Gli editoriali della Dea Bicefala (2004-2009)

(Alcuni editoriali del sito defunto della Dea Bicefala riproposti per la gioia di...)

 

IL FESTIVAL DI SANREMO COME PARADIGMA DELL'ITALIA SUB CULTURALE CONTEMPORANEA E DELLA SUB CULTURA DELLA MUSICA. LA LEZIONE ILLUMINANTE DI THEODOR W. ADORNO COME ANTIVIRALE ALLA STUPIDITA' DILAGANTE...

... CHE INESORABILMENTE CI ASSEDIERA' (LO VOGLIATE O NO)...

 

“(…) La banalità della musica leggera attuale, banalità che è inesorabilmente controllata per non ostacolare la vendibilità del prodotto, imprime a fuoco alla fisionomia di tale musica quello che ne è l’aspetto decisivo: la volgarità. Si potrebbe quasi sospettare che gli ascoltatori siano interessati nella maniera più fervida proprio a questo aspetto: la loro mens musicale ha davvero come massima la frase brechtiana “ma io non voglio affatto essere un uomo”. Riesce loro penoso tutto ciò che, musicalmente, gli ricorda loro stessi, la problematicità e la possibile elevazione della loro esistenza; e proprio perché in realtà sono separati da ciò che potrebbero essere, vengono presi dall’ira quando l’arte glielo ricorda”.

“(…) La volgarità dell’atteggiamento musicale, lo sminuire tutte le distanze, l’insistere sul fatto che nulla di ciò con cui si viene a contatto possa essere migliore di se stessi (o di quanto si crede di essere), tutto questo ha radici sociali. La volgarità consiste nell’identificazione con l’avvilimento, dal quale la coscienza prigioniera, vittima di esso, non riesce a uscire.”

“(…) Tuttavia la standardizzazione della musica leggera, in forza del suo crudo semplicismo, non va interpretata tanto da un punto di vista interno-musicale quanto da un punto di vista sociologico. Essa mira a relazioni standardizzate, e il successo che incontra, specie la violenta avversione dei suoi seguaci per tutto ciò che potrebbe essere diverso, conferma che l’operazione le è riuscita. L’ascolto della musica leggera non è manipolato tanto dagli interessati che la producono e la diffondono, ma quasi da lei stessa, dalla sua natura immanente.”

“La musica leggera, che proclama come sua unica norma la necessità di distendere gli ascoltatori dopo il faticoso processo lavorativo, non esige, e quasi neppure tollera, spontaneità e concentrazione dell’ascolto. Bisogna sentire senza fatica, possibilmente a mezzo orecchio. (…) La passività incoraggiata si inserisce nel sistema generale dell’industria culturale inteso come sistema di istupidimento progressivo. Non che dai singoli pezzi provenga direttamente un effetto di istupidimento: ma il fan, il cui bisogno di prodotti impostigli può incrementarsi fino all’ottusa euforia – triste rimasuglio dell’antica ebrezza -, viene ammaestrato dal sistema generale della musica leggera a una passività che poi probabilmente si trasferisce anche al suo modo di pensare e ai suoi comportamenti sociali. L’effetto di annebbiamento, che Nietzsche temeva dalla musica di Wagner, è stato assunto in forze e socializzato dalla musica leggera. Il risultato conseguito, sottile nella sua capacità di creare abitudini, sta nella più singolare contraddizione con la grossolanità degli stimoli stessi. In tal senso la musica leggera, indipendentemente da qualsiasi intenzione che si voglia perseguire attraverso di essa o addirittura attraverso i testi scipiti di cui si serve, è ideologia.”

“(…) La difficoltà che deve affrontare il produttore di musica leggera è di appianare quella contraddizione, di scrivere qualcosa che sia incisivo e insieme banale e ben noto. E’ di aiuto in questo l’aspetto individualistico – nel senso antiquato dell’espressione -, che, si voglia o no, è tenuto presente nel procedimento produttivo, e che corrisponde anche al bisogno di momenti di repentina sorpresa oltre che al fatto di celare all’ascoltatore la standardizzazione predominante, quel tanto di confezionato che hanno la forma e il sentimento: l’ascoltatore deve sempre avere la sensazione di essere trattato come se il prodotto di massa fosse rivolto a lui personalmente. Il mezzo per raggiungere questo scopo, che è uno degli elementi fondamentali della musica leggera, è la pseudo individualizzazione (ch nel prodotto culturale di massa ricorda l’aureola della spontaneità) del compratore che sceglie liberamente al mercato secondo i suoi bisogni, mentre è questa stessa aureola che obbedisce alla standardizzazione e fa si che l’ascoltatore non si accorga di consumare prodotti già digeriti a dovere.”

“Occupandosi delle canzonette bisogna guardarsi dal fare un’apologia della cultura che non varrebbe certo più di quella delle barbarie. (…) Sotto la pressione del mercato la musica leggera assorbe molti talenti genuini che neppure in questo campo possono annullarsi del tutto… L’imbecillità viene intelligentemente rispettata e menata per il naso da musicisti altamente qualificati, presenti nel settore complessivo della musica leggera in numero assai maggiore di quanto vorrebbe ammettere la musica superiore col suo complesso di superiorità… (…) La preponderanza dei mezzi sugli scopi, presente in tutta l’industria culturale, nella musica leggera si manifesta come uno spreco di interpreti di notevole livello per prodotti indegni di loro: il fatto che tanti musicisti di possibilità ben maggiori lascino abusare di sé in questa maniera ha naturalmente ragioni economiche. Ma la loro cattiva coscienza determina un clima in cui prospera un velenoso rancore. Con cinica ingenuità, ma non senza ragione, un’orribile ragione, ci si convince di avere in appalto il vero spirito dei tempi”.

“Tutta la musica leggera potrebbe ben difficilmente avere la diffusione e l’efficacia che ha, senza quello che in America si chiama plugging. Le canzoni prescelte a diventare best sellers vengono martellate nella testa degli ascoltatori finché questi devono riconoscerle e quindi, secondo il calcolo esatto degli psicologi della pubblicità musicale, amarle. (…) Ma nonostante tutti i calcoli non bisogna guardare con indifferenza all’indifferenziato materiale usato per le canzoni. Perché una di queste diventi un successo deve rispondere a un minimum di esigenze - deve ad esempio possedere elementi del tipo dell’”idea”, del tema, divenuti da tempo problematici nella musica superiore, ma sempre in una proporzione realistica con l’abituale.”

“Certo l’esecuzione radiofonica e l’incisione su disco sono condizione necessaria perché una canzone di successo diventi tale: se non c’è modo di raggiungere una vasta cerchia di ascoltatori sarà difficile averne il favore. Ma tale condizione necessaria non è anche condizione sufficiente. In primo luogo, le canzoni devono, per poter avere successo, soddisfare in linea generale le regole correnti del gioco. Qui contano poco gli errori tecnici di composizione, mentre viene però eliminato il materiale che trasgredisca a priori, per carattere e natura, la normalità corrente, e dunque soprattutto ciò che appartenga a una moda dichiarata sorpassata ovvero impieghi mezzi notevolmente più moderni di quelli del tutto abituali. (…) Ma oltre a questo fatto… v’è una qualità specifica e di assai difficile definizione che viene rispettata e amata dagli ascoltatori: i cosiddetti evergreens, canzoni che sembrano non invecchiare e che superano le mode, testimoniano l’esistenza di questa qualità musicale…”.

“(…) il fenomeno di massa della musica leggera seppellisce l’autonomia e il giudizio autonomo, qualità di cui una società di uomini liberi avrebbe bisogno, mentre presumibilmente la maggioranza di tutti i popoli si indignerebbe se la musica leggera venisse loro tolta, considerando questo come un’intromissione non democratica nei diritti loro garantiti: è una contraddizione che rinvia alla condizione sociale stessa”.


(THEODOR W. ADORNO, “Musica leggera”, in “INTRODUZIONE ALLA SOCIOLOGIA DELLA MUSICA", Einaudi Torino 1971, pagg. 26-47. Trad. Giacomo Manzoni dall’originale edito in tedesco nel 1962)

(4 febbraio 2012)

 

 

LA MINACCIA DEL PENSIERO

"Ma ogni cosa era a posto, ora, tutto era definitivamente sistemato, la lotta era finita. Egli era uscito vincitore su se medesimo. Amava il Grande Fratello". (George Orwell, "1984")


Tra gli ultimi fuochi indecenti di questo Governo, della casta e dei suoi leccaculi, non poteva mancare il recente emendamento inserito nel DDL 733 (il famigerato “pacchetto sicurezza”) a cura del senatore UDC Gianpiero D’Alia (che, incredibile a dirsi, non è neppure nella maggioranza!) dal titolo “Repressione di attività di apologia o incitamento di associazioni criminose o di attività illecite compiuta a mezzo internet” (cfr. il testo integrale all’indirizzo https://www.senato.it/leg/16/BGT/Schede/Ddliter/31554.htm).

L’articolo 50-bis recita:
“Quando si procede per delitti di istigazione a delinquere o a disobbedire alle leggi, ovvero per delitti di apologia di reato, previsti dal codice penale o da altre disposizioni penali, e sussistono concreti elementi che consentano di ritenere che alcuno compia detta attività di apologia o di istigazione in via telematica sulla rete internet, il Ministro dell'interno, in seguito a comunicazione dell'autorità giudiziaria, può disporre con proprio decreto l'interruzione della attività indicata, ordinando ai fornitori di connettività alla rete internet di utilizzare gli appositi strumenti di filtraggio necessari a tal fine”.
In pratica: da 50 a 250.00 euro di multa al provider che entro 24 ore non provveda a oscurare dal web il materiale giudicato ‘pericoloso’; all’autore, invece, da 6 mesi a 5 anni di carcere.
Un’evidente misura di normalizzazione della comunicazione in Rete, diventata incontrollabile perché veramente libera, degna di paesi illiberali come la Cina, l’Iran, la Birmania.
Così la democrazia, già oggi rito sociale svuotato di ogni fondamento a causa di una legge elettorale inqualificabile, diventerà stato di polizia.

(23 settembre 2011)

 

 

NON PENSATECI DUE VOLTE: RIASCOLTATE JOHNNY CASH!

“Ho chiamato mio figlio Dylan da Bob. Quando
ha avuto all’incirca 12 anni mi ha chiesto:
“Perché non mi hai chiamato Cash?”. Anch’io mi
chiedo ancora perché…”
(Sabbatha1 da YouTube)

Non si tratta di stabilire se il ragazzino ha ragione, se sia meglio Bob Dylan o Johnny Cash, due giganti del revival della tradizione americana. Dylan un innovatore assoluto, Cash un innovatore nella tradizione.
E’ che questa battuta mi ha rimandato a un DVD di Dylan visto di recente che documenta le sue apparizioni al leggendario festival di Newport, tra il 1963 e il 1965 ("The other side of the mirror”, Sony 2007).
In una di queste (l’edizione del 1964) fa la sua comparsa sul palco anche JOHNNY CASH, all’epoca già affermato, che offre una sua interpretazione di “Don’t think twice, it’s allright” di Dylan (dallo straordinario, epocale “The Freewheeling Bob Dylan”, 1963).
Si può vedere il breve estratto da YouTube (alla pagina https://www.youtube.com/watch?v=KLkpV1NaP7o&feature=related) e stabilire le evidenti differenze dall’originale: il peculiare registro di Cash nel riarrangiare il pezzo di Dylan, rallentandolo, dotandolo di un’anima country, animandolo sin dall’attacco “well it ain’t no use to sit and wonder why babe” (“girl” nell’adattamento di Cash, che modifica il testo saltando una strofa…) con una voce profonda, la sua voce - la voce-Cash -, suggerendo un'interpretazione alternativa al senso stesso del testo.

 

In Dylan, un nervoso, amaro addio beat alla ragazza che sta per lasciare, mentre in Cash l’amarezza è addirittura irridente nel suo distacco adulto (all'epoca Cash aveva 32 anni, Dylan 23).

Johnny se n’è andato a 71 anni nel 2003, dopo una lunga carriera controversa e sofferta, culminata con la coraggiosa, monumentale serie delle “american recordings”, testamento-tributo alla cultura americana.
Rieditato (rimasterizzato) in anni recenti dalla Columbia parte del suo catalogo (collana The American Milestones), ha lasciato capolavori di folk/country revival, tra cui gli intensi, appassionati concerti alle prigioni di Folsom e San Quentin, assolutamente da riscoprire.

In questi anni di barbarie culturale… sì, se avessi un figlio oggi lo chiamerei Cash.

(27 agosto 2011)

 

 

L'INVASIONE DELLE 'APP' PROSSIMA VENTURA...

Quando a breve, come annunciano (o minacciano?!”) BJORK e gli U2, il disco diventerà una “app” (applicazione), allora sarà proprio finita un’epoca.
Non tanto quella del supporto, come vanno chiosando giornalisti e riviste musicali in questi giorni, perché il supporto è stato soppiantato molte volte dai giorni dei rulli di ceralacca di EDISON.
Al tramonto definitivo saranno piuttosto le pratiche dell’ascolto, oggi in una fase (molto critica) che potremmo considerare intermedia, ibrida: c’è ancora il vinile, la cassetta e il CD per noi nostalgici, residui di un passato non tanto lontano, con il loro ‘discorso’, il 'concept', l'artwork, le note di copertina e del booklet da leggere… Una storia da costruire e immaginare. Come ha scritto EVAN EISENBERG nello splendido saggio "L’angelo con il fonografo" (Instar libri, Torino 1997), appunto, "il disco è un mondo. Il mondo inciso dall'uomo in una forma che gli possa sopravvivere".

Ma si è imposta, soprattutto tra i più giovani, a partire da MTV (giusto 30 anni fa!), una sottocultura alternativa che dal videoclip (musica e immagine) è giunta alla totale rarefazione della materialità del suono con il download dalla Rete e l’ascolto di MP3 con I-POD che dei discorsi, le copertine, i testi e le note se ne fa un baffo. File audio compressi, codici numerici, astrazione che hanno stravolto la pratica dell’ascolto tradizionale rendendolo ormai quasi esclusivamente pura evasione, sottofondo, frammentazione, potente veicolo di merchandising.

L’app conclude il cerchio, pare di capire, offrendo un'applicazione scaricabile gratuitamente dalla Rete che consentirà di accedere a un universo di contenuti teoricamente infinito: immagini, video, musica, documenti… leggibili con tablet e cellulari in un carosello di stimolazioni sensoriali pervasivo e totalizzante.
Sarà un fatto generazionale, sarà che la nostalgia ci lega ad alcuni oggetti da cui è difficile separarsi, ma difficilmente dopo aver dolorosamente lasciato convivere nel nostro vissuto vinile e CD, potremo accettare a cuor leggero l’invasione delle app...

(4 agosto 2011)

 

 

IL MINISTRO DELLA REPUBBLICA E’ NUDO (E ANCHE UN PO’ PATETICO)

L’ennesima vicenda che ha visto protagonista il ministro Brunetta, provocatore in doppiopetto, al di là del merito (le immagini della Rete non hanno bisogno di commento), esprime tutto il fastidio, l’inettitudine, il volgare menefreghismo del Potere, quello di chi, non eletto dal ‘popolo’ ma nominato, ricorda con atti e parole al 'popolo’ che “adesso comando io”, come se vivesse all’epoca del cinema muto.
Se non che, diversamente da quanto accadeva fino a qualche anno fa, le cose sono cambiate radicalmente anche in Italia e il ‘popolo’ - affamato, precario, impoverito, senza futuro... - rivendica ascolto e risposte concrete ai bisogni. Utilizza le tecnologie per documentare e denunciare tutto: ormai il ministro è nudo e anche un po’ patetico.

Perché spiega Urbi et Orbi che le cose non sono andate come il mondo va dicendo (https://www.ansa.it/web/notizie/rubriche/associata/2011/06/15/visualizza_new.html_817415668.html), che è stato vittima di un'imboscata opera di squadristi, ma le immagini lo inchiodano inequivocabilmente alle sue responsabilità (https://www.ansa.it/web/notizie/rubriche/politica/2011/06/15/visualizza_new.html_817474161.html) restituendocelo ridicolmente puerile nel tentativo maldestro di sottrarsi alle inevitabili responsabilità del ruolo istituzionale che ricopre.
Sale in macchina e scappa. Poi, dalla sua stanzetta, gira un video, dice, per fare "controinformazione".

(16 giugno 2011)

 

 

UNA STERILE (NARCISISTICA) QUERELLE SPECULARE.

Chi ha avuto la pazienza di seguire nei giorni scorsi l’acrimonioso botta e risposta tra UTO UGHI e GIOVANNI ALLEVI su La Stampa (cfr. nota) ha potuto ricavare un illuminante spaccato del Paese dei Cachi in cui viviamo.
L’uno, rappresentante della musica ‘classica’ colta accademica, scandalizzato dalla desolante pochezza del giovane pianista (“un nano in confronto a HOROWITZ, a RUBINSTEIN”, “le composizioni sono musicalmente risibili”, “non ha alcun grado di parentela con la musica che chiamiamo classica”…); l’altro, forte del successo mediatico e commerciale, puerilmente vittimistico (“Come ha potuto farmi questo? Come ha potuto spararmi addosso tanto veleno, proprio il giorno della Vigilia di Natale?”) e immodesto ai limiti del delirio di onnipotenza (“Ecco il mio progetto visionario”…).

L’uno e l’altro, a loro modo, speculari di un universo tetragono, affollato di sepolcri imbiancati (ben saldi al posto di comando) e di giovani nani/ballerine scodinzolanti per contendersi l’osso nella Grande Ciotola del Consumo di Massa.
Entrambi impossibilitati, perché incapaci, di avere un confronto costruttivo, ‘culturale’, teso all'interesse comune.

E se ha ragione Ughi a denunciare (con argomentazioni certo sbrigative e tranchant ma sostenute da un indignato gusto adorniano che condividiamo) la lampante limitatezza artistica del pianista, il suo costruito istrionismo, l’evanescente ‘filosofia’, ha ragione Allevi a denunciare il risaputo sistema ‘baronale’ dei teatri d’opera e accreditarsi quale ‘figlio legittimo del suo tempo’.
Rivelatrice, sotto questo profilo, la ‘poetica’ del musicista-star che afferma, nella replica piccata affidata a La Stampa: “… proprio nelle aule del Conservatorio, analizzando le partiture dei grandi del passato, e confortato dal pensiero di HEGHEL nella Fenomenologia, ho maturato il convincimento che ogni epoca abbia diritto alla sua musica. Perché costringere il pubblico del nostro tempo a rapportarsi solo a capolavori concepiti secoli fa, e perdere così l’occasione di creare una musica nuova, verace espressione dei nostri giorni, che sia una rigorosa evoluzione della tradizione classica europea? (…) È necessario uno sforzo creativo a monte, piuttosto che insistere solo sull’educazione musicale, gettando le basi di una nuova musica colta contemporanea, che recuperi il contatto profondo con la gente. Ho provato a farlo, con le mie partiture e i miei scritti. È stato necessario”.

Argomentazione non nuova, per altro, esibita periodicamente allo scopo di coniugare ARTE e MASSA (= Mercato). Argomentazione debole, anche, dal momento che ‘esecutore’ e ‘compositore’ non sono dimensioni contrapposte dell’espressione artistica: altro è, approfondendo la questione, precisare piuttosto cosa si intenda per “musica nuova”, “verace espressione dei nostri giorni” in “evoluzione” con la “tradizione classica europea”, tesa al "contatto profondo con la gente"…

Chi come noi segue da anni la musica, d’altronde, non ha di che stupirsi. Negli ultimi decenni, è innegabile, la musica si è ridotta a permeante e ubiquitaria ‘MUZAK’: accompagna i consumi, è sigla televisiva, jingle pubblicitario, funge da colonna sonora al nostro quotidiano, è ascolto distratto…
Lo ‘zeitgeist’ musicale in Occidente vede ormai la musica prevalentemente come espressione del Mercato: è praticabile un ascolto non inquinato dall’immagine del prodotto? È ancora possibile una musica svincolata da fini commerciali? Composta esclusivamente dall’intima urgenza della ‘creazione’? Un ordito sonoro che sappia intercettare realmente le molteplici pulsioni del nostro tempo e non si limiti ad esserne il sottofondo acquiescente, rassicurante, distraente (come a suo tempo l’effimera moda della “New Age”) che risponda esclusivamente al diffuso bisogno di evasione?

Chi vuole ‘cercare’ nello spazio reale e simbolico lasciato libero dalle ragioni contrapposte del vecchio e del (presunto) nuovo, sa comunque di avere a disposizione una Terra di Mezzo sterminata che vive di logiche alternative e persegue l’espressione per l’espressione, refrattaria ai diktat perversi dello star-system e del Mercato, alla subcultura dall'apparenza, dal culto dell’immagine, alle blandizie del successo radio-televisivo. Nella ‘popular music’ come nel folk; nel jazz come nel blues. Nella ‘contemporanea’ come nella ‘classica’.

Dimensione anche più interessante, credeteci. E si lasci i Giovanni Allevi e gli Uto Ughi alle loro sterili, narcisistiche querelle speculari.


(14 gennaio 2009)

 

● Nota:
La provocazione di Uto Ughi è reperibile nella versione integrale alla pagina: https://www.lastampa.it/redazione/cmsSezioni/spettacoli/200812articoli/39479girata.asp
La replica di Allevi, invece, alla pagina: https://www.lastampa.it/redazione/cmsSezioni/cronache/200812articoli/39552girata.asp

 

 

IL POPOLO MANGIAPOLENTA DELLA FRISONA.

Nella regione più avanzata (?) d’Italia e – tentano di farci credere – d’Europa, un movimento politico (o sfinterico?) che aderisce al Popolo delle Libertà (?) ha fatto approvare una legge che vieta il consumo all’aperto del kebab. Nella liberalissima, democraticissima, intelligentissima Radio 24, trombetta di Confindustria, il deputato (?) europeo (!) della Lega Prosperini (“La zanzara” di qualche giorno fa) spiega in lumbard le motivazioni a un imbarazzato – ma compiacente conduttore: a lui, che si nutre praticamente solo di pastasciutta, il kebab fa schifo. Eppoi puzza da vomitare ed è uno scempio per le nostre città… Semplice.

 

Per chi ha tentato di vietare l’apertura dei kebab nei centri storici ed è riuscito a far chiudere centinaia di phone center con il pretesto delle messa a norma dei locali è ormai una vera e propria crociata “democratica” quella di ostacolare in tutti i modi le persone immigrate: “… negli anni scorsi ne hanno approvate altre, di leggi discriminatorie, tutte bocciate dal TAR ovvero dichiarate illegittime dalla Corte Costituzionale”, scrive il deputato del PD Giuseppe Civati su “L’Unità” di oggi: “dalle “case solo ai lombardi” alle norme restrittive ai luoghi di culto, fino ai non meno odiosi limiti introdotti nella concessione degli abbonamenti ai mezzi pubblici. Per non parlare, a livello comunale, delle ordinanze anti-stranieri: tutte iniziative inutili e costose che fanno perdere di vista i veri problemi dell’integrazione e della sicurezza”.

Dalle mie parti, il basso QI della popolazione e l’ignoranza diffusa accelerata dall’abbrutimento dei media e della cultura di massa hanno reso una banda di modesti imbonitori di provincia una influente lobby di potere.

 

Loro, fascisti nel DNA, nemici di “Roma ladrona” grazie a cui hanno ottenuto potere e privilegi da far impallidire i satrapi dell’antica Persia, promulgatori di un paganesimo di cartapesta a base di ampolline-dio Po-rose camune-arnaldi da giussano-cravatte/fazzoletti verdi, difensori di un’etnia padana di plastica ostentata ridicolmente al canto di “Va’ pensiero”; loro che hanno esibito il cappio in Parlamento contro la Magistratura e si sono vantati di “pulirsi il c…” con la bandiera d’Italia… recentemente sono andati in battaglia a difendere i diritti ‘negati’ degli allevatori padani.

Anche per loro mangiapolenta, come per gli indiani, la frisona è sacra.

 

(27 aprile 2009)

 

RACCAPRICCIANTE PADANIA FASCISTA!

Che la Lega fosse un movimento fascista (o post-fascista, neofascista o parafascista…) ne eravamo convinti da tempo. La sua storia, il suo linguaggio, i suoi simboli, le sue iniziative pubbliche non lasciano molti dubbi, d’altronde.
Quello che ancora mancava, dietro la bonaria facciata populista, le parole d’ordine federaliste, il frusto rimando a un armamentario ideologico tipico della Destra storicizzata (ad esempio l’autodeterminazione dei popoli, sintetizzato dai cartelloni affissi in padania con lo slogan “Padroni a casa nostra!”), i grotteschi rituali pseudo-celtici, era la prova provata che lo fossero per davvero.

Adesso un breve estratto da un documentario di Canal + alla pagina Web:

https://movimentoperlasinistra.it/index.php?option=com_content&view=article&id=686:articolo-vuoto-con-video&catid=34:articoli&Itemid=53

ci offre la possibilità di toccare con mano (soprattutto con gli occhi, con le orecchie!) anche la subdola strategia politica del Carroccio, ben oltre le intuizioni e le sensazioni ‘a pelle’ di questi anni: “Bisogna rientrare nelle amministrazioni dei piccoli comuni”, spiega Borghezio a un gruppo di militanti in un consesso organizzato dall’estrema destra, “dovete insistere molto sull’aspetto regionalista del movimento”. E ancora: “Ci sono delle buone maniere per non essere etichettati come fascisti nostalgici, ma come un nuovo movimento regionale, cattolico ecc., ma sotto sotto rimanere gli stessi”.

Con buona sintesi, il curatore del programma sintetizza: “PENETRATE OVUNQUE POTETE MA NON DITE ALLA GENTE CHE SIETE FASCISTI”.

Con quattro ministri, sottosegretari al governo ed eurodeputati, con ormai molti amministratori locali, la Lega si è realmente infiltrata nelle principali istituzioni del Paese: dispone praticamente di una rete televisiva nazionale (RAI2), una radio (Radio Padania) e una TV (Tele Padania), pubblica un quotidiano e una rivista, ricatta il Popolo delle Libertà a cui non ha aderito (forse anche per questo AN non ha più bisogno di essere un partito di Destra…) con le facce ‘presentabili’ dei Maroni, dei Castelli e dei Calderoni (capogruppo alla camera il ‘cherubino’ Cota): l’ultima vicenda delle quote latte (che tolgono il sonno a tanti ‘poveri’ allevatori del nord…) è emblematica del ruolo strumentale che il ‘movimento’ sta esercitando da anni nelle regioni del settentrione. Per garantirsi consenso, l’effetto dell’ultimo decreto sarà quello di premiare, di fatto, quegli agricoltori che non rispettando i limiti previsti dall’Unione Europea sono incorsi nelle sanzioni.

Dopo aver ‘sdoganato’ i figli legittimi del Fascismo, l’altro capolavoro da statista per cui Berlusconi sarà ricordato sui libri di storia è quello di aver assecondato l’ascesa della Lega Nord, raccapricciante partito neofascista.

(1 aprile 2009)

 

LOTTA DI CLASSE? DOPODOMANI…

“Quelli che… la rivoluzione oggi, no, domani neanche, ma dopodomani…!”

(Giorgio Gaber, “Qualcuno era comunista”)

 

 

Si può leggere la vicenda delle dichiarazioni dei redditi 2005 in Rete dal punto di vista di chi sostiene si sia trattato di un palese aggiramento della legge sulla privacy (Rodotà, ad esempio, o Pansa): l’aver deciso di pubblicare oltre 40 milioni di dichiarazioni integrali, con tanto di dati anagrafici e codici fiscali dei contribuenti può non essere stata un’idea brillante. Tutt’altro. E per più di una ragione (voyeurismo, microcriminalità…).

 

Ma perché non considerarla semplicemente come un’operazione “politica”?

 

Non tanto, come hanno sostenuto certe logiche becere della Destra di governo (ad esempio Fede, dal suo illegale telegiornale di rete), in quanto ‘colpo di coda’ del governo uscente, quanto piuttosto come una coraggiosa provocazione

 

Perché dalle dichiarazioni pubblicate è diventato evidente a tutti – oggi più di ieri – che questo malaugurato paese è minato nelle fondamenta dalle differenze di classe socio-economica, di censo: se oltre la metà dei contribuenti vive con non più di 15.000 euro all’anno di reddito significa molto semplicemente che una piccola parte del paese vive allegramente alle spalle dell’altra.

E ciò è profondamente ingiusto oltre che pericoloso per gli equilibri sociali.

 

I benestanti (a destra come a sinistra) – cattolici devoti, generosi (solo con Telethon), solidali coi simili, intolleranti coi diversi – non vogliono sentire questa verità e gridano allo scandalo in difesa della privacy.

Se diventa consapevolezza di tutti che c’è chi vive con molto più di quello che è giusto e chi, al contrario, fatica a vivere dignitosamente, allora c’è il rischio potenziale di una rivoluzione proletaria…

 

Ma i benestanti sanno benissimo che la rivoluzione può accadere solo si focalizza come strategia la vecchia, consunta “lotta di classe”.

Per il momento, intanto, meglio confondere le acque e lasciar credere che il problema reale sia quello della sicurezza, che il problema siano gli immigrati, gli ‘altri’. Solo in questo modo, da italiani, possiamo sentirci davvero tutti uniti…

 

(5 maggio 2008)

 

 

TUTTI IN VERDANIA!

”Imbraccia il fucil, prepara il cannon, difendi il verdano dai riccioli d'or
Espelli il negron, inforca il terron, e servi il tuo popolo con fulgido amor…”

Anche se sono del Gargano sogno di diventare Verdano, mamma, asciugati le lacrime porto le mie natiche in fabbriche che non abbiamo. Mollami la mano, dico, mollami la mano, che da quando sono nato bramo lo stato Verdano, no, non amo ciò che è sotto il mio meridiano, da piccolo odiavo l'inquilino del primo piano. Sul banco tracciavo linee di confine, di Raykard e Gullit niente figurine, bambini e bambine in cortile, io verde di bile col Monopoli mettevo in prigione le mie pedine. Bene, sto bene nel mio ruolo, volo, non sono solo, siamo uno stuolo. La Verdania chiama "All'armi!", mi arruolo, con la mia divisa cetriolo io:

VOGLIO UNA VERDANIA SECESSIONISTA, CON UNA BANDIERA SECESSIONISTA UNA FIDANZATA SECESSIONISTA CON CUI FARE L'AMORE SECESSIONISTA
UN APPARTEMENTO SECESSIONISTA CON ARREDAMENTO SECESSIONISTA RACCOLTA DI RIFIUTI SECESSIONISTA, MA CHE COSA STA SECCEDENDO?

”Noi marcerem verso Roma ladrona perché chi va a Roma prende la poltrona…”

All'inizio quel tizio che s'attizza al comizio pare un alcolista alla festa di San Patrizio, parla da un orifizio sporco di pregiudizio, pubblico in prestito dal museo egizio. Ora capisco quanto aveva ragione, ora che sono soldato di stato senza meridione, ora che è finita la carta del cesso, ma fa lo stesso, tanto ci ho messo la Costituzione. Ora che la mia ambizione è fare la pulizia, primaverile o etnica che sia, la farò, il manico ce l'ho duro perciò scoperò dove si può per il potere dell'ampolla nel Po. Il popolo verdano smania per la separazione dall'Italia che dilania. E se cade il muro in Germania chi se ne frega io lo innalzo in Verdania dato che:

VOGLIO UNA VERDANIA SECESSIONISTA, CON UN QUOTIDIANO SECESSIONISTA UN TELEGIORNALE CON UN GIORNALISTA SECESSIONISTA
UNA PASSERELLA SECESSIONISTA CON UNA MODELLA SECESSIONISTA
SOGNO DI QUALUNQUE SECESSIONISTA, MA CHE COSA STA SECCEDENDO?

”Conquisteremo la Rai lottizzata per sistemare i nostri direttori di testata…”

Io voglio diventare un Verdano avvinazzato, sputare parlando un italiano stentato. Io, servitore di uno stato dove chi non è come me viene discriminato. Voglio sbandierare commosso un tricolore senza bianco né rosso. Voglio lodare il deputato esaltato, che vuole l'immigrato umiliato e percosso. Voglio denigrare le prostitute, disinfettando i treni dove sono sedute. Questione di cute su cui non si discute - sono puro come l'aria, tutta salute. Voglio giurare fedeltà al senatùr, voglio vendicare la mia Pearl Harbour. Roba da fare rivoltare nella tomba Gaetano Salvemini ed il conte di Cavour.

Allora fate come me: “Tutti in Verdania!”
Italiani: “Tutti in Verdania!”
Ottomani: “Tutti in Verdania!”
Venusiani: “Tutti in Verdania!”
Andini e Atzechi: “Tutti in Verdania!”
Kazachi ed Uzbechi: “Tutti in Verdania!”
Arditi e Galati: “Tutti in Verdania!”

dove si lavora si guadagna e si magna!
VOGLIO UNA VERDANIA SECESSIONISTA, CON UNA BANDIERA SECESSIONISTA UNA FIDANZATA SECESSIONISTA CON CUI FARE L'AMORE SECESSIONISTA
UN APPARTEMENTO SECESSIONISTA CON ARREDAMENTO SECESSIONISTA RACCOLTA DI RIFIUTI SECESSIONISTA, MA CHE COSA STA SECCEDENDO?

”Imbraccia il fucil, prepara il cannon, difendi il Verdano dai riccioli d'or. Espelli il negron, inforca il terron… inforca il terron… inforca il terron… inforca il...”
(Caparezza, “Inno Verdano”, dall’album “Habemus Capa”, 2006)

(15 aprile 2008, dopo che Berlusconi è tornato al governo in Italia per la terza volta in meno di quindici anni con l'ex-fascista Fini e lo xenofobo/separatista/razzista Bossi...)

 

HERE'S THE STATE OF SILVIO BERLUSCONI.

E noi qui ancora una volta costretti a vivere nello stato di Silvio Berlusconi, assolto dall’accusa di “falso in bilancio” nel processo SME solo perché la legge, approvata dai suoi sgherri nella precedente legislatura (era il 2002), ha cancellato il reato dal codice penale.
Non si tratta di un incubo, né dell’effetto dell’entropia che ineluttabilmente sta sbriciolando giorno per giorno, un pezzo alla volta, questo lembo di pianeta. Purtroppo è la nuda e cruda realtà - e, ne siamo certi, non sarà nemmeno l’ultima -, ancora una volta blandita con la protervia del potente impunito e intoccabile che esulta dai telegiornali di tutte le reti TV, estero compreso.

Come per un'inconscia reazione, proprio in queste ore, siamo capitati su YouTube per rivedere alcuni vecchi video del grande PHIL OCHS e, tra questi, la corrosiva, epocale “Here’s to the state of Richard Nixon” (https://it.youtube.com/watch?v=fwsIeYTNLdo), pubblicata alla fine degli anni sessanta solo su 45 giri (in realtà si trattava della riscrittura della precedente “Here’s to the state of Missisipi”, altrettanto dura):

“(…) E questo è per il governo di Richard Nixon:
affondano sempre nel pantano della loro burocrazia
e criminali si atteggiano a consiglieri della corona
e sperano che nessuno veda gli sguardi o senta il suono
e i discorsi del Presidente sono deliri di un pagliaccio
Oh, questa è per il paese cui hai strappato il cuore,
Richard Nixon, trovati un altro paese in cui vivere”.

Per molto, molto meno, pare, in questi giorni Federico Zampaglione dei Tiromancino è stato licenziato dalla E.M.I. e diffidato dalla FIMI (Federazione Italiana dell’Industria Musicale) dal presentare il suo ultimo pezzo a Sanremo (!), dove, tra gli ospiti, interverranno musicisti italiani del calibro (pensate un po’) di Jovanotti e Venditti (!!!). 'Artisti' che notoriamente, secondo il furbesco costume diffuso in questo rattoppato paese, NON graffiano, NON criticano i potenti, NON denunciano gli abusi, NON si oppongono in alcun modo se non, quando lo fanno, in modo GENERICO e RETORICO (ricordate, ad esempio, “In questo mondo di ladri”? O “L’ombelico del mondo”?).

Chi, come il povero Jovanotti, con testi dalla vena catto-ecumenica (cfr. l’inascoltabile “Mi fido di te” che ci ha straziato le orecchie per settimane); chi con un approccio intimista facile a dispensare consigli moralistici da libro 'Cuore' (Ligabue, come nel suo ultimo “Niente paura", è un vero maestro); chi, ancora, con la sterile denuncia di chi sceglie di combattere contro i mulini a vento (il Vasco Rossi di “Basta poco”, che ha infiammato i cuori con la sua qualunquistica critica al qualunquismo…) perché dimostra impegno ma crea certo molto meno problemi; chi affogando l’ascoltatore in risibili canzoncine d’amore (la lista sarebbe interminabile, come si può immaginare…)...

Per farla breve: difficilmente un musicista italiano di quelli che beneficiano di una massiccia esposizione mediatica potrà mai regalarci un testo à la Phil Ochs, Joan Baez, WOODY GUTHRIE, Peter Seeger o VICTOR JARA: canzoni scritte per denunciare, nomi e cognomi, fatti gravi del vivere sociale, della politica, dell’economia. Ben radicate nel tempo che viviamo, riferite a esperienze dirette, conosciute, condivise da tanti.

I temi, senza troppo sforzo, ci sarebbero anche qui da noi, volendo. Quello che manca e mancherà, semplicemente, è il coraggio di musicisti, etichette, produttori, agenti, giornalisti… il cui unico intento reale, oltre i proclami sull’arte e la cultura, resta il mero PROFITTO (di pochi).

(31 febbraio 2008)

 

 

FINE DI UNA DITTATURA?

È notizia di oggi. Anche i NINE INCH NAILS, dopo i RADIOHEAD, rinunciano al contratto con una major discografica. “Ho atteso a lungo la possibilità di fare questo annuncio”, scrive orgogliosamente Trent Reznor sulle pagine del sito del gruppo (https://www.nin.com). "Da adesso in poi i Nine Inch Nails sono battitori liberi, liberi da qualsiasi contratto di registrazione con qualsiasi etichetta".

Una scelta di campo netta, in cui l’autoproduzione diventa effettivamente reale, basata su un rischio calcolato che, almeno per il momento, appare come un vero azzardo.

Si può continuare ad esistere senza etichetta discografica? I Radiohead vendono il loro ultimo album “In rainbows” direttamente dal loro sito (https://www.radiohead.com), da cui i pezzi sono addirittura scaricabili a ‘offerta libera’ (dal 10 ottobre), ulteriore sberleffo a chi ha detenuto per decenni il controllo dell’espressione artistica spesso ai danni degli stessi artisti.
Tutto ciò grazie alla Rete e alla popolarità raggiunta dal gruppo che ha deciso di non consentire più all’etichetta (la E.M.I.) di arricchirsi spropositamente.

Così, la musica si libera veramente, recide i vincoli con gli intermediari, rompe la dittatura della filiera tradizionale (produzione e distribuzione su tutto) che ha asfissiato il mercato facendo cadere a picco le vendite anche dell’ultimo dei supporti, il CD.

È l’inizio della fine della discografia tradizionale?
Noi ci auguriamo di sì.

(11 ottobre 2007)

 

UNA RIVOLUZIONE DEMOCRATICA?

l teatrino della politica che ieri reagiva scompostamente all’iniziativa del V-Day (www.beppegrillo.it) ha confermato soltanto di essere più che mai al tramonto.
Ed è davvero penoso lo spettacolo di chi – incredibili Casini e, soprattutto, Bossi – crede di poter ancora esprimere un punto di vista ‘autorevole’ su quanto accade nel nostro Paese senza essere preso a sonore pernacchie.

Bossi che dice: “sembra un’esagerazione… dobbiamo stare attenti a non far venire avanti l’antipolitica” è insieme grottesco, cialtrone e ridicolo nel non volersi rendere conto di essere ormai sorpassato dalla Storia più recente: il movimento di iniziativa popolare promosso da Grillo non è forse quanto avrebbero voluto i leghisti della prima ora ai tempi del “celodurismo” e di “Roma ladrona”? E non era autentica “antipolitica”, la sua, quando solo l’altro ieri dileggiava in comizio il tricolore o i suoi sgherri incitavano in Parlamento al cappio per i “magistrati comunisti” …?

Il Casini che attacca la giusta critica di Grillo alla cosiddetta “legge Biagi” non è insieme patetico e ipocrita nel far leva come fa sulla beatificazione del Biagi “martire” (come se i contenuti della legge non fossero per questo più criticabili…) che tanto blandisce il ‘senso comune’?

È già semplicemente da queste due reazioni che si evince indubitabilmente che il Paese sta arrancando su due diverse dimensioni – il Paese ‘reale’ dal una parte, la casta politica dall’altra e che se si ha davvero a cuore la sorte dell’Italia non c’è altra via possibile che quella di una ‘rivoluzione democratica’, di iniziativa popolare appunto, che sradichi il tumore di un sistema di ‘privilegi di casta’ che è responsabile dell’inesorabile affondare di stato sociale, economia, cultura – della società tutta?

Meglio non illudersi, comunque. La casta tenterà di tutto per superare anche questa fastidiosa contingenza (ad esempio riformando la già rabberciata legge elettorale…), per neutralizzare Grillo e il “movimento” e continuare a ‘regnare’ in dispregio della Costituzione repubblicana e del buon gusto.

(10 settembre 2007)

 

QUELLI CHE CONTINUANO A RACCONTARCELA.

Un editoriale intelligente di Guido Michelone su “Alias”, supplemento de “Il Manifesto” di qualche giorno fa. Diretto, senza ipocrisie, come deve essere quando al centro vengono posti gli interessi del lettore (ascoltatore), non quelli degli “amici degli amici” e degli editori.


“UN’ESTATE PER I DISCHI. GRANDI E PICCOLI VADEMECUM PER IL ROCK”
L’estate sembra quasi la stagione propizia per certi libri, come i tipici best-seller da consumare in spiaggia sotto l’ombrellone: così l’editoria nostrana, sforna, anche per la musica, in rapida frenesia, volumi e volumetti (talvolta anche volumoni, ma solo nel formato) per congelare la “grande” musica dei “giovani” nel numero chiuso dei dischi “capolavoro” o comunque “fondamentali” e “immortali”, sfidando persino il molosso Internet, che permette l’aggiornamento in tempo reale di gusti e tendenze, classifiche e novità. Ma, proprio nei libri di cui sopra, novità è un concetto quasi del tutto assente: sembra che nei volumi sull’argomento vigano quattro ferree regole da rispettare molto diplomaticamente: 1) eludere il contemporaneo a vantaggio del trentennio Sessanta-Ottanta; 2) idolatrare il vinile (lp), senza tentare seri approcci alla fenomenologia dei cd e dei nuovi mezzi; 3) fissare in una cifra, possibilmente tonda, l’esclusività dell’ascolto per i lettori, neofiti o fan, rispettando matematiche o geometrie assolute; 4) prediligere il rock quale summa creativa di un “ars musicali”, da cui viene rimosso ciò che sta a destra (il pop, la canzone, il lounge) e a sinistra (il jazz, il folclore, la classica). Per il resto, come dicevano i Formalisti russi già negli anni Venti, il contenuto è la forma (e viceversa): e in tal senso paiono un po’ tutti uguali nella sostanza i pur differenti volumi-volumoni per un’estate musical-letteraria: da un lato gli album possono essere solo 33, oppure 100, 100x5, 250x2, 500, addirittura 2556 (canzonette), dall’altro le selezioni paiono ragionevoli (o tradizionali, persino conformiste), ma è proprio la sostanza a latitare.

Nulla da eccepire se “Sergeant Pepper’s” sia ovunque primo in graduatoria o se nella top ten figurino sempre titoli arcinoti, dai Doors a Dylan, dai Rolling a Hendrix, da Bowie a Springsteen, dalla Joplin a Patti Smith. Ma il problema è un altro, se si leggono le opere: narrativi Ernesto Assante e Gino Castaldo in “33 dischi senza i quali non si può vivere” (Einaudi), statistici Peter Dodd e compagni da “I 100 dischi più venduti negli anni ’50, ’60, ’70, ’80, ‘90” (White Star), sociologizzante Ezio Guaitamacchi con “100 dischi ideali per capire il rock” (Editori Riuniti), nostalgico Mimmo Franzinelli con “Rock Music I e 2” (Mondatori), giornalistici ovviamente quelli (americani) di Rolling Stones per “I 500 migliori album di ogni tempo” (White Star), intimista e saccente Luca Sofri e la sua “Playlist. La musica è cambiata” (Rizzoli). Tutto è già noto, risaputo, quasi scontato per chi conosce leggende metropolitane e banali mitologie sul rock’n’roll.

E allora? Repetita juvant, va bene; o quasi. Meglio però tornare indietro di qualche mese e rileggersi il Giuseppe Rausa del “Dizionario della musica rock” (BUR, 2005): cattivello, pignolo, non risparmia nessuno, ma almeno insegna a distinguere tra chi sa suonare e chi no, a riconoscere le bufale anche tra i dischi di culto, insomma a usare l’orecchio e il cervello”.

(Guido Michelone, “Alias” n. 10 (466) del 28 luglio 2007, pag. 16)


Solo una breve riflessione a margine. Quest’ansia all’enciclopedismo che attanaglia scioccamente il nostro tempo, la vana illusione cioè di poter possedere tutta la conoscenza su un dato argomento, controllando fatti e idee, archiviando “definitivamente” dati ed esperienze (Michelone scrive di “congelamento”), sclerotizza nell’appassionato l’impulso ad andare oltre, a cercare propri canali alternativi di informazione/conoscenza, a ragionare, appunto, sulla base del proprio gusto, della propria sensibilità, della propria ‘storia di ascoltatore’ (esperienza). Così, anche partendo dal noto (i volumi citati da Michelone) può diventare esercizio divertente (oltre che utile) scardinare giudizi perentori su opere e artisti andando a ricercare proprio quelle opere definite ‘minori’ o insignificanti: con il downloading da e-mule, ad esempio, può essere facile ed economico.

(5 agosto 2007)

 

PERCHE' NON POSSO NON DIRMI COMUNISTA (COL PANAMA).

Allora, l’ultima moda dell’estate sembra essere quella di portare il panama. L’hanno detto alla radio, l’ha confermato in questi giorni la TV. Pare abbia cominciato a portarlo Madonna, e da quel momento è un’epidemia di panama, come un’infestazione di blatte.
Sarà un bello spettacolo, a pensarci, sulle spiagge: donne dal sedere basso con il panama, lungagnoni segaligni con il panama, ragazzetti con I-Pod e panama, coppie avvinghiate con il panama, bagnini con il panama…

Più che la consueta corte di ridenti, spensierati, disinvolti conduttori radiotelevisivi che compiaciuti ne stanno parlando come si trattasse dell’ennesimo tratto di vitalismo, di effervescenza, di creatività contemporanea, è la rassegnata, becera constatazione dilagante che tutto ciò possa e debba essere oggetto di interesse per qualcuno, a lasciare interdetti.

Volendo, con un piccolo impegno si riesce anche ad andare ben oltre. Trattando del prezzo del panama si disquisisce sulle sue fattezze, sulla qualità con cui è fabbricato: si dice che un panama a buon mercato costi anche 100 euro e si può tranquillamente arrivare – “per chi se lo può permettere”, ammette la DJ di RadioRAI 2 – anche fino a 2.000 euro. “Ma quelli sono per altri portafogli”, continua, “non tutti se lo possono permettere”…

Appunto. Tutti i giorni, per la strada, abbiamo modo di verificare visivamente chi se lo possa o meno permettere. E siccome, immagino, la stragrande maggioranza degli italiani (ridanciani DJ compresi) sia costretta ad accontentarsi di modelli 'taroccati', da quattro soldi (perché se proprio devo apparire è meglio che almeno da lontano dia anch’io l’impressione di portare il panama…), propongo un atto rivoluzionario, da vera rivoluzione proletaria comunista, forte dell’idea così efficacemente espressa dal mai troppo rimpianto Giorgio Gaber secondo cui "qualcuno era comunista perché credeva di poter essere vivo e felice solo se lo erano anche gli altri".

Propongo quindi - per tutti - un panama fatto con i fogli di giornale, via di mezzo tra la barchetta e il copricapo di fortuna dei muratori. Un capo nuovo, economico, alla portata di tutti, appunto, addirittura 'colto' (il giornale...), che rischia di diventare - se lo portiamo tutti - una nuova, irresistibile moda dell'estate.

(16 luglio 2007)

 

STREGATO DA VIVO, DIMENTICATO DA MORTO?

Un Ammaniti che vince il Premio Strega (5 luglio 2007) con il suo ultimo libro non è certo notizia degna di nota. Che abbia ringraziato 'sé stesso' e la sua casa editrice, neanche. La cosa è semmai rivelatrice del significato reale di questo genere di riconoscimenti, su cui si modellano le patetiche dispute di paese sulla stampa locale di provincia in cui si premiano “il giovane talento calcistico”, “la miglior fotografia dell’estate”, “il miglior barman” e via dicendo sulla base del numero di coupon inviati alla redazione dai lettori.

Nel caso di Ammaniti, la putrescente logica editoriale italica prevede che dato per assiomatico che lo scrittore debba vendere, la casa editrice mette in campo una promozione serrata su tutti i media disponibili (radio, TV, Internet...); Ammaniti vince alcuni premi letterari “prestigiosi”, vende ancora di più e balza in testa alle classifiche: a quel punto Ammaniti è diventato un grande scrittore. La stessa logica di mercato che si applica indistintamente al prodotto da supermercato, al film nei cinema, al disco... Se si continua a sentire in giro che Battiato è un artista colto, un compositore raffinato, ci si convincerà che lo è per davvero: acquistare il suo ultimo disco, a quel punto, diventerà un 'dovere' culturale, una compulsione snob...

Quello che impressiona è, quindi, il fatto che coi Baricco, i Bevilaqua, i De Crescenzo, i Camilleri, i Faletti si possa arrivare a considerare Ammaniti uno scrittore a tutto tondo, un vero scrittore insomma. Al Premio Strega, ormai molti anni fa, si premiò addirittura Ennio Flaiano che scrittore dichiarato non era certo (per la verità è stato molto di più...), ma nei fatti lo è stato eccome (leggersi “Un marziano a Roma” o "Tempo di uccidere", ad esempio). Altri tempi, certo...

Non abbiamo letto, né lo faremo, l’ultimo libro di Ammaniti, ma qualche anno fa ci regalarono il suo best seller del momento - “Ti prendo e di porto via” (Mondadori, 1999) - e ci provammo con un certo impegno (poiché era sulla bocca di tutti, appunto...). Nonostante lo sforzo, però, rinunciammo dopo ventidue pagine, nel punto in cui si consumava una sciapida pruderie in un bar, che neanche il più sciatto Bukowski... Trascriviamo dall’originale:

“(...) Sta per uscire quando una morona abbronzata come un biscotto al cioccolato, un po’ passata d’età ma con due tette che sembrano palloni aerostatici, entra nel bagno.
“È degli uomini...” le fa presente Graziano, puntando la porta.
La donna lo blocca con una mano. “Ti vorrei fare un pompino, ti dispiace?”.
Da che mondo è mondo un pompino non si rifiuta mai.
“Accomodati” le dice Graziano indicando il gabinetto.
“Prima però voglio farti vedere una cosa” dice la mora.
“Guarda lì, al centro del locale. Vedi quello, con la camicia hawaiana? È mio marito. Veniamo da Milano...”
Il marito è un tipo smilzo e imbrillantinato, che si sta ingozzando di cozze pepate.
“Salutalo”.
Graziano fa ciao con la mano. Il tipo solleva il calice di champagne e poi applaude.”Ti stima tantissimo. Dice che suoni come un Dio. Che hai il dono”
La donna lo spinge nel gabinetto. Chiude la porta. Si siede sul cesso. Gli sbottona i jeans e dice: “Ora però gli facciamo le corna”.
Graziano si appoggia al muro, chiude gli occhi.
E il tempo svanisce”.”

Non può essere certo una regola che i più grandi artisti vengano riscoperti una volta morti. In alcuni casi anche dopo molti anni (Carver, Fante...). Nel caso di Ammaniti, come di Baricco e Faletti, per altro, il fatto che siano considerati grandi scrittori contemporanei in vita, oggi, è comunque un fatto rassicurante. Non c’è il rischio che vengano riscoperti da morti...

(6 luglio 2007)

 

COSI' PALLIDO DA SEMBRARE MORTO.

Con quali auspici nasce il Partito Democratico nella candidatura di Walter Veltroni?
A giudicare dalla colonna sonora scelta, più che dalle idee, verrebbe da dar ragione a quell’opposizione del governo che l’ha giudicato un partito “nato morto”.

Dopo i precedenti degli ultimi anni (“Canzone Popolare” di Fossati, “La storia siamo noi” di De Gregori e, soprattutto, i recenti pezzi di Rino Gaetano e Paolo Conte di cui si è scritto anche su questo sito...), tutt’altro che inequivocabili per identità e significati, la chiusura del lungo discorso di Veltroni al Lingotto di Torino (28 giugno 2007) è stata affidata a “WHITER SHADE OF PALE” dei Procol Harum, immarcescibile inno degli anni sessanta.

Come si ricorderà, il brano composto da Gary Brooker e Keith Reid diventò nell’arco di poche settimane un hit da classifica dell’estate 1967 (prodotto da Denny Cordell era stato pubblicato dalla Deram in maggio). Il pezzo, registrato in realtà da alcuni session men, era stato suonato nelle settimane antecedenti la sua pubblicazione nei locali underground di Londra, in particolare al leggendario UFO Club di Tottenham Court Road, sul cui palco si alternavano, tra le altre, band dal sicuro avvenire quali Pink Floyd e Soft Machine. La caratteristica introduzione d’organo barocco di GARY BROOKER (che richiama così smaccatamente il Bach dell’”Aria sulla quarta corda”) e l’attacco vocale “We skipped the light fandango” ne hanno fatto uno dei principali ‘luoghi comuni’ dell’epoca, utilizzato nelle colonne sonore di innumerevoli film e sceneggiati, pubblicità, manifestazioni pubbliche.

A rileggerne il testo in traduzione viene da chiedersi perché mai gli organizzatori dell’evento del Lingotto abbiano potuto scegliere un simile brano:

“Ballavamo un delizioso fandango
facendo giravolte sul pavimento
e mi stava venendo il mal di mare
ma il pubblico reclamava il bis.
Nella sala il brusio aumentava
mentre il soffitto volò via.
Quando chiedemmo ancora da bere
arrivò il cameriere col vassoio.
E fu così che in seguito
mentre il mugnaio raccontava la sua storia
il volto di lei, all’inizio solo spettrale,
si fece ancora più pallido...

Lei disse che non c’è ragione
che la verità è facile da vedere
ma io vagavo tra le carte da gioco
e non volevo che lei diventasse
una delle sedici vergini vestali
che stavano per partire dalla costa.
E per quanto tenessi gli occhi ben aperti
potevano benissimo essere chiusi.
E fu così che in seguito
quando il mugnaio ci raccontò la sua storia
il volto di lei, all’inizio solo spettrale
si fece ancora più pallido.”


Neppure la versione italiana dei Dik Dik (“Senza Luce”) pubblicata qualche mese dopo, a guardar bene, risulta così significativa sul piano testuale, ricalcata com’è sull’originale inglese:

"Han spento già la luce
son rimasto solo io
e mi sento il mal di mare
il bicchiere però è mio
cameriere lascia stare
camminare io so...

L'aria fredda sai mi sveglierà
oppure dormirò…
Guardo lassù la notte
quanto spazio intorno a me
sono solo nella strada
o no no
qualcuno c’è...

Non dire una parola
ti darò quello che vuoi.
Tu non le somigli molto
non sei come lei.
Però prendi la mia mano
e cammina insieme a me.
il tuo viso adesso è bello
tu sei bella come lei.

Guardo lassù la notte
quanto spazio intorno a me,
sono solo nella strada
insieme a te
insieme a te...".


Da un punto di vista musicale, inoltre, per quanto evocativo di un’epoca (i “mitici anni sessanta”), giudicato oggi il pezzo suona irrimediabilmente datato per timbriche (proprio quell’organo che fu il marchio di fabbrica del gruppo) e struttura; comunica sentimenti di nostalgia (per un’età, appunto, in cui tutto, anche politicamente, sembrava possibile...) in una dimensione fatalmente retrospettiva, non certamente proiettiva (è un salto indietro nel tempo, non certo in avanti, verso il futuro) che contraddice nettamente l’immagine e i contenuti rappresentati da Veltroni nel suo discorso. È un pezzo che ‘parla’ solo ai cinquantenni, alla generazione dei nonni, dei padri e delle madri, non a quella dei figli e dei nipoti, cui il Partito Democratico e le sue politiche intenderebbero rivolgersi.

Se giudicassimo la ‘discesa in campo’ del Partito Democratico (e di Walter Veltroni) dalla colonna sonora scelta, proprio come nel recente passato dovremmo ammettere che sì, in effetti, si tratta dell’ennesimo partito nato così pallido da sembrare morto.

(30 giugno 2007)

 

 

UNA SPRUZZATA DI DIOSSINA SULLA TORTA DELLA CULTURA NAZIONALE.

Alle 21 di ieri, tra i padiglioni della Fiera del Libro di Torino, circolava un'aria da fine del mondo. Erano gli effetti di quattro giorni di tsunami della cultura italiana. Milioni di libri ammonticchiati sugli stand delle innumerevoli case editrici, grandi e piccole, stipate nella più totale sperequazione di forze. Eserciti impari si erano fronteggiati. I morti, al solito, erano tutti dalla parte dei Davide.
Bastava guardarsi intorno, ad averne ancora voglia, e concentrarsi sulla marea di corpi che si sbracciavano per un ultimo acquisto. Ma cosa comprare? Cosa scegliere? Come distinguere la qualità nella devastante quantità?

Ci colpiva, in particolare, quell'aquario d'acqua putrida che era lo stand di Newton Compton, cintato da una muraglia di cataloghi alti come un volume della Treccani (carta patinata, a colori, si intende...). Dentro, in un gineceo di tavoli -, braccia, mani, teste che si muovevano frenetiche, compulsive, afferrando, sfogliando, appoggiando, trattenendo quelli che apparivano a prima vista libri ma che, osservando più attentamente, potevano anche essere scatole di cornflakes della stessa marca, indistinte, sigillate nella pellicola sottile del domopack, pronti per essere allineati nelle librerie in legno povero (ma naturale, pare) dell'IKEA.
Titoli importanti, certo, di cui non si contano più le edizioni e gli editori: "La colonia penale" di Kafka, ad esempio, o le massime di Gothe o un'edizione economica del Corano. Il giochetto era: dì il primo titolo che ti viene in mente e lo troverai nell'acquario...

Alla chiusura l'aria s'era fatta di devastazione, come dopo una spruzzata di diossina sulla Torta della Cultura Nazionale (e la voce di Ligabue, non quella di Bob Dylan, dalla sala gialla ammansiva le folle di imberbi e brufolosi...). Un senso di degradazione, di eccesso, come dopo un'abbuffata a un matrimonio.

(15 maggio 2007)

 

UN ALTRO EROE DEL NOSTRO TEMPO.

Morti di Nassyria a parte, gli eroi italiani del nostro tempo continuano ad essere – a quanto pare – calciatori, cantanti, politici, personaggi televisivi.
Almeno a giudicare dall’apologetico resoconto di Gino Castaldo, pubblicato su “La Repubblica” del 5 giugno scorso, del concerto di Ligabue all’Olimpico di Roma (titolo a quattro colonne: “Ligabue, un’onda di 60mila teste”) per gli assetati di eroi del nostro tempo, eccone un altro, dunque.

Nel tripudio di aggettivazioni ispirate (“Il loro idolo è uno strano miscuglio di romanticismo e virilità: un rude cowboy emiliano, con un fisico da mediano, che sa parlare ai cuori di tutti questi ragazzi”), nella vertigine di immagini ad effetto (“Mentre canta, lui assorbe l’energia che sprigionano i suoi fan”) e abissi della retorica (“A un cero punto un ragazzo brandisce in alto una stampella, come Enrico Toti”), Castaldo ripropone una volta di più l’immagine del giornalista rock (oltretutto attempato) sedotto dalle doti demiurgiche della rock star (pubblico osannante in delirio), distante come Orione dalla Terra dall’irriverente, barbarica, visione della scrittura rutilante e disillusa di un Lester Bangs o dall'ispirato rigore letterario di un Greil Marcus, quelli sì giornalisti veri.

Ecco un esempio perfetto di giornalismo da cui tenersi alla larga:
“(…) Rimango stordito, le gambe tremano, accecato dai fari che sciabolano il palco per il gran finale. E’ la meravigliosa, insana follia di un concerto davanti a uno stadio pieno, quella che ho sempre visto dalle tribune e che ora per la prima volta guardo dal punto di vista dei musicisti. (…) Non c’è nulla che assomiglia alla normalità in questo rito. Mi è bastato un solo pezzo per capire. (…) Guardo Ligabue, cerco di incrociare il suo sguardo. Lui ha gli occhi spalancati, il volto raggiante, un sorriso felice. Si capisce che sta cercando di assorbire al massimo l’energia che arriva dall’Olimpico in festa come se fosse l’unica occasione possibile. Vuole portarsi a casa questo tesoro di umanità. (…) Il clamore della folla arriva come una vampata calda, una scossa di adrenalina che ti entra nelle ossa e sale fino alla cima dei capelli. La pelle si arriccia di brividi. Ma Ligabue rimane sorprendentemente calmo, a volte cammina lentamente, se la gode in pieno, gira lo sguardo intorno come se volesse cogliere quegli sguardi uno a uno e rispondere a ognuno. (…) Alla fine scendo anche io con i musicisti che mi danno pacche sulle spalle. “Allora?” mi chiedono. Allora adesso ho capito meglio l’impagabile fortuna dei grandi musicisti. Queste emozioni sono merce rara, rarissima, il frutto dell’amore di sessantamila cuori che battono”.

Un descrittivismo "ciccia-e-brufoli" degno di riviste tipo “Visto” o “Chi”... da far venire il vomito.

Il “fenomeno Ligabue”, d’altronde, meriterebbe ben altre analisi, una volta ammesso – oltre l’innegabile successo di pubblico e vendite di cui gode (può, per una volta, non essere considerato un indicatore del “valore artistico”, questo?) - che il cantante di Correggio non è altro che uno degli ultimi epigoni del rock americano di importazione, con il limite poetico che i suoi temi sono confinati in un immaginario asfittico, almeno per noi che in pianura padana siamo nati e cresciuti e che “tra la via Emilia e il West” abbiamo preferito sognare di perderci nel West (mitico, ideale, rock) dei Guthrie e dei Dylan, piuttosto che rimanere imprigionati tra i tavoli e le sedie del “Bar Mario” (dove comunque ci è sempre piaciuto andare a bere e mangiare…).

L’Italia è questa, d’altro canto, non c’è molto di che illudersi. A uno Springsteen che col suo ultimo album riprende fieramente le fila della cultura popolare americana partendo da uno dei suoi grandi padri (Pete Seeger), il nostro Paese risponde non solo con l’insulso rock intimista di Ligabue (non a caso il brano più ascoltato dell’ultimo album è il furbesco “Le donne lo sanno”, volutamente ambiguo e 'piacione'…) o il finto antagonismo rock di un Vasco Rossi, ma rimuovendo beceramente le sue radici popolari, le sue origini più autentiche (e, sotto questa luce, l’operazione De Gregori-Marini a suo tempo da noi aspramente criticata assume una valore sempre più alto con il passare degli anni…).

Il rock è fenomeno internazionale, è vero, un universo sterminato in cui tutto è lecito in termini di creazione artistica, in cui l’ars manipolatoria delle forme è uno dei suoi elementi genetici imprescindibili. Ma se può esistere ancora una “critica rock”, se ha ancora una sua difendibile ragione d’essere, questa è riposta nella sua totale autonomia dal mercato, nella sua assoluta libertà di pensiero. E’ davvero intollerabile l’opera di chi continua intenzionalmente a confondere significati e valori prestandosi alle logiche della discografia, alimentando la mitografia di un eroismo da rotocalco e da suoneria di cellulare.

Il paginone dedicato a Ligabue dal secondo quotidiano nazionale, sotto questo aspetto, è un ulteriore monumento alla “morte del rock” più volte annunciata, non la sua celebrazione.

(Si consoli Castaldo, comunque: Giovanni Minoli, la stessa sera su RAI Tre, è riuscito persino a fare di peggio con il 'santino' dedicato a Francesco Totti nel programma “La storia siamo noi”… Tra filmetti amatoriali, canzoni di De Gregori (quella, immancabile quando si tratta di calcio, che “non è da questi particolari che si giudica un giocatore”…), interviste a Sabrina Ferilli (“E’ il numero uno!”, il concetto più chiaro) e Ilary Blasi, si è consumata l’esegesi di un calciatore salito alla ribalta internazionale più per gli sputi agli avversari che per le doti tecniche e inventive… più per la popolarità tra i borgatari de roma e le barzellette che per la sobrietà dello stile e la serietà professionale).

(6 giugno 2006)

 

"SONO TUTTI UGUALI!". PSICOPATOLOGIA DELL'ELETTORATO MEDIO ITALIANO (A UNA SETTIMANA DALLE ELEZIONI POLITICHE).

Cammino per strada, entro in un bar, bevo un caffè. Al banco tre persone di mezza età, sui cinquant'anni, discutono animatamente di "politica". La frase che schizza di frequente come un mantra ubriaco dal cumulo di macerie-luoghi comuni è: "sono tutti uguali!", a guarnire l'elencazione delle cose che non funzionano in Italia, dei soprusi, del malcostume dilagante.

Evidentemente, e non da oggi, esiste un modo di essere italiani che va ben oltre la fiera dichiarazione del leghista "celodurista" della prima ora, cullato dall'immaginario di riti al dio Po, "devolusciooon" (Celentano docet), leggi a favore della legittima difesa (= spara al negro), paganesimo d'accatto, radici padane (a indigestioni di polenta taragna) o del prode nipotino dei Ragazzi di Salò che in una cruenta "guerra civile" lottarono (anche loro) per "liberare" la povera
patria (e la famiglia e la Chiesa) ed oggi, di fronte all'invasione di "stranieri" non sanno immaginare altro che dazi, muraglie (cinesi), filo spinato e sfollagente.

E' il pervicace, stolto qualunquismo di chi non vuole (o non sa) decidere da che parte stare, che guarda alla realtà come se non lo riguardasse, il vero protagonista di questo scorcio d'inizio secolo in un paesino del meridione d'Europa...

Se il liberalismo stile Radio 24 (confindustriale) sosterrebbe, disquisendo in astratto, che è un diritto in democrazia anche non votare, astenersi, annullare la scheda elettorale - comunque non prendere posizione - è un fatto che questa realtà costringe le persone ancora pensanti a riflettere sul proprio destino "politico", sulla propria collocazione di "classe", benché le sirene dell'individualismo (confindustriale) - quello che guarda alla persona non come a una dimensione complessa ma come a un consumatore, punto - tentino pervicacemente di convincerci del contrario.

Senza uno straccio di "coscienza di classe" (ah, vetusta categoria del pensiero marxista!) questo Paese è condannato al divano e alla parabola satellitare, all'umiliazione di esercitare il proprio diritto/dovere a concorrere al governo della nazione con una semplice X sul simbolo della scheda elettorale, all'avvilente convincimento che è ormai inutile decidere perché, appunto, tanto "sono tutti uguali!" ed è indifferente.

Ma sono poi "tutti uguali"?

Io un'idea (per quanto modesta, relativa) me la sono fatta e, al di là delle posizioni politiche tradotte in proposte di governo (al limite dell'imperscrutabilità), credo che si debba ripartire dal giudicare un candidato sulla base dell'onestà (= nessuna condanna passata in giudicato), della serietà, della sobrietà, dello stile, del rispetto dell'avversario e, soprattutto, del laicismo, della nonviolenza (= antimilitarismo), dell'antifascismo (dichiarato, esplicitato, non ambiguo). Valori assoluti, almeno per me, che nella Storia non dipendono da contingenze e uomini.

Quindi non voterò Forza Italia, né altri partiti della Casa delle Libertà.

Anche perché l'unica idea di "libertà" manifesta dell'armata brancaleone berlusconiana al governo è stata la "libertà" di agire indisturbati in dispregio delle regole e delle leggi, garantendo a se stessi privilegi di "classe" nella totale impunità, secondo i più retrivi sistemi del tanto osteggiato e insultato "socialismo reale" (confuso sistematicamente e strumentalmente con il Comunismo italiano).

(31 marzo 2006)

 

 

LAURA PAUSINI, GLI U2 E ALCUNE "VERITA' CONTEMPORANEE"...

Laura Pausini vince un Grammy Award e lo dedica alla “sua” patria (“Io sono italiana e devo tutto all’Italia”). E mentre la “sua patria” continua ad essere quello che è (un imbarazzante non-luogo senza regole dove prevalgono i più furbi e i più forti) e su tutti i giornali non si perde tempo a ricordare come la cantante abbia faticato parecchio in questi anni per raggiungere il meritato successo internazionale (= tanti bei dischi venduti), su “L’Unità” del 9 febbraio scorso Toni Jop intervista tale Elisa, sedicenne romana, appena uscita da un concerto degli Oasis. Titolo dell’articolo, poco più sotto dell’apologia della Pausini: “Oasis? Meno smorti dei Beatles”.

 

Nell’intervista, condotta con la consueta attitudine del “vecchio” che non riesce a stare al passo coi tempi, aggrappato com’è alle antiche passioni della sua giovinezza, e si vede frantumare in una battuta i miti di sempre (“E i Beatles?”, chiede. Risposta: “Bravini, un po’ troppo smorti per i miei gusti, preferisco Elisa, la mia passione…”), alcune “verità contemporanee” che raccontano delle epocali trasformazioni in corso.

 

“Io non ho dischi, scarico da Internet, ho sentito qualche pezzo loro e mi sono piaciuti, non so dire di quando siano i brani che ho ascoltato e non mi importa…”.

E Jop, candidamente: “Non hai neanche un disco?”. Lei: “Te l’ho già detto. Papà li ha, io no, a cosa mi servono?”.

“Giusto. Cos’è che ti piace di più tra gli scarichi?”

“Ascolto molta musica diversa. Dai Muse a Giorgia e non solo. Per esempio, mi piace il blues, mi fa allegria…”

“Lo sai che gli Oasis ci tengono a precisare che si sentono figli dei Beatles?”

“Si, lo so. E infatti ci somigliano ma sono più vivaci, più rock e sono più popolari di loro, adesso”.

 

Elisa è il prototipo del giovane contemporaneo mutante. Non che ci volesse “L’Unità” per essere illuminati su un universo (parallelo al nostro? …al “nostro” quale?) che quelli della mia età faticano anche solo a concepire. Che le pratiche dell’ascolto siano repentinamente cambiate è di un’evidenza schiacciante, d’altronde, come sono innegabili le difficoltà in cui sta annaspando da tempo la discografia, incapace di opporsi alla deriva del suono tornato “puro” con tutte le implicazioni connesse dalla rivoluzione del “peer to peer” (diritti d’autore in primis).

 

E’ in atto una mutazione “antropologica” che ha ridotto il vivere contemporaneo in un totalizzante “qui ed ora”, dove la memoria storica, la contestualizzazione della conoscenza, l’ordine del discorso sono sul punto di tramontare sacrificate al piacere monodimensionale del sentire per il sentire (niente di male, ci mancherebbe altro), pura funzionalità. Quanto alla musica, leggete qualsiasi “newsgroup” della Rete e ne avrete la fedele testimonianza…

 

Ma, allora, chi ha comprato tutti quei dischi che rendono la Pausini una delle cantanti italiane più famose di tutti i tempi nel mondo? Chi l’ultimo mediocre disco degli U2, primi in tutte le classifiche del 2005?

 

(9 febbraio 2006)