscete” e “L’ultima crociata”) avevano sferzato, al solito, un caustico, urticante attacco all’italietta di quegli anni. In quei dischi, fortunatamente da poco disponibili anche in CD, tra le tante davvero straordinarie, mi colpì un pezzo, “Ballata autocritica”.

Amodei cantava, con voce disillusa e incontenibile amarezza:

 

(…) Per quanti acuti abbia emesso di testa

Nessun padrone ha perduto un quattrino

Di rendita o di profitto;

non basta un canto sia pur di protesta

perché succeda che qualche inquilino

abbia ridotto l’affitto;

un ritornello non serve per niente

non c’è ballata che serva a qualcosa

né ritmo di monferrina

per rendere soffice uno sfollagente

per affrettare la morte gloriosa

di uno yankee nell’Indocina…”

 

Le parole suonavano sconsolate, senza speranza. I tempi di Cantacronache e dell’epocale “Per i morti di Reggi Emilia”, parevano irrimediabilmente lontani, mentre il Festival di Sanremo continuava ad ammorbare l’etere ed erano periodiche le morti “politiche”, i soprusi ai danni della classe operaia, il dilagante capitalismo cinico…

Amodei, con spietata e ironica autocritica, ammetteva la risibilità e l’impotenza della “rivoluzione culturale” propugnata dalla canzone “impegnata”, convinto com’era dell’urgenza, ormai improrogabile, della “lotta armata”:

 

Forse occorre che questa chitarra a ciondoloni

si trasformi in mitra e possa emettere altri suoni;

e che le sei corde per produrre altri rumori

si trasformino di colpo in sei caricatori;

e che queste dita per produrre qualche effetto

anziché grattare arpeggi premano un grilletto;

forse può servire solo più la passacaglia

che con la sua voce sa intonare la mitraglia”.

 

Oggi, ciononostante (nonostante cioè la lotta armata sia andata com’è andata e il capitalismo trita-tutto abbia fatto a fette il proletariato, definendo una nuova identità sociale omologata nella compulsività del consumo…), torna con un disco “politico” ispirato dalle più recenti imprese del governo Berlusconi e di Berlusconi in particolare, picconando a suon di rima baciata il malcostume dilagante del nostro Paese.

Quattordici canzoni in tutto, di cui due del vecchio repertorio (“Questo mio amore” e “I persuasori occulti”), prevalentemente per chitarra e voce, con timidi eppur determinanti interventi di contrabbasso (e chitarra). E se la voce non sempre sembra trovare la corretta intonazione, sono le melodie e i testi, soprattutto, a rendere importante – oggi - il progetto.

Per fortuna c’è il cavaliere”, illustrato dalle fulminanti vignette di Altan, Mattotti, Staino e Consiglio, è un disco di quelli che non si registrano più da tempo, una raccolta di “topical songs” – come venivano definite nell’America degli anni ’50 e ’60 - per raccontare i fatti del quotidiano, denunciare gli abusi del potere, irridere i potenti. Disco coraggioso, esclusivo, impopolare, che impone un ascolto concentrato, “intellettuale”.

Alcuni brani, come s’è detto, denunciano l’anomalia-Berlusconi: “Per fortuna c’è il cavaliere”, una lunga ballata ironica con cui Amodei ringrazia Berlusconi per avergli fatto ritrovare il gusto dell’invettiva, si chiude amaramente con l’auspicio:

 

(…) Perché l’Italia si liberasse

di questa eletta compagnia

più che un normale scontro di classe

ci andrebbe un blitz di polizia”.

 

I tre porcellini”, invece, suona come una diretta critica al trasformismo dilagante della politica (qui, nello specifico, di “Bossi e Fini, con il Berluscone”…) , agevolato dallo “sdoganamento” del post-fascismo (Alleanza Nazionale) e della nuova destra sociale (Lega Lombarda) determinato dalla “discesa in campo” dell’imprenditore di Arcore (“… Ma attenzione! Benché si vernicino/di ceroni, di cosmetici e unguenti,/puzzan tutti di olio di ricino,/Vi ripeto perciò: state attenti!”).

In padreterno@aildilà.com vengono bersagliate con ironia le manie di grandezza dei presunti potenti del pianeta (Bush e Berlusconi in testa), nelle parole del Padreterno in persona che manda una mail infastidita al cantante per rispedire al mittente l’indebita appropriazione delle ragione della guerra “in nome di Dio”.

E se con “Le canzoni in scatola”, metafora delle musiche vendute come saponette, Amodei tocca una delle tante lacerazioni del contemporaneo (libertà di espressione e consumo) nell’irridente “L’inondasion del Po’”, in piemontese stretto, sbeffeggia con il giusto sarcasmo le pietose sceneggiate della Lega Lombarda sulle sponde del Dio Po, atti di inconsistente paganesimo d’accatto (ricordate le ampolline?) e di avvilente folclorismo.

Lo stile musicale scelto da Amodei per il disco è quello di sempre, e tradisce il profondo amore per la canzone anglo-americana ed europea – dalla ballata cantautorale al piacevole motivetto vaudeville, dall’”old-timey” al madrigale – perché funzionale all’intonazione colloquiale della sua voce, a quel quasi-declamato che rappresenta da sempre il suo marchio di fabbrica.

Unico neo del progetto, le due prestigiose presentazioni iniziali, a firma di De Angelis e Bertelli, davvero sbrigative e risibili al confronto di questo decano della canzone d’autore italiana che superati i 70 anni ci regala un’altra appassionata pagina d’impegno civile.

Da far ascoltare nelle scuole e alla sera, dopo cena, a TV spenta.

 

Brychan – “Bad Pink Vibe” (CD - Cyc promotions, ITA 2001)

Una voce da brividi aggrappata al precipizio di Nick Drake e Tim Buckley, eroi del cantautorato folk dei Settanta.

Alla sua terza prova solista, il gallese Llyr Brychan (www.brychan.com), italiano d'adozione, dopo l'acclamato "Vexed Fanatica" (1999), è ormai una sicura conferma nel vivace panorama del cantautorato folk di questi anni.

Con solide radici piantate nel rock, questo "Bad Pink Vibe" è lavoro più eclettico dei precedenti, aperto a soluzioni melodiche più immediate e dirette.

Cinque sono i pezzi registrati in studio, prevalentemente in Italia, cinque quelli catturati in concerto al Teatro Comunale di Villa Lagarina che ripropongono spezzoni del vecchio repertorio.

Proprio ieri sera al Fillmore di Cortemaggiore, in cui ha suonato con un altro grande del suono roots, Dave Alvin, il gallese ha voce potente, timbro avvolgente, senso ritmico contagioso. Un'anima "agitata", canta nel brano che dà il titolo all'album, "irrequieta come una cavalcata", che si muove tra ballate ispirate, preziosismi acustici, vocalizzi tenorili, soffusi rumorismi.

Quando intona, nel silenzio assorto del pubblico, "Anifail" - la ritmica che sembra strappata al leggendario 5/8 di Dave Brubeck - la voce volteggia tra le ombre del Buckley più vecchio. Ed è la sequenza live che rapisce l'ascolto, con i ricordi acustici delle splendide "Swingers and Bruisers" e "Ar Gael" e, soprattutto, la conclusiva, inedita "The Push", sei minuti di crescendo mantrico basato sull'ossessiva ripetizione delle oscure tre righe del testo "go on you know you want two".

 

I Giorni Cantati di Piadena e Calvatone - “Quando Bandiera Rossa si cantava” (CD – autoproduzione, ITA 2002)

La storia della canzone popolare del Cremonese, ben indagata da Leydi e Mantovani in numerosi studi e pubblicazioni, torna recentemente in un’operazione a metà tra il recupero filologico e la rivitalizzazione dei repertori conosciuti grazie al prezioso lavoro della Lega di Piadena e il contributo tecnico dello storico Istituto Ernesto De Martino di Sesto Fiorentino, da anni impegnato in un prezioso e irrinunciabile lavoro di archiviazione e diffusione di raccolte e studi sulle tradizioni popolari del nostro paese.

I Giorni Cantati di Calvatone e Piadena, uno dei gruppi popolari più attivi del territorio a partire dagli settanta (I Giorni Cantati di Calvatone nascono nel ’74), si ripresenta con il CD “Quando Bandiera Rossa si cantava”, dal titolo di uno dei suoi brani di maggior successo. Venti canzoni in tutto, di cui otto da registrazioni originali del periodo 1966-1975 e dodici di fresca reinterpretazione (2001), che negano – come scrive nelle ispirate note Ivan della Mea - “la compiacenza della nostalgia di maniera, dei ruspantismi da pro-loco.”

Non c’è il bel tempo che fu: è una scelta precisa”, continua. “Certo, il passato c’è, memoria e storia fanno il presente, lo ridefiniscono per quello che è ora e qui: diverso ancora, ancora altro, altra Piadena, altra padania più o meno irrigua, altra Italia, altro mondo; soggettività e collettività antagoniste che stanno assieme e che spaccate a volte come le zolle restano assieme e fanno ancora la terra forte, fanno la Lega della Cultura sì, e fanno i Giorni Cantati, cantati da tutti, anche da chi oggi non c’è più come Gianni Bosio e Pierino e Rico Azzali e Alfredo Nolli e Giovanna Daffini e Franco Coggiola tutti, tutti, anche chi non lo sa o crede di non saperlo o non vuole saperlo.”

Corsi e ricorsi della Storia impongono un ascolto di queste canzoni non meno attivo di allora, tra storie di vita dei “vinti” (“Gli scariolanti”, “Nuater puaric’”…), rivendicazioni del diritto elementare a un’esistenza dignitosa (“Bandiera Rossa”, “La boje”…), emigrazione (“Le nove di Roma”), amore e sesso (“Le carrozze”, “Sveglia molinaio”, “L’era la figlia del bottegaio”…), cantate con ironica “pietas” e l’orgogliosa coscienza di un destino di classe condiviso. Temi, com’è facile intuire, di stringente attualità, benché oggi le forme della riflessione e della rivendicazione siano – forse irrimediabilmente – cambiate (?!).

 

Alessandro Carrera – “La voce di Bob Dylan” (libro - Feltrinelli, ITA 2001)

Nell'asfittico panorama editoriale musicale italiano, in cui latitano autori competenti e originali e gli editori si affidano quasi esclusivamente alla traduzione di opere (non sempre di rilievo) straniere, con "La voce di Bob Dylan. Una spiegazione dell'America" (Feltrinelli, 28.000 lire) Alessandro Carrera offre un percorso di lettura affascinante e inconsueto. Un'interpretazione alternativa all'abusata esegesi sul grande musicista americano, sessant'anni proprio in questi giorni (è nato il 24 maggio del '41 a Duluth, nel Minnesota), che ha il grande merito di affiancarsi ai pochi contributi significativi disponibili in Italia - la storica biografia di Anthony Scaduto, del 1972, il saggio di Robert Shelton, il più recente studio di Greil Marcus.

Con una scrittura scorrevole e colta (Carrera è docente di letteratura italiana alla New York University), l'autore propone una lettura appassionante e inedita dello strumento privilegiato dalla poetica dylaniana - la voce, appunto -, sfatando il mito logoro che lo vorrebbe ora "menestrello folk", ora "poeta beat", quando non addirittura un "rivoluzionario".

Analizzando brani straordinari - epocali - quali "Visions Of Johanna", "It's Alright Ma (I'm Only Bleeding)", "Like A Rolling Stones", e produzioni più recenti (il ben accolto album "Time Out Of Mind"), Carrera accosta a un'attenta ricognizione delle fonti testuali del musicista (Hank Williams, il blues anni '20 e '30, la beat generation e, soprattutto, la Bibbia) l'approfondimento della funzione centrale della vocalità, effetto stesso del suo essere mito, coscienza scomoda dell'America. "Una voce magnetica e incandescente", precisa Carrera, "mimetica e metamorfica", che più di Charlie Patton e Robert Johnson, eroi in negativo della cultura "popular" americana sprofondati nella loro personale "stagione all'inferno", è sopravvissuta a se stessa e alla nostalgia di un tempo mitico scomparso per sempre.

"Per il music business di oggi", scrive l'autore, "Dylan ha due grandi torti: quello di non essere morto al momento giusto; e quello, visto che è sopravvissuto alla rivoluzione che lui stesso ha innescato, di non prestarsi alle trasmissioni biografiche in cui le rock star con i capelli bianchi vanno a raccontare dei loro divorzi, della loro dipendenza dalla droga e delle successive disintossicazioni."

 

Maurizio Rolli e A.M.P. Big Band - "Moodwings. A Tribute to Jaco Pastorius" (CD - Wide Sound, ITA 2001)

Intanto che Jovanotti tenta di scuotere le coscienze con la retorica e qualunquistica tiritera rap di "Salvami", diventando presto involontaria parodia di se stesso nell'imbarazzante imperversare in TV e radio nel nome del presunto impegno civile; intanto che piccoli grandi dischi italiani tentano timidamente di farsi ascoltare nello psicotico bailamme discografico (le ristampe di Piero Ciampi, il "fado" rivisitato di Finardi, Di Giacomo e Poeta, l'intensa performance cameristica della Ruggiero in "Luna Crescente"...), Maurizio Rolli culla con modestia il "sogno di essere Jaco Pastorius" e gli dedica un disco avvincente con la prestigiosa collaborazione di Mike Stern e Michael Manring, eroi del jazz contemporaneo.

 

"Rendersi conto di non poter essere un altro Jaco", scrive, "è la prima cosa che un bassista deve fare; e quanto è dura spesso la realtà. (...) Se vuoi imitare Jaco non imitare le sue frasi o il suo suono, ma cercane uno altrettanto personale anche a rischio di non piacere." Nel disco, Rolli attraversa il continente Pastorius riarrangiando classici del suo repertorio - "Continuum", "Havona", "Teen Town", "Three Views Of A Secret"... - con mano sicura e straripante fantasia, catturando quello spirito erratico, imprevedibile, commosso che ha reso indimenticabile la musica del "più grande bassista del mondo". "Donna Lee Jam", brano di Parker che Pastorius aveva scelto di reinterpretare nel suo rivoluzionario disco d'esordio dell''86, una fulminea, intensa sintesi di bop androide, dove Rolli e Manring afferrano al volo il fantasma di Jaco e lo fanno volteggiare fino alla vertigine.

"Forse omaggiare lo spirito, e non le note, è il modo migliore di prolungare l'esistenza di coloro che, un pezzo alla volta, hanno contribuito a "inventare" una musica (...) che ha conquistato un posto rilevante nella nostra cultura. Forse questa è l'unica via per non smettere di "sognare di essere Jaco".

 

Linda Perhacs – “Parallelograms” (CD – The Wild Places, USA 2003)

Non la troverete citata in nessuna delle amene guide che hanno ingolfato le librerie in Italia in questi ultimi mesi. Né sulle enciclopedie rock che in genere fanno capolino a Natale sugli scaffali. Stella filante del folk progressivo anni settanta, Linda Perhacs ha inciso un solo album nel 1970 per una piccola etichetta (l’americana Kapp) prima di popolare i desideri di pochi appassionati nelle record fair del collezionismo (valutazione di “Record Collector” dell’agosto 2005: 200 dollari).

Una delle innumerevoli storie minori della discografia, certo, ignorate come si conviene dalla Storiografia Ufficiale della Popular Music e del Folk, se non fosse che il disco – ancora oggi – contiene alcune composizioni che hanno dello straordinario e suscitano ammirazione per gli scarsi mezzi con cui è stato prodotto e per l’ispirazione contagiosa.

Si ascolti a questo proposito l’iniziale “Chimacum Rain”: la matrice del pezzo, senza dubbio, è folk e l’attacco sembra mutuato da un disco dei Pentangle, ma lo sviluppo, le stratificazioni vocali, l’esitante arpeggio acustico lo rendono un piccolo capolavoro di art song senza tempo, non databile né incasellabile nelle strettoie di genere. Pochi accordi, solo una chitarra e una voce dal registro flebile, sussurrato, un po’ di eco, fanno della canzone un’invocazione malinconica retta praticamente soltanto sul raddoppio delle voci, richiamando gli equilibrismi ispirati del Tim Buckley di “Lorca” e “Starsailor”.

Altri brani, come “Paper Mountain” o “Hey, Who Really Cares?”, risentono forse troppo del tempo trascorso: l’intonazione vocale della Perhacs, qui, richiama inevitabilmente quella ben più celebrata di Grace Slick, ad esempio, o della prima Joni Mitchell, e l’ispirazione sembra certo meno felice ricalcata com’è sul rock psichedelico americano di quei giorni. Ma sono fugaci cadute di stile, dal momento che “Dolphin”, invece, come “Call the River”, “Parallelograms”, “Delicious” imboccano con risultati sorprendenti la strada della sperimentazione elettronica: lì è musica d’atmosfera, lieve, prodotta con niente, costruita per sottrazione, figlia di un minimalismo di assoluto gusto e strabordante creatività compositiva.

Il disco, dimenticato per quasi trent’anni, vittima della scarsa promozione mediatica e dell’esigua tiratura, è tornato disponibile in formato CD (accresciuto di alcuni demo e scarti di studio) grazie all’intraprendenza di Michael Piper, della The Wild Places, che ricostruisce così le tormentate fasi del ‘recupero’:

(...) Quando realizzai per la prima volta il disco su CD mi ero basato su una copia ‘mint’ del disco in vinile e fui comunque costretto a far passare il suono per un Cedar System e altri programmi di riduzione del rumore per limitare i rumori connaturati alla qualità povera del disco originale. A quel punto sembrava fosse la mia unica possibilità, anche perché avevo passato tre anni a cercare disperatamente Linda, l’ingegnere del suono, il produttore ecc. persino la casa discografica arrivò a sostenere di non conoscerne l’esistenza!

Beh, l’ha voluto il destino, fatto sta che decisi di provare ancora una volta dopo che il CD era stato pubblicato... e dopo un altro centinaio di chiamate nei due mesi seguenti alla fine riuscii a trovarla! Da quel giorno diventammo buoni amici e andando a trovarla, un giorno, mi diede la sua copia della bobina su nastro da un quarto di pollice da cui era stato tratto il master nel 1970. I nastri erano in condizioni più che ottime e dopo varie masterizzazioni credo che il suono adesso sia molto più vicino a quello che desiderava Linda all’epoca dell’uscita dell’album (mi ha confessato di essere rimasta così contrariata dalla realizzazione del vinile che ha ascoltato la sua copia solo UNA volta, preferendo ascoltare i nastri della bobina che abbiamo utilizzato per questa edizione)”.

Dopo questo che è a tutti gli effetti un miracolo della discografia, pare che Linda Perhacs sia tornata recentemente in studio per registrare un nuovo album. Come già nel caso di Vashti Bunyan (autrice nel 2006 del bellissimo ) non resta che aspettare e augurarsi che non faccia rimpiangere il suo disco d’esordio.

 

 

6. (ghost tracks)

 

 

Cinque ritratti di donne jazz

a Gigliola Reboani

a Carla Parmigiani

 

 

ELLA FITZGERALD, la voce del jazz

Una carriera infinita, cinquant'anni di concerti, oltre duecentocinquanta i dischi registrati, un repertorio sterminato con i più straordinari songbook della canzone americana. L'ammissione di Ira Gershwin, alla pubblicazione del "disco dei dischi" della Fitzgerald - "E. F. sings the Gershwin songbook", che vale da sola una vita artistica: "Non mi sono mai reso conto di quanto fossero valide le nostre canzoni finché non ho sentito Ella Fitzgerald interpretarle."

Quello di Ella è un cantato dal registro brillante, di una luminosità rara, assestato su tonalità medie, retto da un senso del ritmo altrettanto unico. 'Lady Time', Signora del Tempo, la definì non a caso Lester Young, per l'impressionante naturalezza esibita nel galleggiare tanto sull'onda swing delle grandi orchestre (strepitose le registrazioni con Count Basie del '63) quanto delle più intime ballads da trio e quartetto. Interpretazioni impeccabili, le sue,anche quando il repertorio attingeva nelle 'popular songs' più disimpegnate (come nelle registrazioni per la Decca degli esordi), con una vocalità sempre limpida, squillante, dai riflessi infantili, contagiosa nell'esprimere una positività anni luce distante dal torbido, eppur quanto affascinante, miagolio di Billie Holiday. O dal dolente pathos gospel di Dinah Washington.

Era diventata cantante quasi per caso, lei, con la vocazione della danza. Del '38, da vocalist dell'orchestra di Chick Webb, il suo primo successo discografico con la spensierata "A-Tisket, A-Tasket". Affermatasi definitivamente a partire dalla metà degli anni Cinquanta, grazie alla politica dei songbooks introdotta dal manager-guru Norman Granz, Ella Fitzgerald incarnerà la 'cantante jazz' ideale, artista tout court, lontana dal doloroso e a tratti bozzettistico ritratto del musicista 'maledetto' tutto droga, alcol e solitudine. Apollinea incarnazione dell''american way of life', Ambasciatrice della Fiducia, la Fitzgerald incanterà platee con la sua voce carezzevole, senza inquietare, commuovere, turbare troppo. Come in un bel romanzo d'appendice.

Una "tipica ragazza americana che amava cantare tipiche canzoni americane", ha scritto Ben Sidran.

Almeno tre generazioni di ascoltatori hanno conosciuto e amato il jazz grazie a lei.

 

BILLIE HOLIDAY, LA VOCE DEL BLUES

Billie Holiday, la gardenia tra i capelli, la voce del jazz scolpita sulle Tavole dell’Arte del Novecento.

Una storia breve e drammatica, la sua, tra concerti, numerose incisioni discografiche, lunghi viaggi nell’immensa America degli anni Quaranta e Cinquanta. E sofferenze, incomprensioni, brucianti discriminazioni. Come quella sera, sul palco con la leggendaria band di Count Basie, costretta dagli organizzatori a scurirsi il viso con il cerone per sembrare più “negra” al pubblico razzista del sud.

Una storia che è l’epopea dell’eroe jazz dagherrotipico, coltivata in un’infanzia di sofferenze e povertà, la perdita del padre, la scoperta della prostituzione come lavoro facile per sopravvivere e la musica, poi, compagna di vita.

La voce della Holiday di “Strange Fruit”, un monumento d’intensità e di coraggio. Brillante, all’inizio, esile e civettuola. Poi roca e ferita, alla fine, un lamento d’anima straziata che pure manterrà, in un equilibrio che ha del miracoloso, il senso più profondo dello spirito jazz, che è ritmo, melodicità, mood e qualcos’altro di indefinibile.

I suoi testi, poi, quelli solo cantati e quelli anche composti, a scavare dentro i cunicoli di un sogno irrealizzabile, di vita “altrimenti”, di amori impossibili da descrivere, di illusioni lasciate a metà, mortificate e svanite nell’abbraccio di una notte, nel sussurro imbarazzato di una promessa mai mantenuta.

Parole che raccontano l’attesa dolente di un’emozione intuita e mai vissuta (“Non so perché/ma sono così triste/ho un gran desiderio di provare quello che non ho mai provato/non ho mai avuto baci…”, “Lover Man”), la promessa di un amore “per sempre” (“… ti sei immischiato con qualche tipa/lascia perdere quel rossetto/non spiegarmi/ Sai che ti amo/e questo è ciò che l’amore può sopportare/tutti i miei pensieri sono per te/e sono assolutamente tua…”, “Don’t explain”), addirittura il raro sollievo dell’insperata libertà di una vita che ricomincia da soli, senza:

Viaggio leggera

perché il mio uomo se ne è andato

mi ha detto addio

portandosi via il mio cuore

da oggi in poi

viaggerò leggera

nessuno da incontrare…”

(“I’m trav’lin’ light”).

Nella troppo spesso retorica sovrapposizione tra arte e vita, che tanto infiamma certo biografismo pirotecnico, Billie Holiday fa della voce la sonda del suo geyser emotivo, oltre il blues come stile espressivo. Canta con lucida semplicità che il blues, “non è altro che una fitta al cuore, una falsa partenza, è quando devi separarti dal tuo uomo”, al punto che ascoltandola ancora oggi, in registrazioni sopravvissute miracolosamente grazie all’indulgenza del digitale, pare di sentirle sussultare l’anima.

Commuove, anche, leggere nella sua cruda autobiografia, di una vita spesa così di corsa, nelle pieghe altalenanti di un umore instabile, persa nel vortice inebriante della droga, dell’alcol, degli incontri fugaci, delle performances memomorabili a fianco dei prodigiosi fuochi fatui Louis Armstrong, Lennie Tristano, Duke Ellington, Charlie Parker.

Nella spietata contrapposizione fra aspettative e destino, piange ancora il cuore sentirla raccontare a un giornalista, con un tono di voce che non si può non immaginare trasognato e tenero: “Sai qual è il mio sogno? E’ sempre stato quello di avere una bella e grande casa in campagna, proprio mia mia, e tenerci i cani e i ragazzini bastardi, ragazzini che non l’hanno chiesto di venire al mondo, né scelto di essere neri, azzurri o verdi, o mezzo e mezzo.”

 

NINA SIMONE, ECLETTICA DEL SOUL

Atlantic City, estate 1954. Eunice Waymon è al pianoforte in un Irish bar e sta intrattenendo il pubblico con un repertorio di standard americani. Qualcuno, ad un tratto, le chiede di cantare. Lei è timida, non l'ha mai fatto prima in pubblico. Da quel giorno, nome d'arte Nina Simone, diventerà una delle più grandi voci del Novecento.

Era nata a New York nel '33 e, bambina prodigio al piano, aveva accompagnato i gospel nella chiesa del paese. Trasferitasi con la famiglia a New York, aveva frequentato la prestigiosa Juilliard School 0f Music (la stessa in cui si sarebbe formato il giovane Miles Davis), prima di esordire a Philadelphia nel circuito dei piano bar. A ventiquattro anni il primo contratto discografico con la Bethlehem, piccola etichetta indipendente - undici brani jazz cantati con lo pseudonimo di Little Girl Blue, ragazzina triste; l'anno dopo l'ingresso in classifica con lo standard di Gershwin "I Love You, Porgy", dall'opera-culto "Porgy & Bess" e il definitivo lancio nell'orbita della discografia internazionale, dapprima con la Mercury, quindi con la RCA.

Impressionante talento naturale, un caldo timbro soul modellato su registri di profonda intensità interpretativa, Nina Simone si affermerà per la straordinaria versatilità del repertorio - dal jazz classico al rhythm & blues; dalla canzone d'autore al pop-rock (famosa la sua interpretazione di "Don't Let Me Be Misunderstood" degli Animals); dal gospel al folk - un eclettismo che pagherà caro a causa della ricorrente diffidenza della critica specializzata.

Dal 1969, la veemente presa di posizione a favore del movimento per i diritti civili contro il dilagante razzismo in America (con interviste rivendicative e brani di appassionata denuncia quali "Four Women" e "Missisipi Goddam!"...), la vedranno oggetto di un forte ostracismo culturale. Mortificata dalla fine del matrimonio con il marito-manager Andy Stroud, deciderà di lasciare il paese e intraprendere un nomadismo artistico sui palcoscenici di Svizzera, Francia, Inghilterra, Barbados.

Con lo scioglimento del contratto con la RCA, a metà degli anni Settanta, Nina Simone ridurrà drasticamente l'attività in studio. Dopo il discreto successo di vendite di "Baltimore", disco registrato nel '78 per l'indie CTI, un rinnovato interesse per la sua carriera esploderà nell'87 grazie a una pubblicità televisiva della Chanel, che utilizzerà un vecchio brano in repertorio sin dagli anni Cinquanta, "My Baby Just Cares For Me", suonato quell'anno dovunque, persino in discoteca.

Un carattere forte, Nina Simone. Laddove altre prima di lei avevano riscattato proprio con il canto l'origine "scomoda" di "figlie dell'Africa", Nina Simone farà solo di quella lo strumento di un'espressione audace, dalla poderosa tensione etica. Là, dove Arte e Valori si incontrano per nobilitare l'Uomo.

 

Sarah Vaughan, il vortice dell'emozione

Le rimproveravano di non attenersi alle lyrics originali e di improvvisare il testo. Sarah Vaughan, nell'ambiente "Sassy", la più dotata tra le cantanti jazz e non solo. Come amava precisare, con velato fastidio, "la gente mi definisce una cantante jazz, ma odio quel termine. O una è una cantante o non lo è...", e aveva ragione. Con le tre ottave di estensione vocale, il peculiare vibrato, la profonda passionalità interpretativa, Sarah Vaughan era qualcosa di più di una cantante jazz. Era un dono della natura, la straordinaria carica emotiva, l'emozionalità, il calore delle parole sciolte in melodia. Era lo swing, lo scat, il ritmo, l'intimo sussurro. "La più bella voce del jazz negli anni successivi alla Seconda Guerra Mondiale", ha scritto l'autorevole Arrigo Polillo.

La sua, una biografia tipica. Ragazzotta americana cresciuta in una famiglia di musicisti dilettanti (il padre chitarrista e cantante di folk songs, la madre pianista e corista nella chiesa Battista), abbandona la scuola giovanissima e si cimenta nei caratteristici concorsi amatoriali per cantanti in erba. Modello ideale, Judy Garland - "una splendida voce giovanile", dirà nel '44. "Volevo cantare come lei, non per copiarla, ma per ottenere la stessa purezza e intensità".

Approda al leggendario Apollo Theatre di New York, e sembra una fotocopia della leggenda di Ella Fitzgerald. Lì, come nelle favole migliori, Billy Eckstine, vocalist nell'orchestra di Earl Hines, è testimone della sbalorditiva interpretazione della giovane e la raccomanda al leader, come seconda pianista.

E' solo l'inizio di una luminosa carriera e da quei giorni la Vaughan si involerà in una turbinio di registrazioni (Columbia, Mercury, Pablo...) e concerti che segneranno indelebilmente la storia della canzone americana. A fianco di Parker, Gillespie, Davis, Art Blakey, Clifford Brown, Oscar Peterson conquisterà critica e pubblico con le sue pirotecniche interpretazioni di classici (basti per tutte la manciata di ballads del repertorio di Gershwin) e popular songs, in cui la duttilità vocale (da soprano a baritono, e ritorno), il perfetto controllo dell'emissione, la grana corposa del timbro, una propensione a "colorare" la parola, plasmandola, faranno dire a Frank Sinatra: "Sassy è così brava che ogni volta che la ascolto mi taglierei i polsi con un rasoio affilato".

"Quando canto, i problemi potrebbero mettersi sulla mia spalla destra che non li sentirei", ha confessato.

Amava semplicemente cantare, Sarah Vaughan. Oltre gli stili (negli ultimi anni farà più di un'incursione nei territori della musica sudamericana...) e le convenzioni, per realizzare l'assurdo sogno di riprodurre il be bop del sax di Charlie Parker e della tromba di Dizzy Gillepsie, suoi riconosciuti maestri.

 

DINAH WASHINGTON, SPERICOLATA REGINA NERA

Donna bizzarra, Dinah. “Regina del blues”, per alcuni, “mangiauomini” per altri, coi suoi sette matrimoni alle spalle. Una voce interrata nel gospel sin da bambina, un timbro sfilato dalle tasche a Billie Holiday. Il registro di chi interpreta standard jazz in equilibrio sul parapetto del balcone.

Uno si aspetterebbe una prova matura da lei, nel ’56, quando ad accompagnarla è l’impeccabile orchestra diretta da un giovanissimo Quincy Jones e Dinah attacca la “Caravan” di Duke Ellington, uno standard cantato da tutti, ed eccola lì, la sorpresa: un’interpretazione cialtrona, irridente, poggiata su un vibrato sopra le righe, eppur così intensa, tanto intensa, vibrante, da perdonarle tutto - la morte sciocca, i pettegolezzi, le imbarazzanti abulie sul palco, le idiosincrasie, i malumori, le incazzature.

Dinah Washington era così, prendere o lasciare.

Trentanove anni soltanto di stranezze biografiche, esaltazioni e tragedie, atteggiamenti da vamp e tristezze alcoliche da nobile decaduta.

Un talento infinito per una voce sottile ma duttile, dalla dizione cristallina, dal penetrante registro “drammatico” e le calde inflessioni blues. Il repertorio coraggioso, spericolato, che scavava tra brani misconosciuti delle origini del jazz e del blues, mai abbastanza suonati, dimenticati in fretta.

Un caratteraccio, anche. Come quella volta che, durante una serata, chiese all’organizzatore di impedire a un giovanissimo Jimmy Whitespoon, presto leggenda del chitarrismo blues, di salire sul palco – “perché c’è troppo blues, stasera”, disse. Il promoter ubbidì, per evitarsi fastidi.