SCRITTI D'ARTE

(scritti sull'arte di alcuni amici, esercizi di stile provocati dalle loro opere uniche e irripetibili...)

 

infinito rosario

... ferro nero, che di ruggine spera, metallo fiero anche se a nobiltà limitata, non è sempre vero, ma se cadi in fallo, la speranza scema, la saldatura trema, arriva la sera nella campagna ansimante dove tutto è attonito, marmo, il sole è un dardo, spento, nel pomeriggio che si piega e prega dalla finestra rotta, il marmo impera... non è già primavera, se il campo sbranato si rannicchia nel fango di una pioggia resa, in cui tutto eleva e mira alla sera...? ferro che è fiera, arrogante e mera, insulto volgare nella chiesa, è il negher mai invitato a cena, dove il marmo è scena, per cui tutto si schiera, vincitore di un tempo che è eterno, simbolo della vacanza-premio di un'arte olimpionica, dove la luce bacia sulla guancia non il vinto, dove il carattere è contrapposto, la materia avvinta in un corpo a corpo... marmo scavato, golem immaginato, dalle correnti dell'anima che grattano di dentro, una madre, un figlio abbracciato, solo un vuoto solo un pieno, è rincorsa senza freno, il buco eterno della goccia lenta, la felicità del provvisorio scempio... è ferro: "Metallo tenace e malleabile, di grande importanza per la sua utilizzazione industriale: per le sue doti di saldabilità, fucinabilità, trafilabilità, stampabilità, il ferro viene usato per la costruzione di piastre, lamiere, bulloni, fili ecc."... è marmo: "Roccia calcare, dura, cristallina, a grana per lo più uniforme, formatasi in seguito a fenomeni di metamorfismo regionale, dinamico o di contatto"... è ferro, è marmo, è l'infinito rosario...
(pubblicato sul pieghevole della mostra collettiva "Scultura. Ferro-marmo", allestita a Castelleone (CR) nell'aprile 2003)

 

Atlante di corpo immaginato

Da oltre quindici anni Cristiano Guatelli lavora a una sua personale galleria antropologica – almeno 300 tele, il più dipinte con colori ad olio – di volti, arti, sguardi, gesti immaginari, catturati a volo di memoria, modellati, assemblati, sezionati. Corpi o frammenti di corpi che affermano volontà, resistenze, dinamismi e il loro opposto: l’immobilità, il degrado, la resa, l’inesorabile beffarda consunzione.
Guatelli aggiorna così la nozione stessa di corporeità eludendo sistematicamente il modello vivo, reale, esistente: i suoi quadri sono identikit di esistenze volatili, rappresentazioni di corpi-simulacro che alludono a un’idea di Realtà, confondendo i piani percettivi, provocando strappi di senso.
Nella sua appassionata, ossessiva ricerca Guatelli è politico, anche, perché i suoi corpi sono tutto ciò che il marketing globalizzato rifiuta e abbandona a sé nello squallore anonimo delle discariche della quotidianità mai illuminate neanche dalle finzioni dei reality show.
Sono pance cadenti e seni sfatti di donne – iperboliche e ipertrofiche, ironiche e grottesche, eppur dipinte con tenere carezze di pietà; sono volti di uomini fiaccati dal lavoro o dall’insonnia, dall’effimero abuso di alcol, facce scalfite dalla depressione che incide la carne. Sono le gambe e i seni asimmetrici, apologia dell’imperfezione, le vagine e le scarpe con il tacco negli interni di stanze da bagno di ovvietà piccolo borghese. Anche quando il ritratto è di donna, il tratto non rincorre un’idea di bello ma introduce lievi elementi asincroni, piccoli difetti, improbabili tagli anatomici (un seno storto, un occhio tendente allo strabismo, una mano grottescamente adagiata...), come a suggerire che la visione è fatto personale, dato unico, irripetibile. Gambe di donne (che sembrano gambe di uomo) esibiscono il loro crasso sfacciato erotismo, nudità macilenti si avvinghiano irridendo l’atto sessuale.
E cos’è il corpo se non il precario, vano atlante di esistenze andate, di attimi già spesi, di esperienze seppellite, dell’invisibile trattenuto e smarrito, del miracoloso attimo che scivola rapido, che si perde per sempre?
Nella reiterata, estesa rappresentazione di corpi, Guatelli assume la drammatica responsabilità di scrutare il corpo contemporaneo dopo Dix, Grosz, il Cubismo, Schiele, Bacon e Lucien Freud, la poetica cyborg: qui, però, l’artista è ben oltre la macchina, il robot, il clone perché dall’apparente normalità (borghese?) dei suoi modelli lascia affiorare l’inquietante incrinatura del dubbio: se la pittura figurativa (con la fotografia e il cinema) seleziona dal mondo del possibile l’immagine facendola discorso, qui è il non detto a dire, il non visibile ad essere visto attraverso l’accumulo limaccioso dei significati della Storia.
Chi sono le persone immaginarie di Guatelli? Chi c’è vicino a loro? Qual è lo spazio intorno? Da che mondo provengono i suoi corpi? Di quali storie sono figli?
 
(Scritto del dicembre 2004 per il catalogo delle opere del pittore cremonese Cristiano Guatelli)

 

Storia di un quadro avuto casualmente in eredità.

Questo breve scritto è scaturito dalla lettura dell’opera di George Perec, in particolare da “Specie di spazi”, dall’impulso di guardare alla propria storia con gli occhi dell’etnologo, collegando fatti, soffermandosi su particolari apparentemente insignificanti…Un’etnologia del quotidiano che parte dagli oggetti e presume di poter indagare la dimensione filogenetica.

 

Nonna Gianna (Giovanna) abitava in via Pecorari, 3 a Cremona, in un palazzo storico in cui si trova, ancora oggi, la trattoria “Il Bissone” che, agli inizi del Novecento, il sabato contava tra i suoi avventori anche Giuseppe Verdi, diretto in calesse al mercato. Secondo piano, un appartamento troppo grande per lei sola, dopo la morte di suo marito Gino (Luigi).
Da piccolo, con mia sorella, ci passavo i pomeriggi dopo l’asilo, a disegnare, cantare, fare merenda nella piccola cucina. Non ricordo ci fosse la TV, forse erano le storie e le filastrocche della nonna a intrattenerci. A lei devo per lo meno le poche canzoni patriottiche che conosco (“La leggenda del Piave”, “La spigolatrice di Sapri”, “L’Inno di Mameli”, “La bandiera tricolore”…).

Quando venne ricoverata in clinica, era la fine degli anni settanta, papà fu costretto a liberare la casa dai mobili, perché in affitto. Tra questi, un vecchio buffet impiallacciato con legno di ciliegio che era appoggiato a una delle pareti della cucina e che aveva fatto da sfondo a molti dei miei pomeriggi trascorsi là.
Durante il trasporto saltò fuori che per completare il retro del mobile qualcuno si era servito di una tavola dipinta. Nessuno, a cominciare da mio padre, ricordava che origini potesse avere il mobile che era probabilmente degli anni ’40.

Ho deciso di farlo incorniciare solo in anni recenti. Per molto tempo il dipinto è rimasto in un angolo dello ‘sbarazzacamere’, seminascosto, convinto com’ero che non ne valesse la pena. Era comunque una presenza costante della mia vita adulta. Il suo soggetto per me inquietante: un gruppo di uomini seminudi che procede in fila indiana a capo chino dando le spalle al sole. Un sole infuocato, che emana una luce turbinosa, avvolgente, come fosse una nube tossica, e che per sua collocazione nel quadro suggerisce all’osservatore che è causa di quanto sta accadendo nella scena. L’evento richiama alla mente un ‘day after’ atomico, uno stereotipo fantascientifico che non avrebbe certo sfigurato su una delle copertine dei romanzi delle varie collane Urania.

Tecnicamente, benché l’orditura dei colori ad olio mostri una discreta competenza dell’autore, il quadro evidenzia lacune evidenti anche ad occhio inesperto: i corpi umani in primo piano sono appena sagomati, rozzamente definiti, mentre un corpo in secondo piano è addirittura solo abbozzato, come si trattasse di uno schizzo; non esiste una prospettiva chiara, la profondità di campo è solo allusa. Il piano su cui procedono le figure è indefinito, probabilmente un prato verde.

L’andatura rassegnata dei soggetti e l’assenza di riferimenti spaziali precisi definiscono un climax allucinato, disperato, sinistro: dove stanno andando quegli uomini? Da dove vengono? Cosa sta accadendo? In che epoca ci troviamo?

È a dir poco curioso che questo dipinto sia uno dei rari oggetti che restano di nonna Gianna. È probabile che neanche lei fosse a conoscenza del pannello o qualora avesse saputo se ne era certo dimenticata. O ancora, pur sapendolo, non avesse dato importanza alla cosa. Fatto è che come per la sua stessa vita, segnata da una mente a dir poco balzana, il quadro mantiene irrisolti nel tempo alcuni enigmi.

 

La macchina triste

… l’occhio è una macchina infelice, ferro di lega scadente, ingombrante, rumorosa… imbarazzante insensatezza assistere solo a un mezzo miracolo, vedere solo una parte del tutto, dio di legno bruciato, scheletro del desiderio, il dito allungato che non indica e non tocca, il vento secco che immerge nella polvere la mattina pigra… è un ossimoro spento, l’occhio, una contraddizione che non lacera, l’urlo della solitudine che nessuno potrà sentire, è il dente rotto che non serve a niente, lo smarrimento di giulio che matura e non lo sa… è illusione, speranza di sprofondare tutto dentro di sé, è l’antiretorica della lampada verde di strindberg, il movimento bloccato, il nonsenso che gratta nella ruggine, lo spiraglio inatteso che scalfisce e inquieta, l’erba secca scossa dalla brina… dentro, ci sono i minuti strappati alla vertigine, barche bianche disperse nell’oblio di un pomeriggio piovigginoso, le ripide scalinate che portano nella cantina allagata della memoria… salamoia degli attimi trattenuti per cosa… nella slot-machine dove tutto si frulla e perde consistenza, si confonde, “era lui?”, “era lei?”, “ma forse…”, affiorano resti, carcasse di visione, scheletriche illusioni illuminate a giorno, impressioni di elena rapita, il corpo secco di amerigo che mangia sushi, la voce severa di domenico che chiede conto, il profilo tagliente di boetti che suda e si costringe… nella luce, tante volte ho creduto di vedere, assistere alla lieve parata delle cose che si fanno concetti, ho avvertito il rimbalzo dei sentimenti più arditi, confuso nelle emozioni di un ricordo svaporato, capito quando non c’era niente da capire, frainteso quando tutto era ormai compromesso… erano ombre che si ritorcono contro, da mondi in cui tutto appare ordinato, pulito, metronomico: la luce abbacinante in bolle di vetro prodotte in serie… ridisegna i percorsi, vanni, rompe le bolle, libera quando è costretto, svanisce quando tutto è concreto, eleva il metallo volgare mettendogli ali… troppe volte, ormai, abbiano creduto di riconoscere dio tra la spazzatura del nostro quotidiano… pasolini che parla di vanni e dice: “ogni giorno io riconosco intorno a me molti uomini poeti che non dicono una parola “poetica” nel senso convenzionale, ma che si comportano da “poeti”: e infinite volte mi succede di commuovermi di fronte a questa poesia non testimoniata da se stessa, concomitante con la vita, trascinata via con la vita”…
 
(pubblicato sul catalogo della mostra “Ombre Luminose” dello scultore Vanni Roverselli - Cremona, 7 giugno 2002)

 

Trincee di vento.

Intitolato originariamente “inquieti risvolti…”, questo brano è stato scritto nel gennaio 2002 per commentare su catalogo l’opera del pittore cremonese Cristiano Guatelli che esponeva alla Biennale dell’Havana a Cuba. Non essendo un critico d’arte, l’idea era quella di scrivere qualcosa partendo dalla sua opera.
Una volta completato, però, non piacendo a Cristiano, venne accantonato.
La natura del pezzo, volutamente basato sulla tecnica del ‘flusso di coscienza’, si è generata come di getto, aiutato da alcuni bicchierini di grappa Nonino bianca. Il testo è stato in seguito rivisto con interventi lievi, più che altro per omogeneizzare l’andamento ritmico. Come nel caso di una jam session o di una partita del Barcellona (con possesso palla medio tra il 70 e l’80%), ci si diverte più a farle, 'ste cose, che a leggerle…

 

…le percorrenze incerte nei rivoli delle rughe, soffermarsi sul guizzo inquieto di una duratura pantomima… una tavola antica, un pentagramma logoro e incompleto, la tragica cartografia di un viaggio finito, un malinteso incolpevole… ci si perde dentro, rapiti e illusi, vittime del furto delle anime… … iperboliche alate invasioni di un tempo antico che ripete il suo gracile verso, maldestro, battendo il tempo di una limitatezza imbarazzante, di sconfinata modestia… ha perimetro di fuoco e d’acqua, trincee di vento, razzi bagnati, inesplosi, luci estreme… vapori di desiderio e lente speranze, ardenti steli di ardesia, legno d’abete bruciato, profumi… odore di lattice strinato, pori straripanti di incenso e di mosto, vasi ricolmi di appiccicoso nettare… fuochi fatui nelle bufere di pioggia, lazzo del tempo a perdere negli angoli di un luogo qualunque… sacrificio, attimo disinnescato, lasciato lì a piagnucolare di sé, incompreso… incosciente come l’ordito estremo di guatelli…
… s’infila negli spazi della casualità, si piega, si offre in una smorfia di precario inciampo, poi un sorriso di ratto, lo strano sentore dell’istante prima della deflagrazione… non è l’esitazione dell’inedita coscienza, la quotidianità autentica, arde il nuovo che ripara nella notte della ragione: “un accenno di verità per te che osservi”, il ricatto amaro di un bacio strappato, il lieve immobile avviso di un angolo della bocca – vagina buona, ciglia piegate nel buio di un camino spento, strade di ghiaccio inciso, pelle che accenna un inganno, falsa come la più rassicurante memoria, ingannevole come il bambino che dorme… incosciente come l’assioma antico di guatelli…
… latra la forma, strappa la cura, reclama una visione qualsiasi, piegata nel ripetersi di sapori, umili cenni, pesante il movimento di irrefrenabile sgraziato candore, genuflessione del sentimento ipocrita, di chi non ha altro da perdere perché ha già vinto tutto…

… attimi irrisolti affiorano, reclamano impegno e devozione… e amore, e compassione, e fedeltà, leali promesse di fede, coraggiose intuizioni, volontà ferme, ritrovate disponibilità a vedere anche cosa non c’è… rabdomantiche ossessive ricerche della luce, scolpita nello sguardo arcigno, nel debole simulacro di una caverna-sorriso, di un pozzo-corpo, nell’insulto di un occhio che ammicca e non conosce riguardo, nel divagare di una vita arsa, già tizzone, aforisma di momenti ammassati uno sull’altro come coperte vecchie…

… istanti sulla tela incolpevole strappati da un nonsenso che è descrizione, racconto, visione, sogno… è osare insensato, vana regola, disciplina stolta, è vanagloriosa materia,

è: azzardo, giocata ubriaca, precaria scommessa, fottuto lancio di dadi, obliqua lotteria, virile moscacieca, passatempo omicida… è nadar che da alle fiamme i suoi 400.000 negativi, è giacometti che maledice le mani incrostate di creta, è l’illusione borghese di maupassant, è la colpevole temerarietà di guatelli…
… inquieti risvolti nei volti che squarciano la densa umidità di un precario accordo, un blues che sradica l’indugiante articolazione della commozione… il mistero, la paradossale stanchezza, il fremito primitivo di un dio essiccato, un urlo nel dormiveglia del sogno che si scopre intimo, il senso terrificante della decadenza nelle rancide parole di philipdick, la sacra nostalgia di henrymiller, il puzzo di vomito di rabelais, il meschino raschiare di dreularochelle, le ferite gocciolanti di strindberg, l’assurda sicumera dello straniero, l’alito leggero di teodoro che scrive: “non tutti i corpi sono poesia; non tutti i volti umanità”… un tragico errore l’interpretazione, impacciato tentativo di ordine…
…riconoscere è illudersi ancora di capire… stentato soliloquio, afono acuto, rattoppo della logica… incosciente la sinèddoche di guatelli che ci spoglia indifesi della nostra irritante vacuità…


lucaferrari28gennaio2002ore23.47

 

Pantagruelico Vanni Roverselli.

 

… pantagruelico vanni roverselli, si aggira tra i ferri e gli attrezzi e le macchine della sua stalla studio, studio-stalla, stalla-laboratorio, stalla a colonnato, con gli occhiali da saldatore e la pesantezza dei movimenti di chi, circospetto, soppesa tra le mani la terra calpestata appena dopo un atterraggio… e nuova terra è, lì tra i campi di soia e mais sconfinati, i fagioli borlotti e i girasoli, perduti per sempre, dalle parti di stagno lombardo, terra promessa di una storia, un tempo terribile e antico, trebbiato via dai tubi neri per l’irrigazione e dai climatizzatori dei trattori john deer… un bodrio più in là, profondissimo, con armature, ci si vanta, sprofondate in un sonno immobile e sinistro, tra laterizi e rifiuti-stigma che si inghiottono metri di spazio… vanni roverselli la vince sul ferro che trova, che ruba, che gli regalano e gli dà vita – banale espressione dar vita, perché il ferro non vivrà mai, in effetti, ma ci sputa in faccia pesante quando lo guardiamo, come lo guardiamo – se lo tocchiamo ci urla “vanni mi ha costretto a bestemmiarepregaresospirarecrepare così”, prosa sciolta delle braccia e degli occhi, un cazzotto sul muso del metallo, sfregiato da pigmenti e acidi che lo nobilitano – altra espressione scema, nobilitare – perché il maquillage il ferro ce l’ha già dentro, basta aver fiducia, entrarci con gli occhi… vanni roverselli rinuncia alla metafora e la costringe al soliloquio della critica, dice: “non penso mai per metafore, faccio le cose e basta”, come robert desnos, il papà dei surrealisti addormentati, scritture automatiche incise sul ferro… vanni, d’altronde, le sue opere migliori non le ha ancora compiute, forse non le farà mai, perché affiorano solo lì, nella sua testa barbuta, e ogni volta l’idea è già più in là, nel salto triplo con la materia, un alito di scappamento andato via, inafferrabile… moderno e antico insieme, carceriere e carcerato, seduttore e sedotto, raro affabulatore di improbabili eppur così affascinanti storie, vanni sposta il ferro insidioso della sua stalla, lo scalda, lo deturpa, gli strappa gli occhi e i capelli, lo accarezza e lo sevizia, lo sconfigge, ne è sconfitto… la musica di un tape recorder incrostato, intanto, si avvolge alle colonne… nella più intricata contraddizione delle sue illuminanti verità scomode, vanni è autentico, intrepido e fragile come un bambino…

(29 agosto 2000)

 

(Pubblicato sul catalogo “Roverselli” per la mostra alla galleria “Il Triangolo” di Cremona (7 ottobre-5 novembre 2000).

 

Blues del disincanto (sotto il rattoppo n. 1).

 

Scritto esposto alla mostra “Disincanto” dello scultore cremonese Vanni Roverselli, allestita allo spazio d’arte della Libreria Feltrinelli di Cremona, 25 ottobre-22 novembre 2003).

 

Canto il disincanto, che assedia la mia casa e fiacca me e i miei amori. Dodici battute di tempo andato, attimi già spesi, occhi consumati. Parole che non appartengono più a nessuno, idiomi ormai sconosciuti, deperiti. I gesti obsoleti, canto, le idee grandi finite nel cesso di questa quotidianità smessa, le voci sconnesse delle nonne soffocate nella memoria dei nipoti ignavi, l’incanto di un profumo legato a mobili-quadri-tappeti che non ci sono più, la felicità perduta a sette anni nell’ossessiva bruciante intuizione della morte che ci aspetta tutti, spietata… il timbro nasale di Bob Dylan diventato irridente gracchiare, i proclami già sentiti all’ombra delle bandiere in fiore, le inutili novene recitate dai presidenti, gli stanchi sorrisi dei cadaveri televisivi del divertimento obbligato, il subdolo tanfo della cultura popolare decomposta, i poveri non più poveri e furbi, gli stomachevoli piagnistei immigrati al riparo delle parabole, la brutta musica delle radio, l’etica del lavoro che ingrassa sindacati e padroni, il soldo psichiatrico tatuato nelle coscienze di tutti…
Canto il disincanto, lo canto, ma è preghiera stolta, truccata. Ferita malmessa, in questi attimi andati a pezzi, di promesse mai mantenute, urlate per “ingannare il tempo”. Di vite a metà, come stampi gocciolanti, slanci arresi, sudori trattenuti. Illusioni…
Eppure, dietro questo fondale senza dio, la verità di Vanni che balla il suo valzer cannibale con la vita, giusto dietro i rattoppi, e noi qui costretti a guardare, obbligati all’onestà del gesto in un luogo-paradosso, al pudore dei significati possibili che si offrono pudichi al nostro sguardo volgare di chi non ha più speranze e sta aspettando l’attimo per salire e intonare il suo blues, un blues del disincanto.

      (foto di Luca Ferrari allo studio-stalla di Stagno Lombardo (CR)