RACCONTI BREVI

 

DOMANI, ARMAGEDDON!

 

Dicevano che era questione di mesi, pochi, poi era tutto finito. Convivevo con questa prospettiva da tempo, inizialmente preoccupato, poi, man mano che scorrevano i giorni, la paura si era trasformata in curiosità. Come sarebbe successo? Avremmo sofferto? Dove saremmo finiti tutti?

Sarebbero davvero scesi dal cielo gli angeli suonando le trombe dell’Apocalisse?

Nei lunghi pomeriggi rintanati, da quando era diventato rischioso e sostanzialmente inutile andare a lavorare, con Giulia cercavamo di descrivere il profumo dei fiori, una delle nostre passioni.

Cosa puoi dire del mughetto?

Rispondevo per immagini, metafore, cose del tipo: “E’ il fiore dei guardaroba, sa di bagno appena fatto quando si è bambini e ti rimane un po’ di schiuma su tutto il corpo”.

E la gardenia? Come descriveresti il profumo della gardenia?

Giulia si irritava, pretendeva fossi più analitico e preciso con le parole. Scientifico. Una cosa da entomologi, credo, che non mi apparteneva per niente e che anzi mi ripugnava. Tendevo piuttosto a reinventare metafore e collegamenti.

A che erano serviti, dopo tutto, migliaia di anni di scienza se eravamo arrivati a questo punto?

Fuori, l’aria era stagnante. 39° ad aprile, avevamo già acceso il climatizzatore da settimane. Sembrava di soffocare.

Del profumo delle viole, che non mi erano mai piaciute, non sapevo proprio cosa dire. Era il mio tallone d’Achille, a quel punto le metafore erano come evaporate e non mi veniva proprio niente con cui tentare un’analogia, un possibile rimando. Un’immagine che valesse la pena.

Giulia lo faceva apposta, in quei pomeriggi immobili, d’attesa. Si divertiva a mettermi alla prova.

Non lavoravamo più da circa quattro mesi, da quando aveva perso di senso alzarci tutte le mattine e andare a timbrare un inutile, pietoso cartellino per soffrire almeno sette ore alla scrivania. Rispondere al telefono, prendere appunti, chiamare i colleghi di quel tal servizio e simili incombenze. Diciamo che non era stata l’idea che da giovane avevo cullato dentro in me in attesa della tanto agognata età adulta. L’età della ragione, della maturità, dell’indipendenza in cui tutte le catene si sarebbero sciolte come d’incanto, scoperchiando davanti ai miei occhi il mare aperto della totale autonomia del corpo e dello spirito. Ah, ah, ah… patetica ingenuità.

Come aveva lasciato scritto il misconosciuto compositore e pianista Erik Satie, in realtà, “Mi dicevano vedrai quando sarai grande! Beh, sono diventato grande e non ho visto niente”…

Proprio niente, no, per essere precisi. Qualcosa avevo visto in quei vent’anni di lavoro in un ente pubblico e non mi era piaciuto per niente. Larve umane che si trascinavano stancamente, tirapiedi, ruffiani pronti a tutto pur di strappare una promozione. Incompetenti, falliti, maniaci, depressi che vagavano per uffici che sembravano camere di ospedali psichiatrici con gli infermieri a distribuire pilloline colorate sulle scrivanie.

Adesso, l’imminente fine era stata una manna dal cielo. La pietra tombale (in tutti i sensi!) di questa vita fatta di spiccioli, di cose piccole e meschine, quando aspiravo (aspiravamo, io e Giulia) a qualcosa di più grande e indescrivibile a parole.

La socialità, un’idea astratta di cui era diventato retorico persino parlare!

Ormai insensibili alla morte degli altri, soffrivamo soltanto all’idea di perdere le poche persone care che vivevano con noi o, al limite, che avevamo conosciuto. Tutti quei morti riversati dagli schermi delle TV al plasma nei salotti di casa, che effetto pensate avrebbero potuto avere?

Preoccupati per il mal di schiena di nostra moglie, eravamo ormai anestetizzati alle migliaia di morti di bambini naufraghi, agli omicidi, ai femminicidi, alle sparizioni (traffico d’organi? Rapimenti? Prelevamenti alieni? Vendette di mafia?), agli attentati terroristici, al dilagare delle malattie e dei tumori…

Sapevo di due famiglie che non uscivano più di casa da almeno un mese. Nessuno li aveva più visti in giro per il quartiere. Si diceva avessero scorte accatastate in una stanza.

Qualcuno del Comune era andato a verificare la situazione. Uscendo, un’assistente sociale aveva rassicurato i vicini. Sono tutti vivi, stanno abbastanza bene. Ma che importava, dopo tutto?

Dal nostro balcone, nelle ultime settimane, l’orizzonte era cambiato decisamente. Tipico quartiere di periferia poco illuminato, si erano aperti squarci improvvisi di cielo completamente vuoto e infinito. L’occhio ci si perdeva dentro, si restava come rapiti dalla fissità dello scenario, come un fondale di teatro monocromatico, immobile, senza alcun accenno vitale, che non lasciava presagire proprio a nulla di buono. Sembrava sul punto di inghiottire tutto.

“La gardenia”, mi incalzava Giulia guardandomi negli occhi. “Dai, la gardenia…”

“Era il fiore preferito di Billie Holiday”, ripetevo per irritarla. “E poi?”, insisteva lei.

“E’ vertigine, turbinio, rapimento, una galassia molto liquida in cui soffocare...”.

“Usi elementi astratti, cristo! Lo sai che mi piacerebbe qualcosa di più concreto”.

Di concreto la gardenia non ha che il fusto, il resto è solo debolezza. Difficile da far fiorire, quasi impossibile da curare e far crescere sana. Una pianta d’appartamento pretenziosa, una donna che sa di essere bella e pretende che il mondo lo riconosca e intanto avvizzisce.

Eravamo impegnati nel solito gioco verbale che preludeva a finire nudi a letto, quando bussarono alla porta. Era Diego, pensai. Chi altro?

Dallo spioncino un uomo coi baffi teneva una cartella sottobraccio. Era affiancato da una donna più giovane, sulla trentina. Cazzo, testimoni di Geova!, sussurrai.

Quelli insistettero, Giulia aprì per sfida e per gioco nei miei confronti.

Ci ritrovammo così seduti in salotto, qualche bicchiere e una bottiglia d’acqua sul tavolo. Loro si alternavano mostrandoci sbracciando piccole pubblicazioni, dispense dalle grafiche kitsch, con ingrandimenti colorati delle parole di Geova.

Era l’Armageddon la loro ossessione, e la loro malcelata consolazione, ma la Storia gli stava sfilando da sotto gli occhi il copyright.

Non resta molto da fare, dissero. Solo pregare… voi lo state facendo? Chi prega, rosario in mano, si salverà.

“E gli altri?” chiesi con una curiosità costruita che tentava di non sembrare troppo ironica.

“Gli altri moriranno tra innumerevoli sofferenze”, rispose l’uomo coi baffi. Nel silenzio sepolcrale che ne seguì, mi alzai e misi sul piatto dello stereo “Deja Vu” di C.S.N. &Y. che era appoggiato da qualche giorno sul tavolo e non sembrava la scelta peggiore in quel momento.

Lato uno, terzo pezzo: “Almost cut my hair”, Crosby che urla incazzato e strazia l’elettrica. A tutti sembrò bloccarsi il respiro per qualche minuto.

Quasi quasi mi taglio i capelli, esclamai, sperando cogliessero la citazione. Mi spiace, signori, ma io non mi arruolo nel vostro esercito di disperati.

Ma i due non avevano idea di chi fosse Crosby e Deja Vu, probabilmente non sapevano una parola di inglese, e sembravano persino infastiditi dal volume dello stereo. D’altronde, la loro rock star da mandare sul palco era Geova, l’ultimo spettacolo quello della fine dei tempi. Avevano evidentemente già comprato i biglietti...

E non capisco perché vi abbiamo fatti entrare e stiamo perdendo tempo con voi se come dite c’è rimasto poco da vivere, aggiunsi.

Non mi volevo redimere. Nessun ravvedimento dell’ultimo secondo, nessuna ipocrita conversione. Volevo morire, eventualmente, da peccatore coerente e non mi capacitavo che alcuni grandi pensatori atei avessero potuto convertirsi all’ultimo momento accettando di essere confessati da un prete dopo una vita a sfidare l’assurdità delle religioni.

Andatevene!, vi abbiamo dedicato fin troppo tempo, urlai teatralmente. Giulia implorava con gli occhi che mi calmassi, ma li avevo come già spinti fuori dalla porta, sul pianerottolo, richiudendo in fretta la porta blindata per tornare alla musica del nostro appartamento.

Appena sulla strada i promoter dell’Armageddon vennero impallinati come fagiani da due colpi di fucile precisi, alla testa, provenienti da un balcone del condominio di fronte al nostro. Osservai tutto da una finestra non visto e pensai soltanto: se la sono voluta. La loro fine dei tempi è arrivata prima del previsto.

I foglietti di Geova che svolazzavano ovunque nel crepuscolo di quel pomeriggio. I due corpi non morirono subito, comunque. Rantolarono per un po’, nessuno osò uscire a vedere, tanto meno a soccorrerli.

Il giorno dopo erano ancora lì, rigidi, il mondo noiosamente al suo posto in attesa della fine.

 

Qualcuno da qualche parte.

 

Mi aveva detto di aspettarla per le cinque ed ero lì già da qualche minuto perché ero solito arrivare con un certo anticipo. Il bar era poco frequentato a quell'ora, qualche cliente abituale appoggiato al banco che bisbigliava al barista, un paio di coppie ai tavolini. Mi sembrava bevessero del tè.

Giocherellavo con la lista delle bevande, girando e rigirando le pagine con noncuranza, senza leggere, così, per prendere tempo.

Dal mio punto di vista, osservando attraverso la vetrina del locale, la città arrancava nell'aria nebbiosa. Un'umidità che impregnava i vestiti mi aveva accompagnato, da casa, sin lì. C'era un musicista all'angolo che suonava il violino, o almeno cercava di strappare dallo strumento delle note. Nessuno, passando, lo degnava di uno sguardo. Non uno che si fosse fermato da quando ero seduto nel bar.

Marta si faceva aspettare, come al solito. Per certi versi non è che fossi così impaziente di incontrarla. Mi avrebbe aggiornato sulla sfida quotidiana con sua madre ormai novantenne, raccontato delle innumerevoli sbadataggini della donna delle pulizie, del vicino di casa scapolo che non si faceva mai gli affari suoi. Di questa città sempre più faticosa da percorrere, inospitale, maledetta tomba in cui eravamo tutti morti da vivi: avrebbe ripetuto che le strade erano dissestate, i marciapiedi tragicamente sconnessi, le piste ciclabili un'ingenua illusione per ambientalisti...

Nell'attesa distratta, non avvertivo alcuna particolare energia tra quei tavoli, niente che valesse la mia attenzione. I pochi che si erano rintanati lì sembravano perdere tempo, aspettare che accadesse qualcosa. Non accadeva nulla, comunque.

La televisione sullo sfondo riempiva il silenzio crepuscolare col suo gracchiare indistinto e inutile. Di tanto in tanto un rumore di bicchieri riposti nel lavandino ricordava a tutti che eravamo in un locale pubblico. Non in una chiesa, o nel tinello di una casa di campagna sperduta nei campi.

Marta non arrivava, come al solito. Come quasi sempre.

Feci per alzarmi e andare al banco a pagare la birra che avevo bevuto quando, con un guizzo improvviso, un cane irruppe nel locale.

Si mise ad abbaiare verso il banco, poi si girò e attaccò a guaire verso i tavolini. Nessuno lo degnò di uno sguardo. Il cane si placò.

Nel mentre Marta arrivò trafelata, con la borsetta a tracolla e i capelli sciolti, scompigliati dalla corsa. Aveva appoggiato la mountain-bike appena fuori, contro un muro, per la fretta non l'aveva legata, e non la perdeva di vista con lo sguardo mentre mi salutava.

Ci mettemmo a sedere, lei con gli occhi fissi sulla bicicletta che si intravvedeva dalla vetrina. E' l'unica che mi è rimasta, disse, se mi fregano anche questa sono rovinata... Come ci vado al lavoro, dopo?

Allungò una mano, la destra, e prese delicatamente la mia sinistra. La sfiorò sul dorso e guardandomi con un'intensità commovente, sospirò. Un sospiro lieve, quasi impercettibile, che alludeva alle tante occasioni mancate, agli attimi perduti, alle esperienze che avremmo potuto, dovuto vivere, e che invece si erano spente col tempo nello struggente dissolvimento delle occasioni.

Scusami, disse, sai come sono fatta. Sempre di corsa, una vita da pazzi. Mai un minuto per me...

Sapevo bene com'era fatta, per questo tra noi non aveva mai funzionato veramente. Io troppo lento, riflessivo, indolente; lei tutta nervi, ipertesa, scattante. Mille progetti, idee tante, troppe; alla fine dei conti, poche quelle realizzate.
Le mie, al contrario, poche idee confuse, niente o quasi portato a termine.

La guardavo dritto negli occhi mentre mi accarezzava la mano.

Il cane di piccola taglia, dopo essersi aggirato curioso tra i tavolini, adesso era accucciato in un angolo nell'atroce immobilità del locale.

Era sfiorita come un frutto dimenticato su un ramo, Marta. Non avevamo colto i suoi anni migliori, sembrava dirmi con l'espressione del viso, quella sua fresca contagiosa solarità, l'irrefrenabile voglia di vivere che si ha intorno ai vent'anni.

Sei sempre così bello, mi disse, nonostante il tempo che passa. Davvero, non invecchi mai, replicò alla mia espressione di imbarazzato scetticismo.

Sei gentile, perché sai bene che non è così...

Hai saputo che Catia alla fine si è sposata?

Non lo sapevo, non potevo saperlo. Non la vedevo da anni, dai tempi del partito.

Si è sposata con Fede, dopo tanti tira e molla... Lo dicevano tutti che erano fatti l'uno per l'altro.

Tolsi la mano dalla sua presa che era diventata più tenace e serrata per accendermi una sigaretta.

C'è poco da fare, commentai, prima o poi tutti si sistemano. Rimarremo gli unici cani randagi, senza padrone... vecchi cani che si aggirano in cerca di ossa e spazzatura...

Dai, non dire così. Sono io quella che rimarrà zitella. Eppoi, ormai, non se ne vedono più di cani randagi in giro...

E quello là?, dissi indicandole il bastardino accucciato.

Deve essere per forza di qualcuno, non vedi che ha il collare con la piastrina? Tutti sono di qualcuno, ma noi non l'abbiamo ancora trovato...

Si può continuare a vivere per anni con l'idea che quello che ci si augurava prima o poi si avvererà, anche quando non lo si desidera più veramente, pensai.

E' l'idea di dover essere risarciti per tanta abnegazione, per la volontà inflessibile, l'impegno profuso nell'attesa. Il destino ce lo deve, non può essere altrimenti!

Beh, ti auguro di trovarlo quel qualcuno, dissi dopo una pausa che doveva esserci sembrata interminabile. Per quanto mi riguarda non mi interessa più, ci ho rinunciato da tempo. Nessun rimpianto, nessun desiderio residuo. Niente.

Il cane ballonzolò sulla strada, approfittando dell'uscita di una donna. L'oscurità avanzava decisa, dovevamo andare prima dell'inizio del maledetto coprifuoco delle nove.

Guarda che anche tu, che lo voglia o no, hai un qualcuno che ti aspetta da qualche parte, disse Marta.

Ti telefono presto, risposi mentre mi alzavo dalla sedia. Ed ero già per la strada, il passo veloce che mi riportava al sicuro, a casa.

(20-25 giugno 2015)

 

Lui suonava, lei ballava.

È sceso in cantina anche stasera, come di nascosto. Ha aperto la porta di ferro, cercando di non fare rumore. Il lucchetto è scattato, l’ha tolto e ha fatto scorrere il chiavistello. È entrato. Poi si è accesa la luce.
Lo sento sempre rovistare, da dentro. Di solito sposta la sedia, ci sale sopra e toglie come delle scatole per prendere lo strumento. Si capisce quando l’ha preso perché scende dalla sedia e ci si siede sopra.
A quel punto attacca a suonare.
Più che altro soffia, all’inizio. Sembra proprio un principiante che sta provando a far uscire dei suoni e si stupisce di quello che ne esce. Fa come delle scale, almeno a me sembra così.
Non è che me ne intenda, io. Sono solo un ragazzino. La musica che ascolto è quella dei dischi che ogni tanto fa suonare papà nel salotto. Però so riconoscere che il signor Antonio non suona male, quando ci si mette. Potrebbe essere jazz.
La mamma mi ha raccontato che sua moglie, tanti anni fa, faceva la ballerina. Loro si sono conosciuti così. Lui suonava, lei ballava. Si sono sposati e sono venuti ad abitare qui.
All’inizio le cose andavano bene. Si capiva dalla macchina che si sono comprati, diceva mio papà: era una Lancia Fulvia. Io non so com’è fatta, non l’ho mai vista neanche alla televisione, ma la mamma ha detto che a quel tempo era un’auto sportiva, che guidavano solo i ricchi.
Il signor Antonio era sempre vestito bene, portava addirittura un cappello.
Dopo un po’ che si erano sposati, sua moglie ha smesso di ballare, lui non voleva. Stava sempre chiusa in casa a fare i mestieri. Usciva solo per fare la spesa.
A un certo punto, però, è successo qualcosa. Mio padre non ha mai voluto spiegarmi che cosa, però.
Il signor Antonio ha smesso di suonare, non lavorava più. Se ne stava a letto tutto il giorno. Non si alzava, non si lavava, non si vestiva. L’unica cosa che faceva era guardare la televisione.
Un giorno sua moglie non è più tornata a casa. Era uscita per fare la spesa, aveva detto. Non l’hanno più vista. Sparita per sempre.
Lui ha dovuto vendere la Lancia Fulvia. È andato a lavorare alle Ferrovie.
Quando suona si sente che una volta era davvero bravo.

 

Tanti saluti e baci.

Prendi quella cazzo di borsa e sparisci, le disse.
Facile impugnare una borsa e volatilizzarsi. Una borsa con alcuni vestiti dentro, lo specchio, lo spazzolino, le ciabatte. Una borsa bianca, un po’ sporca. Poche cose per sintetizzare una vita a due scaduta, andata a male.
Afferrare l’impugnatura con la mano destra e magari dire: beh, allora vado. Così, lasciando un atto definitivo in sospeso, quando sarebbero altre le parole non dette da dire.
A quel punto, infierendo, lui ribadì che non avrebbe più dovuto farsi vedere,
per sempre disse proprio, come fosse possibile di lì a un attimo finire inghiottiti da una nebbia fitta, semplicemente non esistere più.
Ci proverò, rispose con un filo di voce, senza aggiungere altro, tutti i pensieri, piccoli drammi interiori che si erano macerati in quegli anni, lentamente, inesorabili. Gocce d’acido che cadendo precise avevano annichilito ogni sentimento, corroso l’entusiasmo che c’era stato.
Esitò per un attimo con la mano sulla borsa, dando un rapido sguardo alla casa e alle cose che si sarebbe lasciata dietro.
All’asse da stirare su cui aveva passato ore in compagnia della maledetta TV con il tepore delle pentole sulla stufa, in cucina, nell’attesa che lui tornasse dal lavoro, con l’indifferenza greve, i sensi di colpa reciproci, le acrimonie di un’esistenza diventata troppo in fretta un motore ingrippato. L’appartamento improvvisamente troppo piccolo, l’aria irrespirabile, duri i silenzi.
Se fossimo soltanto anima, trovò la forza di dire lei ormai sulla porta, la conversazione sarebbe stata più facile.
Dalla radio, accesa in cucina, fino a quel punto sottofondo indistinto, puro fastidio, si levò improvvisamente la melodia di una vecchia canzone di Lucio Dalla che intonava:

Dice che era un bell’uomo
e veniva, veniva dal mare
parlava un’altra lingua…
però sapeva amare”

Gli occhi si cercarono, si trovarono. Un lieve sorriso d’intesa attraversò i due volti.
Subito tornò il risentimento muto e la porta si richiuse dietro Ros.

 

Augurarsi di essere dimenticati presto.

Gliel’avevo già regolato almeno tre volte, quel dannato pinguino. Faceva caldo, è vero, e l’aria era come immobile, di cemento, si faticava quasi a respirare.
Mi chiamò per ripetermi con le stesse parole del giorno prima che quel coso non si accendeva più, non funzionava proprio. Dovevo andare a vedere a tutti i costi altrimenti c’avrebbe lasciato le penne. Erano parole sue, quelle, parole con cui da anni farciva la mia vita. Come quella volta da adolescente che scusandomi per qualcosa che avevo combinato avevo detto: “Dovresti mettermi nei miei panni” e lui aveva risposto con rabbia laconica, freddo: “Io nei tuoi panni ci cago dentro”.
Era fatto così e l’avrei ucciso mille volte, in passato, ma adesso le cose erano cambiate.
Quasi non me ne ero accorto, era venuto da sé, e avevo capito senza rifletterci troppo sopra che in fin dei conti era meglio ascoltare più che parlare. Ascoltare le sue ovvietà e lasciar perdere gli accessi, le gratuite plateali asperità, concentrandomi sugli indizi minimi di inconsapevole autenticità.
Adesso era in voga il pinguino, da quando nelle ultime estati aveva cominciato anche qui in pianura a fare un caldo soffocante.
Entrai dalla porta che stava imprecando contro la macchina, chinato in ginocchio, sotto un foglio di giornale per non sporcare i pantaloni. “Vaffanculo, bastardo”. Parti, figlio di puttana. Erano più o meno le stesse cose che andava dicendo da sempre. Solo che adesso le rivolgeva più che altro alle cose inanimate.
“Ciao”, dissi. “Ciao”, rispose. Questa cazzona non vuole partire. E’ da ieri che ci metto le mani ma non ne vuole sapere.
Mi chinai al suo fianco, perlustrai con gli occhi la macchina. Guardai dietro, il tasto di accensione generale era spento.
Bastò accenderlo, com’è ovvio, e il pinguino partì.
Mi guardò con espressione stupefatta, come fossi un mistico accovacciato in preghiera. La stessa faccia che mi porgeva ogni volta che risolvevo i suoi banali problemi con il telecomando o la segreteria telefonica.
Si buttò sul divano. Strinse in una mano il quotidiano locale.
“Ieri se n’è andato un altro”, mi disse, l’inflessione distratta della voce. “Cosa?”.
“E’ morto Gianni… Stava qui dietro, ti ricordi?”.
Mi ricordavo, certo. Era uno dei suoi pochi amici rimasti.
“Un infarto. 75 anni… uno che ha sempre lavorato… Viveva solo da anni, proprio come me…”
Non si sa cosa rispondere a cose così. Almeno a me, di solito, non viene da dire niente. Nessuna considerazione sulla morte, nessuna particolare riflessione sul senso di tutto questo faticare, soffrire, arrabattarsi per poi finire così, all’improvviso a marcire sottoterra. O cremati, polvere in un’urna o nell’aria…
Ci pensò lui: “Bisognerebbe sparire, da un momento all’altro. Non salutare nessuno. Lasciare cose incomplete, frasi a metà, piccoli futili enigmi. E augurarsi di essere dimenticati presto. Tutto qui”.
Lo guardai. Non mi aspettavo un’ammissione del genere, non era da lui.
“Vabbè che sei sempre stato un comunista ateo… Ma mi sarei aspettato che almeno invecchiando avresti preso in considerazione la possibilità che possa esistere da qualche parte un aldilà… Non dico un dio, ma che morendo si possa finire da qualche parte…”.
Guardò verso un punto indistinto, in direzione dei quadri appesi alla parete.
“Se esistesse un qualche posto, da qualche parte, tutti quei morti si darebbero da fare per farcelo sapere, no?…”, replicò.
Evidentemente, pensai, la risposta fulminea lasciava intuire che anche un ateo dichiarato come lui avesse già riflettuto sulla questione.
“… tutte quelle cazzate della chiesa sull’anima, il papa che quando parla in TV sembra un comico degli anni Cinquanta… i preti pedofili, l’otto per mille e i tesori del Vaticano … come si fa a credere che ci sia qualcosa di vero sull’anima? Se però ci tieni davvero ti prometto che quando arriverò di là mi farò sentire…”.
Suonò il cellulare di servizio. Un’emergenza. Dovevo tornare al lavoro.
Lo salutai che era ancora adagiato sul divano, l’espressione immersa in quell’ordine di questioni trascendentali.
“Ci tengo”, dissi. “Se ti farai sentire troverò il modo di tenerti aggiornato sulla politica e la Juventus…”.
Fuori la sera si avvicinava a balzi. Avevo ancora almeno un’ora di lavoro, prima di tornare a casa. L’afa opprimente, il mondo immobile. La gente che rientrava per prepararsi alla cena.

 

Tocca sempre a  Elmo consolare la Tina.

I cani e i gatti di Tina stanno nell’aia e si rincorrono di continuo durante il giorno. A volte si acquietano, si sdraiano sul fianco. Si annusano.
Intanto i trattori e i carri vanno e vengono, attraversando l’aia immensa.
E’ un sabato mattina, non succede niente.
Piccioni che zampettano, beccando qua e là. Una cornacchia vola alta, gracchiante.
Un battere continuo in lontananza segna il tempo che scorre lento.
D’un tratto, mentre la mattina si trascina pigramente verso il pomeriggio, una Panda entra veloce in cascina, avvicinandosi all’ingresso della casa padronale.
I gatti si allontanano rapidi, sono pratici quando si tratta di sparire nel nulla. I cani si fanno intorno festosi, le code che scodinzolano.
Scendono dall’auto Marco, Anto e Pezza un po’ barcollanti, Marco tiene una lattina di birra in mano ancora da aprire.
Anto, capelli col gel che cola sulla fronte, tenta di prendere a calci lo spinone, non ci riesce. Impreca: “’fanculo, bastardo!”. Gli altri due ridacchiamo che sembrano gazze.
Entrano dal portone come una cosa sola, dietro i cani. I gatti, intanto, si avvicinano circospetti alla Panda.
Silenzio. Poi un trambusto. Quindi urla.
E’ la Tina: “Lascia stare la borsetta. Molla quel borsello! Siete solo dei drogati di merda!”
Ancora ridacchiare. Bestemmie. Lancio di oggetti. Un trascinare di sedie.
“Elmo! Elmo!” – è la Tina che chiama. Quando mi sono stancato di sentire quel casino, appoggio la vanga al muro ed entro in casa.
Loro mi sentono arrivare e scappano fuori buttando per terra il borsello della Tina. Saltano sulla Panda e spariscono alzando tanta polvere. Dietro i cani che rincorrono e abbaiano.
Poi, tocca sempre a me consolare la Tina.

 

Canguri.

Ogni volta che bestemmiava, prendendosela con dio e i santi, più raramente con la madonna, provavo un profondo fastidio. Non che fossi credente, tanto meno un moralista. Anch’io, come lui, ero convinto di essere ateo, ma queste esibizioni di bicipiti verbali non le sopportavo. Anche perché, lo sapevamo bene, io e lui, non era stata tanto una questione di destino crudele ad averlo ridotto così, quanto responsabilità sua, solo sua.
Trascinava la gamba a fatica, con rabbia, e stizzito imprecava. Da tempo era limitato nei movimenti, confinato nel soggiorno di casa. La pubalgia era solo un accidente recente.
Noi figli in ostaggio delle sue continue, infantili richieste. Manca il formaggio, prendimi l’acqua. Abbassa il riscaldamento. Alza il riscaldamento. Devi dare da mangiare al gatto…
Erano quei “devi” a irritarmi più di tutto.
Perché quando stava bene, o credeva di esserlo, lasciava passare settimane senza chiamarti, anche solo per un semplice, banale “come stai?”.
Per lui, era ormai evidente, dovevamo essere noi a telefonargli. Era nostro padre e tanto bastava.
Adesso che aveva bisogno di noi, però, dovevamo essere solleciti, pazienti e sensibili. Sempre disponibili come quando si ha l’avventura di diventare padri o madri e una parte della mente, anche senza volerlo, è occupata dal pensiero dei figli.
Trascinava la gamba a fatica, insomma, quel giorno, e bestemmiava. Incattivito, i movimenti erano scatti rabbiosi, addirittura incontrollati. Con un movimento improvviso aveva fatto cadere un bicchiere, andato in pezzi. Il pavimento appiccicato di aranciata, i vetri dovunque. Nuove bestemmie.
Portami a sedere, ordinò. Esitai, c’erano pezzi di vetro per terra e il pavimento bagnato.
Aspetta un momento, risposi.
Insistette: fammi sedere.
Lo guardai per un attimo, il tempo come rappreso in un grumo di risentimento.
Fu allora che mi uscì un seccato: “Ma sei mai stato felice, tu?”.
Si bloccò in un’espressione corrugata, esitò, si fece scuro in volto.
“No. Non credo… Comunque non sono domande da fare. Portami a sedere sul divano”.
La TV in sottofondo gracchiava un attraente documentario di National Geographic. Stavolta erano i canguri dell’Australia a rischiare l’estinzione.
Raccolsi i vetri da terra buttandoli nella pattumiera. Asciugai il pavimento alla bell’e meglio. Quindi lo riaccompagnai al divano.
“Certo che i canguri sono proprio animali strani”, esclamò guardandomi dritto negli occhi.
Loro saltano, noi camminiamo. Tengono i cuccioli nel marsupio, ma non sono più strani degli esseri umani, se ci pensi – risposi.
“Non sai cosa darei per saltare ancora”, disse. “Sono trent’anni che non salto. Sono diventato inutile. Che vita è questa?”.
Fissavamo lo schermo del televisore. Una panoramica riprendeva quattro canguri in corsa, veloci e liberi nel deserto.
“Se almeno ci fosse ancora qui tua madre…”.

(gennaio 2011)

 

Una canzone triste con un brutto finale.

Sento dei rumori che vengono da là. Chi c’è di là?
Tutti i giorni la stessa storia. Sente dei rumori, lui. Mi assilla con questa storia del rumore.
Devo far finta di andare nell’altra stanza, la camera da letto di Gianni, e confermare che di là non c’è nessuno, quei rumori sono solo nella sua testa, è la malattia.
Se mai diventassi come lui, gli dico quasi tutti i giorni, mi auguro che mi facciano un bel funerale di povertà e morta lì.
Li ho sentiti… adesso!, ripete. Ti dico che c’è qualcuno di là, insiste. Vai a vedere ancora. Smettila, testa di cazzo, gli rispondo. Mi hai rotto le palle. Taci, guarda quello schifo di telenovela e piantala.

Vado sul balconcino e guardo fuori. Davanti, un muro di cemento grigio, il retro del condominio che hanno costruito negli anni Cinquanta, quando siamo venuti ad abitare qui. Il grigio non è più quel grigio che era, è chiazzato di muffa nera sui lati ed è attraversato da una profonda crepa longitudinale. Qualche mattina lo troviamo giù. Sicuro.
Acqua!, grida. Gli porto il bicchiere pieno, che l’acqua quasi trabocca. Lo afferra con la mano destra, l’unica che gli funziona ancora e trangugia quasi soffocandosi. Si sbava sulle labbra, sembra un vitello con il muso bagnato dal latte delle mammelle della vacca.
Lo asciugo con un gesto secco, insofferente. Tento di fargli del male, almeno di dargli fastidio. Non mi riesce. Alza gli occhi, l’espressione è quella di chi sa che la vittima sono io, non lui. Inchiodata anch’io a questa sua carrozzina che ha una ruota coi raggi rotti, deformata e si fa fatica a spingere avanti.

Torno sul balcone. Giocherello con la terra nel vaso dei gerani rossi. Sono gerani vecchi, avranno sì e no due anni. Il fusto è un mozzicone rugoso, come un tubero. Il miracolo è che butta fiori meravigliosi, rosso antico. Basta ricordarsi di annaffiarli.
Ciao, mi grida dal balcone giù in fondo un bambino. Avrà  occhio e croce sei anni, ha la faccia furba, i capelli in piedi. È nato qui, ma non ho mai saputo come si chiama. Di tanto in tanto lancia giù dei pezzi color arancione, sembrano sigari di carota. Li porta alla bocca, li sbocconcella e li butta da basso, a caso, senza mirare.
Ciao, gli rispondo. Vuole solo farsi vedere. Fa del teatro.
Cosa fai?, gli urlo. Niente, risponde. La conversazione è già bell’e finita lì.

Da dentro, le vite della telenovela si ingarbugliano in matasse. Un lui ha appena lasciato una lei. Lei minaccia di uccidersi, lui non le crede e la prende sul ridere. Lei se ne va via sbattendo la porta. Pubblicità.
Acqua!, grida. Torno in cucina, gli riempio il bicchiere dalla bottiglia del frigo, glielo porto.
Toh, prendi. Però ne bevi di acqua…
E Gianni, dov’è Gianni? È di là, Gianni?
Non gli rispondo. Tanto è inutile. Gianni non c’è più, andato per sempre. È l’unico a cercarlo ancora.
Ci sono volte che mi tocca spingerlo di là, fargli vedere la stanza.
Non è ancora tornato, Gianni?
No, non è ancora tornato, mi tocca rispondergli.
Con l’unica mano che gli funziona vuole toccare il cuscino e il bicchiere sul comodino.
Lo lavo tutti i giorni, lo rimetto lì a prendere polvere. Lo sposto, per fargli credere che venga usato. Gli lascio dell’acqua dentro, come se fosse stata avanzata. A volte un libro aperto, appoggiato sulla libreria. A volte dei vestiti piegati.
Mi sono detta che è un di più. Mi sono complicata la vita con questi sotterfugi.
Ma intanto il tempo passa, lento. Ha un andamento irreversibile.
Una canzone triste che mentre la ascolti capisci che avrà un brutto finale.

(30 maggio 2008)

 

Ripartire

Avanzava con decisione lambendo il ciglio della strada. Una strada di campagna, di quelle che sembrano non portare in qualche posto preciso ma che si perdono tra i campi, inghiottite dalla natura.
Camminava seguita da un’auto che, proprio dietro di lei, era come le sfiorasse i calcagni, come potesse investirla da un momento all’altro.
La donna si sbracciava e urlava concitata alzando lievemente la testa rivolta in un punto indistinto. Ce l’aveva con qualcuno, sembrava fuori di sé, gli occhi gonfi e fissi, il viso deformato in un ghigno.
Dietro, da dentro l’auto, una Seicento Fiat, un uomo anziano più o meno come lei, la testa protesa dal finestrino, cercava di calmarla. Di tanto in tanto, per attirare la sua attenzione, suonava il clacson facendola sobbalzare in un fremito. Erano nuove imprecazioni, altri gestacci. Ce l’aveva con lui, a quel punto mi risultò evidente.
Intorno, qualche rara auto li sfiorava, superandoli. Un uomo in Ape Car si era messo in coda al corteo. Non si era reso conto che era una donna a piedi a determinare l’andatura.
“Sei uno stronzo”, urlava adesso. “Lo dicevo che eri un bastardo.” “Dovevo capirlo subito che eri fatto così male”. “Stronzo! Stronzo! Sei proprio un pezzo di merda. Ti odio!”.
Andarono avanti così per almeno un paio di chilometri. Lei a imprecare, lui a gesticolare dall’abitacolo suonando il clacson di tanto in tanto. Poi, d’improvviso, l’anziana si fermò, esausta, che quasi lui la investì. Anche l’Ape Car, dietro, dovette frenare prontamente per non tamponare la Seicento.
L’uomo smise di gesticolare e scese dall’auto. Disse: “Allora, hai finito con questa storia?”
Lei, alzata la testa, dolente, lo guardò: “Sì. Tanto non cambia niente, no?”
Lui abbozzò un abbraccio, lei si avvicinò lasciandosi abbracciare senza alcuna resistenza. Restarono così quasi un minuto, stretti uno all’altra, poi sciolsero l’abbraccio.
L’uomo accompagnò la donna alla Seicento, aprendo la portiera e aiutandola a salire.
A quel punto l’auto ripartì. Anche l’Ape Car ripartì.