Boulevard Syd Barrett: articoli, materiali, saggi per una lettura critica del genio.
Mick Rock e Syd Barrett, “rinnegati psichedelici” di un paesaggio profondo.
“We were psychedelic renegades exploring an inner landscape where everything was turned upside down. We had penetrated the looking glass and were living in a parallel dimension where everyone was beautiful and spiritually free”.
(Mick Rock, 2002)
La recente ‘kermesse’ di “The City Wakes” ha riportato alla ribalta anche MICK ROCK, pluridecorato fotografo rock famoso per aver ritratto oltre a Barrett, tra gli altri, anche David Bowie e Lou Reed.
Rock è stato l’ultimo a intervistare Syd Barrett nell’autunno del 1971 e, inevitabilmente, il destino biografico del chitarrista è stato segnato anche dai rapporti con il fotografo, le cui raccolte fotografiche sono considerate a ragione un documento imprescindibile per ogni ricostruzione biografica della vicenda umana e artistica del chitarrista di Cambridge.
LE RACCOLTE FOTOGRAFICHE DI MICK ROCK.
Delle foto scattate a Syd Barrett, come si sa, Rock ha realizzato ben tre diverse edizioni:
la prima, intitolata “SYD BARRETT. THE MADCAP LAUGHS” venne edita dalla UFO Books di Londra nel novembre 1992 in formato 30cm.x30cm., su carta patinata, prezzo £ 16.
Le 48 pagine, accompagnate da un estratto a firma Pete Anderson dalla biografia “Crazy Diamond” (nota 1) che ne descriveva il contesto, riproducevano alcune delle fotografie scattate da Rock nell’appartamento di Earl’s Court Square in preparazione della copertina di “The Madcap Laughs”: delle 37 foto pubblicate, 27 erano a colori e in bianco e nero e risalivano alle sedute da cui sarebbe stata tratta la cover per il disco (nota 2); 11, in bianco e nero, erano frutto di una seduta successiva – il rullino era stato dimenticato per vent’anni in un cassetto, mai sviluppato (nota 3).
Di questa edizione vennero distribuite due versioni, una in tiratura limitata con allegata una maglietta a colori riproducente quella che Syd portava durante una delle ‘sessions’ (che si era fatto da solo con la tecnica del batik).
La seconda edizione, intitolata “PSYCHEDELIC RENEGADES. PHOTOS OF SYD BARRETT BY MICK ROCK”, è stata pubblicata nel gennaio 2002 dalla Genesis Publications di Guilford (Inghilterra) in edizione a tiratura limitata di 950 copie autografate dall’autore. Di queste, 320 sono state realizzate in edizione deluxe e autografate anche dallo stesso Barrett. Mentre l’edizione deluxe, venduta a £ 495, è andata esaurita in breve ed è diventata una vera rarità collezionistica (nota 4), quella ‘regolare’ è tuttora in catalogo al prezzo di £ 285.
Il volume di 160 pagine, contenuto in un cofanetto che riproduce una foto trattata di Syd e Iggy (la ragazza che viveva con Syd in quei giorni) raccoglie tutte le 120 fotografie scattate da Rock a Barrett (nota 5).
La terza ed ultima, pubblicata dalla Plexus di Londra nell’ottobre 2007, è un’edizione economica (prezzo al pubblico £ 19.99) della precedente. Consiste di 142 pagine rilegate in brossura con copertina cartonata e sovracopertina a colori. Il libro presenta 109 fotografie di cui:
39 scattate nell’appartamento di Barrett in preparazione della cover di “The Madcap Laughs” (vedi nota 2);
32 scattate sulla strada nei pressi dell’appartamento di Earl’s Court (una di queste diventerà il retrocopertina di “Barrett”, disco del 1970), il giorno stesso o il giorno dopo delle precedenti;
34 tratte dalla seduta dell’intervista nel giardino di Hill’s Road nell’autunno 1971 (nota 6);
4 foto già edite trattate artisticamente da Rock.
Diversamente dalla prima, frettolosa incompleta edizione del 1993, “Psychedelic Renegades” si impone come la raccolta definitiva delle foto scattate da Rock a Barrett tra l’autunno 1969 e l’autunno 1971 (nota 7): gli scatti sono accompagnati da un testo scritto da Rock e dall’intervista integrale del 1971 (non quella ridotta che venne pubblicata da “ROLLING STONES” il 23 dicembre 1971 e che è circolata negli anni) (nota 8).
IL TESTO DI “PSYCHEDELIC RENEGADES”.
“Psychedelic Renegades” è un’opera importante, di indubbio fascino, sia per la particolarità di alcune foto (in particolare la sequenza scattata in strada con la Pontiac Convertible) che per la ricostruzione storiografica che ne inquadra gli avvenimenti collegati.
Nel testo, però, come già ci parve di cogliere in alcune dichiarazioni rilasciate nel 2006 in occasione della morte di Barrett (nota 9), Mick Rock da come l’impressione di volersi accreditare quale unico amico intimo di Barrett benché le evidenze suggeriscano il contrario. Scrive nell’incipit della presentazione del volume: “Syd Barrett era mio amico. Quando l’anno scorso è morto non lo vedevo da 33 anni, ma nella mia mente lui è rimasto sempre mio amico. Ha dimostrato di esserlo ancora quando ha firmato con me 320 copie dell’edizione originale di “Psychedelic Renegades”... (...) È stato l’unico gesto pubblico dall’intervista che nel 1971 gli feci per la rivista “Rolling Stones”” (“Psychedelic Renedages”, Plexus London 2007, pag. 10).
I fatti (la firma delle 320 copie, primo gesto pubblico dal 1971), ovviamente, danno ragione a Rock, anche se è lecito dubitare della reale ’partecipazione’ emotiva di Barrett all’operazione, da anni disinteressato a tutto quanto riguardasse il suo passato di musicista. “Naturalmente”, precisa Rock, “si firmò semplicemente ’Barrett’. ‘Syd’ era una persona che si era scrollato di dosso dagli inizi degli anni Settanta. Ma le firmò. E facendo così diede il suo benestare al libro e alle immagini che contiene, tra cui le foto che gli feci nel giardino della casa di sua madre il giorno dell’intervista, le ultime per cui abbia mai posato” (op. cit., pag. 10).
Mah... Saranno proprio andate così le cose?
Questa smania di rappresentarsi quale unico depositario dell’eredità emotiva di Barrett è comunque compensata dalla dichiarata consapevolezza che il suo abbandono delle scene possa essere stato causato dall’esplicita volontà di non doversi adeguare alle imposizioni del mercato discografico. Tesi che anche noi abbiamo sostenuto per anni, dall’uscita di “Tatuato sul Muro” (Gammalibri, 1985) e che, per la verità, in pochi per anni hanno condiviso...
Scrive ancora Rock: “Tuttavia è sembrato che quando cominciò ad esserci coinvolto, lui non volle avere a che fare con l’essere una pop star. Forse uscì di testa a causa dell’acido, non so... ma chiaramente diventò di umore più cupo, anche se non ho mai trovato che fosse tale quando ci frequentavamo” (op. cit., pag. 18).
E più oltre: “Non ho mai pensato che Syd fosse un balordo. Syd era un tipo volubile; è quello che ricordo veramente di lui. Sapeva essere molto amichevole, ma poi, se qualcuno entrava nella stanza, il suo umore poteva cambiare completamente e cominciava a parlare in modo meno coerente. È mia opinione che Syd abbia preso la decisione definitiva di ritirarsi dal mondo. Credo che a un certo punto decise di non voler aver nulla a che fare con il mercato; con le stronzate tipiche del rock’n’roll. Per questo le rifiutò. L’impressione che avevo di lui era che pensasse che il music business fosse molto banale. E che non avrebbe dovuto lasciarsi condizionare da esso, il che rendeva le cose molto difficili per il resto del gruppo. Penso soprattutto che diventò sempre meno interessato. In parte era dovuto alla droga, ma un sacco di persone ne prendevano più di Syd. Era veramente impossibile costringere Syd a fare qualcosa. Nessuno sa perché mai si comportasse in quel modo, o perché scelse di sparire e vivere come un recluso. Forse aveva molto a che fare con la sua creatività. Forse voleva essere un artista free-form, come un musicista jazz, invece di dover continuare a dare concerti e suonare pezzi da classifica. Suppongo che questo è dovuto al fatto di aver sempre pensato a lui come a un poeta matto, non nel senso che fosse pazzo (malato), ma nel senso che era uno che non voleva avere a che fare con le imposizioni commerciali sulla creatività” (op. cit., pag. 99).
L’INTERVISTA DI “ROLLING STONES”.
Altro documento importante contenuto in “Psychedelic Renegades” è l'integrale dell’intervista che Rock fece a Barrett nell’autunno del 1971 nel giardino della casa di Cambridge in cui aveva abitato da ragazzo (al 183 di Hill’s Road, nella periferia della città).
Ultima intervista ufficiale rilasciata da Syd, è una sorta di bizzarro testamento spirituale, illuminante in una lettura a posteriori del definitivo ritiro del musicista dalle scene.
Rispetto alla versione pubblicata da “Rolling Stones” il 23 dicembre 1971 (nota 8), quella integrale offre qualche elemento ulteriore per penetrare l’universo psicologico del Barrett di quei giorni cruciali, preludio alla ‘scomparsa’.
Parlando di sé dice: “Non ho senso dell’umorismo”. Quanto ai rapporti con i Pink Floyd è lapidario: “Non ho niente a che fare con loro. A parte il fatto che hanno prodotto i miei dischi, il che è stato molto utile”. Quindi giudica i suoi lavori negativamente: “Ho fatto tre album e due non sono stati molto interessanti. Gli ultimi due sono stati così polverosi. E così inutili. Cosa puoi farci? Mi piacerebbe rimettere le cose a posto”.
Per quanto Rock si sforzi di restituire al lettore un’immagine di Syd quale musicista ancora in attività, Barrett è nuovamente esplicito nell’ammettere la totale perdita di motivazione. Alla domanda di Rock : “Non senti il bisogno di produrre, di andare avanti?”, Barrett risponde: “Lo faccio. MA NON MI È RICHIESTO. PER CUI NON SENTO CHE C'È UN MOTIVO PER CONTINUARE”.
A conferma di ciò, Rock rivela che Syd “in verità non suona la chitarra, in questi giorni. Preferisce più che altro strimpellare” e sottolineando le difficoltà a rapportarsi con gli altri, ritiratosi com’è nel seminterrato della casa della madre (“un utero”, scrive Rock, “nel quale si circonda dei suoi quadri e di dischi, dei suoi amplificatori e le chitarre”), riporta un’altra frase significativa di Syd: “NON SO DI COSA STO PARLANDO. IL PROBLEMA È CHE PARLARE A QUESTO LIVELLO È SOLO UNA PERDITA DI TEMPO PERCHÈ NON CI GUADAGNA NESSUNO. INTENDO DIRE CHE NON STIAMO ANDANDO DA NESSUNA PARTE. NON È CHE TU MI ABBIA STIMOLATO A DIRE QUALCOSA DI PARTICOLARE".
“Sta un sacco di tempo a letto”, rivela il fotografo. “Ha tempo per pensare alle sue radici, e tranquillizzarsi”. “È STATO TUTTO MOLTO SEMPLICE. VEDI, HO AVUTO UNA VITA MOLTO LINEARE. SONO ANDATO A SCUOLA DALL'ALTRA PARTE DELLA STRADA" (op. cit., pag. 105).
Lasciato il seminterrato, Rock e Barrett entrano in casa. Mentre guardano foto di Syd da bambino e bevono un tè coi biscotti, Barrett si perde in considerazioni su “amore e denaro”. “SONO STATO SPESSO INNAMORATO. L’ULTIMA VOLTA È DURATA SOLO POCHI MESI E ALLA FINE DELLA STORIA MI SONO SENTITO QUASI DISTRUTTO”. E ancora: “Sono sempre stato innamorato e sono stato con molte ragazze. All’inizio era più una questione di necessità. Adesso è più un fatto di coinvolgimento. Pur avendolo dimenticato, non me ne preoccupo. È qualcosa che mi capita quando mi sento un po’ triste, il che non succede sempre. AMO LE RAGAZZE. VOGLIO SPOSARMI E AVERE DEI BAMBINI”.
Sul finale dell’intervista, Rock fa un’acuta considerazione sulla condizione di Syd, poco prima dell'affermazione, diventata famosa: “Non sono sempre stato così introverso. Credo che i giovani debbano divertirsi più che possono. Ma non mi è mai sembrato di esserci riuscito”. Scrive: “A venticinque anni è preoccupato dall’idea di invecchiare. Gli piacerebbe godersela, aprirsi al mondo, ma ha dimenticato come si fa”. E poco dopo: “Syd si è ritirato. Sta cercando nuovi livelli, nuove forze” (op. cit., pag. 106).
CONSIDERAZIONI FINALI DI “PSYCHEDELIC RENEGADES”
Nelle battute conclusive del volume, Rock ribadisce l’esclusività del rapporto avuto con Barrett:
“Ho sempre pensato che ci fosse una comunicazione speciale tra me e Syd, anche quando cominciò a cambiare. Forse era dovuto al fatto che mi conosceva in modo diverso; non eravamo cresciuti insieme e non avevo legami con i Floyd. L’avevo conosciuto per la maggior parte a Londra e con me forse aveva una diversa identità. Nella nostra relazione non c’era alcuna forma di pressione. Potevamo semplicemente godere ognuno della compagnia dell’altro” (op. cit., pag. 125).
E poco dopo: “Syd è un enigma leggendario. Come Scarlet Pimpernel sembra sia dannato che sfuggente. E come Pimpernel, LA SUA ULTIMA RISATA È RIVOLTA A TUTTI NOI...” (op. cit., 139).
(1-6 dicembre 2008)
• NOTE
(1) P. Anderson-M. Watkinson, “Crazy Diamond: Syd Barrett and the Dawn of Pink Floyd” (Omnibus Press, London 1991): l’estratto si riferisce alle pagg. 85-94 della prima edizione italiana edita da Arcana Editrice nel 1992 (traduzione di L. Ferrari). Per la precisione, il testo è completato da un breve pezzo scritto ex-novo da Anderson basato sui ricordi di Rock delle session fotografiche per la cover del disco. Ricordi che il fotografo amplierà e approfondirà in "Psychedelic Renegades";
(2) delle 27 foto riprodotte, 9 si riferivano al giorno in cui Rock si era presentato di prima mattina all’appartamento di Syd, trovandolo ancora a letto: “Ci sono almeno un paio di scatti che lo ritraggono in mutande”, ha scritto Rock. “Aveva aperto la porta e gli feci alcune foto mentre tornava nella zona del letto”.
Le restanti foto risalgono invece per lo meno ad altre due “session”: 6, a colori, a quella da cui venne tratta la copertina (con Barrett con il make-up agli occhi truccato da Iggy); 11 (di cui una stranamente si ripete), in bianco e nero, in un’occasione diversa, almeno a giudicare dall’abbigliamento di Barrett (la maglietta fatta con la tecnica del batik e il foulard al collo);
(3) racconta Rock nel libro: “Tornai un paio di settimane dopo. Non sapevamo ancora che titolo avrebbe avuto il disco e pensavamo che avremmo avuto bisogno di qualcosa di diverso da usare per la copertina interna o per la promozione. Era tardi, forse mezzanotte o l’una, e avevamo a disposizione solo una comune lampada. Usavo pellicole in bianco e nero perché si può usare una luce più bassa, ma arrivato a metà rullino la macchina si inceppò. Per qualche strana ragione la macchina si aprì ed è per questo che c’è come un po’ di nebbia sulle foto. Mi ripromisi di tornare a scattare qualche altra foto in seguito, ma non lo feci mai e dimenticai il rullino per anni. Syd stesso non vide mai quelle foto (...)”. Per completezza va aggiunto che nello stesso periodo anche Storm Torgherson andò da Barrett a scattare qualche foto per la copertina del disco: foto che avrebbe utilizzato anni dopo per la copertina della raccolta "Syd Barrett" (Harvest 1974) e che ritraggono Barrett coi capelli lunghi, in pantaloni neri a torso nudo...;
(4) in prevendita (18 dicembre 2001), l’edizione de-luxe aveva già venduto una cinquantina di copie in una sola settimana. Nell’agosto del 2005 su E-bay una copia è stata venduta a £ 2.450, mentre il mese dopo a £ 2.400!;
(5) dalla pubblicazione del volume, Rock ha dato numerose mostre in tutto il mondo: la prima, del giugno 2003, si tenne alla Zoltar Gallery di Londra;
(6) di cui tre primi piani di Mick Rock scattati da Syd e tre foto con Barrett e Rock scattate da Sheila, la moglie di Rock; probabilmente per motivi di ‘privacy è stata esclusa una foto scattata da Rock che ritrae Syd e Sheila (comunque in circolazione sul Web – cfr. ad esempio la sezione di foto del sito NeptunePinkFloyd);
(7) nell’edizione economica di “Psychedelic Renegades” mancano comunque, stranamente, gli 11 scatti ritrovati in anni recenti (cfr. nota 3), comunque reperibili al sito The Syd Barrett Archives (https://www.sydbarrett.net/welcome.htm);
(8) la prima traduzione in italiano è contenuta in “Syd Barrett”, (a cura di) L. Ferrari, Stampa Alternativa 1989 (pagg. 79-80);
(9) cfr. M. Rock, “Seer. Painter. Piper. Prisoner” in “Mojo” n. 154 del settembre 2006.
UN EPILOGO INASPETTATO (E INSOSPETTABILE)
“Comunque, non sono nulla di tutto quello che tu credi che sia...”
(Syd Barrett, 1971)
Sono già trascorsi tre anni dall’ultimo avvistamento pubblico di Syd Barrett, ma le voci che lo vogliono definitivamente preda di una irrecuperabile malattia mentale non si sono attenuate. Il mito di questo strano personaggio, legato soprattutto a certe incomprensibili manifestazioni della sua vita artistica, si è infatti arricchito di nuovi proseliti e tributi, in particolare dell’ultima generazione musicale, nuovamente avvicinatasi ai Sixties. Ma l’enigma che avvolge tutta la folgorante espressione di Barrett resta più fitto che mai, e anzi sembra farsi sempre più impenetrabile con il trascorrere degli anni.
L’occasione di una biografia su di lui per cercare di rendergli l’equità spesso tradita dagli altri mi riporta sulle sue tracce, una mattina di luglio 1985, piovosa ma decisiva.
L’indirizzo della vecchia casa della madre, scrittomi gentilmente da quell’ambiguo personaggio che è Storm Torgherson, è qualcosa di più di una semplice speranza, e l’idea di incontrare finalmente il mitico chitarrista psichedelico mi elettrizza e inquieta allo stesso tempo.
Da Londra, alle nove di mattina, sono partito in pullman per verificare di persona chi sia effettivamente quest’uomo che da più parti è considerato alla stregua di un inutile vegetale, e alla vista delle prime case di Cambridge, mi chiedo se riuscirò a capire qualcosa di più di quanto abbiano lasciato intuire le parole di coloro che ho intervistato nei giorni precedenti.
Chiedo subito dell’indirizzo, e non ho difficoltà a trovare la casa.
Entrando nel cortiletto che da sulla strada, le mie pulsazioni sono già abbondantemente alle stelle, mentre un volto raggrinzito di vecchia mi scruta sospettoso da una delle due finestre... La signora Barrett!
Busso e lei arriva malferma sulle gambe. Mi presento un po’ timoroso, chiedendole del figlio, ma lei sembra non capire... Fortunatamente dal fondo della stanza avanza velocemente un uomo longilineo; ha i baffi e i capelli lunghi. E’ evidente che non può essere Syd, e così mi ripresento con più calma e con non poca curiosità (chi sarà mai questo strano tizio?). A un tratto mi interrompe: “Agh, ho capito! Stai cercando Syd, il figlio malato della signora Barrett che viveva proprio qui di fianco a noi fino a poco tempo fa. Adesso però ha cambiato casa...”.
Chiedo ansioso se mi potrà aiutare a rintracciarla perché devio assolutamente parlare con suo figlio, e, dopo alcune esitazioni, Ben mi dice deciso: “Ok, seguimi. Ti ci porterò io, non è molto lontano da qui”.
Durante il breve tragitto, che sembra eterno per la mia apprensione, lui mi chiede chiarimenti sulle mie intenzioni, e mi racconta della sua infanzia nel giardino di Syd a giocare con lui per interi pomeriggi. Si stupisce, oltretutto, del fatto che io mi stia interessando al “malato”, e sembra persino ignorare che un tempo Barrett è stato il fondatore dei leggendari Pink Floyd. E’ un po’ perplesso, insomma...
Comunque, tra una battuta e l’altra, arriviamo in una piccola via con le solite casette tutte uguali, allineate noiosamente in perfetto stile inglese.
Il signor Ben èp un po’ indeciso, pare non ricordarsi molto bene il numero della casa dei Barrett. Avanza, indietreggia un po’, ritorna sui suoi passi e dice trionfante: “Ecco, è questa! Sono sicuro!”.
Adesso sono vicino alla porta e ho appena suonato il campanello. Cosa racconterò alla signora Barrett?
Esitazione. Sono nervosissimo, e non risponde nessuno. Suono ancora una volta trepidante, e in lontananza, finalmente, una luce annuncia l’avvicinarsi veloce di una sagoma.
“Quella non può essere la signora Barrett!” penso atterrito, ma ormai la porta si apre e Ben dice un po’ sorpreso: “Ecco l’uomo che stai cercando!”.
Chi avrebbe mai pensato dio trovarselo di fronte in questo modo così improvviso, così subitaneo?
Ho davanti Syd Barrett e lo osservo solo per un attimo: è magro, ma sembra in buone condizioni fisiche. Ha la barba non fatta, ed è vestito in modo approssimativo, con una maglietta viola e un paio di pantaloni di velluto dello stesso colore. E’ molto stempiato, con i pochi capelli tagliati cortissimi; ma gli occhi e lo sguardo sono quelli di sempre.
“Salve, mi chiamo Luca Ferrari, vengo dall’Italia... St scrivendo un libro su di te e ho pensato di venire a trovarti. E’ stato Storm a darmi il tuo indirizzo...”.
Intanto, gli allungo la mano e lui me la stringe molto gentilmente. “Posso parlare un po’ con te?...”. E lui, agitatissimo: “No, no, non posso proprio... No... Non posso. Sono molto occupato, non ho tempo, davvero...”.
Insisto, ma è chiaro che non vuole saperne del libro e, oltretutto, è diventato molto inquieto: “No, no... Non posso... Non c’è mia madre in casa, non posso... Eppoi non sto facendo niente adesso...”.
E’ confuso, sembra persino che mi tema, ed è fermo sulla porta di casa senza lasciarmi entrare di un passo.
A quel punto mi rendo conto che è davvero inutile continuare. Non mi sfiora minimamente l’idea di registrare quest’assurda conversazione e di estorcergli una foto. Penso sarebbe ingiusto, in questo libro, cercare di violare per l’ennesima volta il suo deciso silenzio...
Così, guardandolo ancora per un attimo, lo saluto allungandogli nuovamente la mano, e lui me la stringe ancora, stavolta frettolosamente, chiudendo subito dopo la porta dietro di sé.
Io e Ben ci guardiamo confusi; Syd è scomparso definitivamente dentro casa sua. Anche lui, come tutti gli altri che ho incontrato, non ha spiegazioni sicure.
“Syd era un ragazzo veramente squisito, da giovane, poi, dopo Londra, è cambiato radicalmente...”.
Troppo poco per capire cosa sia successo a un artista tanto creativo, destinato chissà ancora per quanto a disorientare, forse beffardamente, tutti coloro che come me hanno cercato di celebrarne il Genio.
(da "Tatuato sul muro", Gammalibri, Milano 1985 - 1a edizione)
FRIGORIFERI VERDI, HOMELESS E FUNGHI. Gli abusati luoghi comuni su Syd Barrett nella stampa musicale italiana come paradigma delle logiche di funzionamento della società dello spettacolo.
Syd Barrett non ha mai suonato in Italia, né probabilmente ci è mai venuto da turista. Il nome di Barrett, fatalmente legato al destino del gruppo da lui fondato, i Pink Floyd, ha cominciato a circolare tra gli appassionati italiani solo agli inizi degli anni Settanta, dopo il discreto successo ottenuto dai Pink Floyd con “Atom Heart Mother” e i primi concerti tenuti con la nuova line-up.
La prima volta i Pink Floyd suonarono a Roma nell’aprile 1968 con due date al Piper Club, in formazione era presente David Gilmour che si era unito alla band nel dicembre-gennaio precedenti. Quindi tornarono in maggio, in occasione del primo Festival Internazionale di Musica Pop, sempre a Roma, al Palazzetto dello Sport. In seguito, avrebbero suonato dal vivo solo nel giugno 1971, a Brescia e Roma, due date organizzate da “Ciao 2001”, la rivista più importante del tempo. Curioso che annunciando il concerto, il 9 giugno, la rivista comunicò che sarebbe stata l’occasione per ascoltare Syd Barrett, “che secondo il comunicato della casa discografica, pare essersi riunito al gruppo…” (“Ciao 2001” n. 23, 9 giugno 1971).
Per questo non è un caso che “The Piper at The Gates of Dawn”, pubblicato in Inghilterra nell’agosto 1967, sarebbe stato editato per la prima volta in Italia solo nell’aprile 1971 e con una copertina diversa che ritraeva Gilmour anziché Barrett in una foto scattata ai Kew Gardens di Londra (!). Una scelta che la dice lunga sull’investimento dei discografici sul gruppo, dopo il bagni di folla dei concerti di Roma e Brescia.
Dal punto di vista discografico, per la verità, i Pink Floyd di Barrett erano già approdati in Italia con “See Emily Play” (SCMQ 7066) verso la fine del luglio 1967, ma il 45giri non aveva suscitato grande interesse, anzi (si pensi che una recensione uscirà sul mensile “Giovani” solo nel febbraio 1968!). Un breve redazionale della rivista “Big” (“Con i Pink Floyd accade di tutto”), del 26 aprile precedente, descriveva l’atmosfera della musica come “allucinante, tale da choccare il pubblico”. I Pink Floyd, a detta del giornale, avevano portato alle estreme conseguenze la musica pop…
In settembre, poi, erano apparsi nuovi articoli, scarsamente analitici della musica e più orientati al gossip, secondo uno stile diffuso all’epoca anche nei paesi anglosassoni: il 13 settembre, ancora su “Big”, un nuovo redazionale dal titolo “Pink Floyd sotto vetro” annunciava la rientrata crisi nervosa di Barrett, rimessosi completamente “dopo alcuni giorni in clinica”. Emergeva lo stress di una band sottoposta a un rigido tour de force di concerti, assediata dai fan al punto da essere costretta a girare in auto blindate (!), con tettuccio e finestrini decorati con immagini in stile “flower power”. Il giornale riportava alcune improbabili considerazioni di Barrett che affermava: “È meraviglioso viaggiare nelle nostre nuove auto. Anche nel centro di Londra sembra di stare in aperta campagna. È il sistema migliore per rilassarsi ed evitare un nuovo esaurimento”.
Il 19 settembre su “Ciao Amici” n. 38 in un articolo intitolato “Anche la musica come droga” (la foto principale ritraente Syd verrà utilizzata negli anni Ottanta da Bernard White per la copertina di un numero celebrativo di “Terrapin” in stile psichedelico…), Otis Pencill raccontava di un incontro avuto a Londra con il gruppo “più all’avanguardia della scena musicale inglese”. L’intervista tentava di analizzare per la prima volta la natura di questo spettacolo fatto di musica e colori. Paragonata alle interviste inglesi e americane del periodo, questa presentava quattro giovani assolutamente consapevoli della loro condizione artistica. Barrett, in particolare, si lanciava in alcune considerazioni acute sulla dimensione giovanile del tempo: “La gioventù inglese sta cambiando”, affermava, “la morale beat non significa più niente per noi. La nostra generazione si è resa conto che la ribellione è inutile quando la società riesce a incamerarla, ad incapsularla nella civiltà dei consumi come ha fatto con il beat per cui è ribelle non chi protesta ma chi si veste in un certo modo. Ora i giovani inglesi hanno deciso di sfruttare e non essere sfruttati dalla società e dai suoi prodotti, così il vestito non ha più importanza, c’è anzi un ritorno all’eleganza, alla raffinatezza, alle sensazioni che puoi ottenere solo con la droga. Ma questa è pericolosa mentre la musica e i colori che usiamo non lo sono affatto. Ecco perché abbiamo avuto un successo così rapido. Offriamo ai giovani delle sensazioni nuove, li aiutiamo a liberarsi, a calmarsi, ma senza l’aiuto della chimica…”.
Il fotoreporter Armando Gallo, che anni dopo sarà responsabile dell’edizione italiana del libro di Barry Miles sui Pink Floyd, dedicava su “Big” n. 39 (27 settembre 1967) un nuovo articolo al gruppo di Syd Barrett dal titolo emblematico “Musica contro fiori”: il giornalista proponeva una lettura della musica ‘psichedelica’ quale risposta al ‘flower power’ americano. È interessante il fatto che per Gallo la psichedelica inglese aveva bandito la droga, basando la sua proposta artistica solo su musica e immagini. Un’idea confermata dalla vivida descrizione di un concerto del gruppo all‘UFO Club. Nelle poche battute raccolte, Barrett si dichiara irritato dalla pletora di gruppi-fotocopia proliferati dopo la loro entrata in scena...
Dal 1967 al 1970 non uscirono in Italia articoli rilevanti sui Pink Floyd.
Solo con il successo planetario di “The Dark Side of the Moon”, ed è già il 1973, la ‘vicenda’ di Barrett cominciò a suscitare un primo vero interesse anche in Italia: cos’era capitato al loro fondatore, front-man del gruppo, autore di quasi tutto il loro repertorio iniziale?
È solo a questo punto, in effetti, che l’interpretazione del destino di Syd – spesso in assoluta assenza di informazioni dirette sulla sua persona - assume i caratteri più morbosi e deteriori, non solo in termini squisitamente giornalistici (l’annosa questione della deontologia…) ma anche e soprattutto in termini di rispetto della persona.
Va detto, per onestà, che anche il panorama anglo-americano non offriva esempi particolarmente edificanti: basti considerare ad esempio le interviste rilasciate da Barrett a “Melody Maker” nel 1971 (quelle di Michael Watts e Chris Welch) che, a detta di Andrew King, erano state intenzionalmente montate con un taglia-e-incolla per dare l’impressione al lettore di una mente compromessa, gravemente scollegata dalla realtà.
Il primo giornalista in Italia ad accennare all’impazzimento di Syd è Marco Fumagalli che dalle pagine di “Qui Giovani” (n. 25 del 21 giugno 1973), rivista molto influente in quel periodo, scrive che “Barrett intossicato da droghe dure, lascia il gruppo e inizia un penoso calvario in un istituto di rieducazione (leggi manicomio)”.
Sempre quell’anno esce in Italia uno dei primi libri dedicati alla musica rock, a firma di Riccardo Bertoncelli, che diventerà negli anni uno dei maggiori (se non il maggiore) giornalista musicale italiano: nel suo “Pop Story” (Arcana Editrice, febbraio 1973), scritto con uno stile pop-psichedlico tipico dei tempi, si parla diffusamente dei Pink Floyd: di “The Piper” il giornalista scrive che è stato “voluto e creato radicalmente da Syd Barrett, il leader già al confine insicuro della propria lucidità mentale”. I testi, invece, sono stati “partoriti dal cervello malato e bollente di Syd” e sono “viscide immagini, chiare solo a chi scrive: simbolismi ed enigmi, sorrisi beffardi”.
Anche per Bertoncelli, Barrett era finito in un ospedale psichiatrico, per uscirne “verso il 1970” e registrare due dischi solisti, “incomprensibili tasselli di un affresco extraterreno”, dai “testi evirati, paradossali, gli insetti che sono la fobia di Barrett e tappezzano ogni interstizio del suo cranio e del disco…”.
Nel ’75, il successo planetario di “Wish You Were Here” riporta anche in Italia, per quanto defilata, la vicenda di Syd. Per Mauro Radice, in un articolo “impressionistico” pubblicato sul n. 2 di “Muzak” (maggio 1975), rivista dai dichiarati intenti intellettualistici, Barrett è diventato un “giardiniere”, in un “luogo sperduto” dove avrebbe pronunciato la famosa frase “sono pieno di polvere e chitarre”, ma è chiaro che il vago riferimento rimanda all’intervista di Mick Rock della fine del ’71 e il giardino è quello della casa materna di Hills Road...
Sulla stessa rivista, Danilo Moroni pubblica quello che probabilmente è il primo articolo integralmente dedicato a Syd (ma scritto sempre con la “i”…), dal titolo emblematico “L’impossibilità di essere normale”: una vera e propria speculazione costruita su sentito dire e luoghi comuni (tipo l’episodio del Mandrax e della brillantina…) già in circolazione da qualche mese anche in Inghilterra. Barrett, scrive, entra ed esce dagli ospedali psichiatrici, preda di “turbe psicotiche”. “Una elettrica mania di persecuzione gli percorre forse la spina dorsale”…
In mancanza di notizie certe, scopiazzando qua e là i pochi articoli inglesi disponibili (in particolare la famigerata retrospettiva di Nick Kent pubblicata nel ’73 da “New Musical Express” con il titolo “The cracked ballad of Syd Barrett” e la prima biografia sui Pink Floyd scritta da Rick Sanders…) si comincia anche in Italia a confezionare articoli diffamatori all’insegna del “fool on the hill”… Complici certamente i Pink Floyd con i loro continui riferimenti alla ‘presunta’ follia del loro band leader… e un endemico provincialismo della cultura musicale di quegli anni, in cui si scrivevano libri e articoli limitandosi ad ascoltare i dischi… (ma non c’era Internet, né i voli low-cost…)
In un pezzo molto critico nei confronti della musica dei Pink Floyd (titolo “Tu, stupido diamante”) apparso su “Gong” (n. 10 dell’ottobre 1975) – altra rivista per intellettuali del rock – ancora Fumagalli dedica un paragrafo a Barrett con il dichiarato intento di sfatarne il mito. La tesi è tanto semplice quanto infondata: non ha senso rimpiangere l’importanza del chitarrista perché è stata poca cosa, le sue composizioni sono “ritratti sorridenti e saltellanti di certa ingenuità creativa verniciata di psichedelica a buon mercato”. Il gruppo l’ha estromesso dopo “liti, drammi, Syd che si iniettava LSD nelle tempie per farlo arrivare più rapidamente al cervello”. Definisce i suoi dischi solisti “assurdi monumenti di paranoia acustica”…
Nell’ottobre 1976 (“Ciao 2001” n. 40 del 10 ottobre), Enrico Gregori scrive un pezzo su Syd abbastanza equilibrato e rispettoso (il primo!), pur con qualche incredibile scivolone (in particolare il riferimento ai continui ricoveri in ospedale psichiatrico e alla dipendenza da eroina…): è comunque il primo articolo apparso in Italia a valorizzare compiutamente i dischi solisti di Syd generalmente considerati il prodotto di una mente allo sbando.
L’Arcana Editrice, una delle case editrice più attive anche in ambito pop-rock in quegli anni, pubblicò il primo libro dedicato ai Pink Floyd solo nel 1978 (titolo “Pink Floyd”), riprendendo aneddoti già in circolazione dalle prime interviste approfondite che i Pink Floyd avevano rilasciato tra il ’72 e il ’73 a Zig Zag e, in particolare, stralci della prima biografia inglese della band, scritta da Rick Sanders nel ’74 (“Pink Floyd”, Futura Pubblications): memorabile il suo capitolo dedicato a Syd, “Pretty much your standard middle-class Rimbaud figure”. Il volume, di fatto la prima raccolta dei testi tradotti del gruppo, presenta anche i testi di “The Piper”, il più sbagliati. Si scoprirà anni dopo che il curatore, Walter Binaghi, li aveva desunti ‘a orecchio’…
Da qualche mese (fine 1979) era in circolazione anche una fanzine redatta in provincia di Parma dal fan Edoardo Bertoletti e intitolata “Pinky”. Bertoletti aveva rapporti diretti con Londra e in particolare con “Terrapin”, la fanzine dedicata a Barrett nata alla fine del 1972 per iniziativa di Lawrence Himfield e John Steel. Fu “Pinky” a pubblicare e a tradurre per la prima volta in Italia alcuni testi di Barett, tra cui “Effervescing Elephant”, rivelando retroscena inimmaginabili dal fan che si rivolgeva a riviste quali “Ciao 2001” o “Popster”…
Le prime informazioni non istituzionali su Barrett e i Pink Floyd provenivano da lì.
Solo dopo aver letto “Pinky” e ricevuto per posta una copia – che conservo ancora gelosamente – del bootleg “Laughing”, ebbi l’idea di pubblicare una fanzine sui Pink Floyd – “Octopus” – con ampie parti dedicate espressamente a Barrett. Di “Octopus” sarebbero usciti 18 numeri, dal novembre 1981 al novembre 1983, anno d’uscita di “The Final Cut”.
Intanto, scarseggiando fonti dirette (è nota la riservatezza di quegli anni dei Pink Floyd che contribuì a renderli un gruppo di culto nel mondo…), il primo contributo a un approccio approfondito alla storia dei Pink Floyd e, sebbene in parte, a quella di Barrett fu appunto quello a cura di Armando Gallo, a cui si deve la traduzione del bel volume fotografico di Barry Miles edito dalla Omnibus nel 1980. In Italia uscì a metà del 1983.
In realtà, l’originale di Barry Miles era già disponibile di importazione da qualche mese attraverso soprattutto il negozio Carù Dischi di Gallarate (VA), uno dei negozi di dischi più importanti per la ‘formazione’ dell’appassionato italiano, per lo meno del nord Italia.
In quel volume, con foto assolutamente inedite per il pubblico italiano e curiosità legate ai concerti in una fitta ricostruzione day-by-day, l’immagine di Barrett usciva per la prima volta ridimensionata nella sua presunta deriva folle, eccetto che per i brevi accenni all’ultimo tentativo del musicista di tornare a registrare (1974) – aneddoto dei testi scritti in rosso e delle corde di chitarra prestategli da Phil May – e all’inquietante apparizione alle session di “Wish you were here”, ingrassato e calvo…
Fu grazie alla mia fanzine che entrai in contatto con Riccardo Bertoncelli che mi propose di curare per la casa editrice di cui era direttore editoriale, l’Arcana di Milano, un volume dedicato ai Pink Floyd.
Pubblicato nel 1983 nella collana “Manuali Rock”, il libro (titolo “Pink Floyd”) si prefissava di offrire al pubblico italiano materiali sul gruppo ancora inediti, per lo meno poco conosciuti: accanto alle storiche interviste di Zig Zag fu mia l’idea di introdurre tre degli articoli più significativi pubblicati fino a quell’anno sul ‘mistero’ Barrett: il controverso contributo di Nick Kent da New Musical Express; uno stralcio significativo di “Careening through Life. From the Floyd to the Void”, articolo di Kris Di Lorenzo pubblicato nel 1978 su Trousers Press e l’integrale del più recente reportage del mensile francese Actuel (1982), curato da Assayas e Johnson che aveva avuto il merito di avvicinare Barrett in persona a casa della madre a Cambridge per la prima volta dai tempi dell’intervista di Mick Rock.
Inutile dire che il volume vendette molto bene, andando quasi subito in ristampa. Si trattava della prima occasione in cui circolavano informazioni più approfondite sul ‘mistero Barrett’, oltre che sulla discografia dei Pink Floyd, qui compilata ai limiti del maniacale.
Dopo quel libro, che mi avrebbe proiettato nel mondo dell’editoria musicale italiana (da allora ho scritto, curato e tradotto circa 25 volumi), decisi di concludere l’esperienza di “Octopus” per dedicarmi anima e corpo a un nuovo progetto, la creazione di “Dark Globe”, fanzine mensile dedicata esclusivamente a Syd Barrett.
Sarebbero usciti 5 numeri, dal febbraio 1984 al maggio 1985, caratterizzati da un approccio alternativo a quello diffuso in genere dai ‘magazine for fans” (il sottotitolo recitava: “bollettino aperiodico di seduzione barrettiana”): l’idea era quella di avvicinare protagonisti dell’epoca per indagare il ‘mistero’ di Barrett attraverso fonti di prima mano e offrire qualche nuova chiave interpretativa delle cause che ne avevano decretato il ritiro dalle scene.
In quei mesi avviai rapporti con Ivor Trueman che qualche mese prima (settembre 1983) avevacominciato a stampare “Opel”, probabilmente la fanzine più documentata mai apparsa su Syd. Con “Opel”, “Dark Globe” promosse anche in Italia la raccolta di firme per una petizione da inviare alla EMI allo scopo di indurre la casa discografica a pubblicare gli inediti che ancora giacevano negli archivi.
Nel frattempo alcuni viaggi a Londra mi consentirono di avvicinare alcuni dei protagonisti della storia di Syd, tra cui i manager Jenner e King della Blackhill, Malcolm Jones dell’Harvest, Storm Torgherson dell’Hipgnosis, Bernard White, ritenuto il più grande fan di Syd, Duggie Fields, il pittore che nel 1969 aveva condiviso con Syd l’appartamento a Earl’s Court mans. a Londra. Pubblicai alcune di queste interviste sulla fanzine finché, nell’estate 1985, ebbi l’avventura di incontrare personalmente Syd nella casa di St. Margarets Square, dove mi ero recato con l’intenzione di intervistare la madre Winifred. Inaspettatamente fu Syd ad aprirmi. Ci scambiammo qualche imbarazzata parola e ci stringemmo la mano. Ne ricavai immediatamente l’idea che fosse assolutamente in sé e la cosa mi convinse che, diversamente da quanto si andava ripetendo da anni, l’ex musicista poteva aver ‘scelto’ di vivere così ritirato dal mondo, lontano da quelle scene che gli avevano provocato tanta sofferenza.
Watkinson e Anderson, autori della prima biografia inglese del 1990, citeranno l’episodio rappresentandomi come il classico fan sciocco, rimasto deluso dalla scarsa comunicativa dell’idolo…
Tornato in Italia, decisi di interrompere la pubblicazione della fanzine e di dedicarmi alla scrittura di quella che si sarebbe rivelata in seguito la prima biografia mai apparsa al mondo su Barrett, “Tatuato sul muro”, edita dall’editore milanese Gammalibri.
Dal 1985 al 1990 sarebbero uscite ben tre diverse edizioni, con un totale di circa 8.000 copie vendute in Italia, un piccolo record.
Nel mio libro proponevo, forse per la prima volta, l’idea che Barrett avesse potuto ritirarsi consapevolmente dalle scene come risultato di una ‘scelta’. La sua vita da non-musicista, scrivevo, non era meno degna di essere vissuta della sua vita precedente.
Nell’88, intanto, in concomitanza all’uscita di “Opel”, a causa di un indegno articolo del “News of the World” a firma Mick Hamilton, anche il più diffuso quotidiano italiano – “Il Corriere della Sera” – riprendendo la notizia palesemente inventata raccontò che a detta dei vicini Barrett era solito ululare come un cane nella sua casa di Cambridge… In piena campagna di sensibilizzazione contro il massiccio consumo di acidi da parte dell’ultima generazione di giovani (la famigerata “ecstasy”), il presunto ammattimento di Barrett a causa della droga era funzionale a prestarsi da monito. Il titolo, anche in questo caso , sin troppo esplicito: “Droga: Syd Barret (sic) (ex Pink Floyd) ormai è un “vegetale” che abbaia”. Secondo la giornalista Mariuccia Chiantaretto, Barrett, ”ormai ridotto a un vegetale”, “(…) in preda agli allucinogeni si è completamente rasato il capo, veste jeans sporchissimi e trascorre giornate, settimane e anche mesi senza uscire di casa. Dipinge paesaggi e figure senza senso con colori violenti (…). Adesso che è terribilmente ingrassato solo i fan più affezionati lo riconoscono, ma quando vanno a trovarlo lui li riceve con urla disumane ed insulti spaventosi”.
Ignaro della realtà delle cose, anche Eddy Cilìa, recensendo i due vecchi album solisti di Barrett su “Mucchio Selvaggio” (febbraio 1988, n. 121) concludeva la sua analisi entusiastica sentenziando: “Da tredici anni Syd Barrett vive una vita da recluso, prigioniero della sua stessa demenza, in quel di Cambridge. In casa della madre o in una clinica psichiatrica poco distante. Vegetable Man…”.
L’anno seguente, è il 1989, proposi all’editore Stampa Alternativa di Roma l’idea di raccogliere in volume con tutti i testi di Syd tradotti. Testi che la Lupus Music Ltd. dichiarò di aver perso nei vari traslochi, consigliandomi di desumerli “a orecchio” dai dischi. Mi sorprese il fatto che la Lupus non richiedesse all’editore alcun versamento di royalties per la pubblicazione…
Nel libro, oltre a presentare tutti i testi di Barrett (inediti inclusi) tradotti, ebbi l’idea di includere alcune delle interviste integrali fatte dal musicista dopo l’uscita dai Pink Floyd, perché mi sembrava che potessero diventare uno strumento di comprensione dell’universo mentale e creativo di Syd ancora più efficace di tutte le analisi uscite. Un libro originale anche per il formato a 45 giri, che includeva un singolo con due canzoni inedite di Syd (tra cui la splendida “Opel”) e due omaggi a cura di Anthony Moore e dei Peter Sellers & The Hollywood Party, uno dei primi gruppi a tributare il chitarrista con vari omaggi musicali. “Syd Barrett”, questo il titolo del libro, si rivelò un successo, con varie ristampe e una riedizione (con allegato mini CD) che da tempo circola su E-bay come rarità per collezionisti.
Solo nel 1990 sarebbe uscita la prima biografia inglese, scritta appunto da Mike Watkinson e Pete Anderson, da me tradotta per l’editrice Arcana (tre le edizioni da allora). Biografia che a detta di molti lettori italiani, pur molto meglio informata della mia (per ampiezza di fonti e maggiori disponibilità economiche), ricalcava le stesse tesi da me proposte cinque anni prima. Con una sorta di sciovinismo Made in England i due autori sembravano ignorare intenzionalmente tutto il lavoro che avevo fatto fino a quel punto…
Dalla fine degli anni ’80, la fortuna di Barrett in Italia cominciò a farsi più ampia anche a seguito di una nuova generazione di musicisti che, influenzati dal cosiddetto “paisley underground” americano e dalla “neopsichedelia” inglese, si rifacevano dichiaratamente alla sua musica. Tra i gruppi più noti, i milanesi Peter Sellers & The Hollywood Party, appunto, i vercellesi Effervescent Elephant (il cui loro leader, Ludovico Ellena, nel 2001 registrerà un album interamente dedicato a Syd, “Good morning Mr. Barrett”), i brindisini Allison Run di Amerigo Verardi (considerato il più ‘barrettiano’ dei nostri musicisti – si ascolti il disco solista in lo-fi “Cremlino & Coca” del 1997), i Vegetable Man (con l’esordio eponimo e l’album “It’s time to change”, Toast Records 1989), i Jennifer Gentle.
Un mio nuovo libro, stavolta in italiano e inglese, scritto in collaborazione con la psicologa francese Anne Marie Roulin, offriva l’opportunità di entrare per la prima volta in modo approfondito nell’universo privato del Barrett di quel periodo grazie a due lunghe interviste alla sorella Rosemary fatte nel ’94 e ’95 proprio qui a Cambridge. Il volume, intitolato “A fish out of water”, comprendeva inoltre alcune riproduzioni di opere di Barrett dipinte negli ultimi anni Ottanta e un tentativo di analisi approfondita (probabilmente la prima) dei rapporti tra la pittura e la dimensione psicologica di Syd. Un contributo importante, credo, compromesso soltanto dal pessimo adattamento in lingua inglese del testo.
Negli ultimi anni, tra i progetti più significativi mi piace segnalare quello del calabrese Mirko Onofrio, musicista di estrazione classica, che ha riarrangiato brani di Syd per quintetto di ottoni: entusiasmante l’esibizione nell’ambito del convegno organizzato a Cosenza nel 2002 dedicato proprio a Barrett dal titolo “Convegno Interstellare sulla Cometa Barrett” cui ho partecipato come relatore. A quanto mi risulta, purtroppo non esistono registrazioni…
Decisamente meno riuscita l’operazione di Paolo Giordano & Silly Crime che ha prodotto recentemente lo spettacolo “Have you seen the roses?” con lettura di brani di Syd in italiano e riarrangiamento in chiave Progressive anni ‘70 di alcuni suoi pezzi (ha realizzato anche un CD dal titolo omonimo). Ho assistito a una delle prime esibizioni a Tricesimo (Udine), nell’ambito di un festival di chitarristi acustici dove ho tenuto una conferenza su Barrett, e non mi ha per niente entusiasmato.
Un capitolo a parte merita in questo rapido excursus, il progetto “Vegetable Man Project”, ad oggi alla quinta uscita, ideato da Dario Antonetti e Massimiliano Dolcini con l’idea surreale di pubblicare entro il 2030 1000 cover (!) della canzone inedita di Syd. Fino ad ora sono stati 160 i gruppi/musicisti (italiani, americani, inglesi, giapponesi…) che hanno registrato una reinterpretazione del pezzo negli stili più vari (ska, reggae, avanguardia…). Un progetto che se avrebbe entusiasmato il “Barrett 1967”, avrebbe certo lasciato indifferente il Barrett tornato “Roger”…
Nonostante i tributi, i convegni, le iniziative organizzate anche in Italia per celebrare il genio di Syd, in quella che appare a tutti gli effetti una definitiva consacrazione, alla morte di Barrett sono riaffiorati gli antichi luoghi comuni giornalistici sulla vicenda, senza più l’alibi però di non avere conoscenze dirette sui fatti. Nel luglio 2006, infatti, sono apparsi articoli commemorativi pietistici, infarciti di luoghi comuni e falsità, per ritrarre il destino di un uomo vittima dell’abuso di droghe, impazzito, ridotto a vivere una vita a metà, come mutilata.
Interessante notare che in genere i quotidiani italiani hanno fatto riferimento nei titoli alla “pazzia” di Barrett - il “folle diamante”, “il cappellaio matto”, “il diamante pazzo” (solo il Corriere della Sera, comunque, ha utilizzato una foto di Barrett visibilmente “drogato”…).
Se Barrett, che è stato per oltre trent’anni lontano dalle scene, è “pazzo”, allora tutto è chiaro e più “digeribile”. Il semplice sillogismo è: “era pazzo, ovvio, altrimenti sarebbe ancora sul palco con Waters a suonare “Wish You Were Here”, no?” (!?)…Come sempre è accaduto, l’impossibilità di spiegare il “mistero” del suo autoimposto isolamento ha indotto una volta di più i giornalisti a ripetere gli abusati luoghi comuni della follia e della droga di Barrett che ancora tanto scuotono le coscienze della classe media.
Come non bastasse, nel definire “modesta”, “umile” la sua casa di Cambridge e “basso” il suo “profilo” di questi anni, il giornalismo ufficiale non ha mancato di indulgere con velata indignazione sui dettagli del suo aspetto fisico: “imbolsito”, “grasso”, “pelato”… dimenticando che, in ogni caso, si trattava di una persona di 60 anni che ben difficilmente avrebbe potuto ancora assomigliare al Barrett “eroe psichedelico” dell’iconografia rock (d’altronde, guardare David Gilmour o Mick Jagger per credere…).
La morale è sempre quella… Chi nel corso degli anni ha reso la sua “scomparsa” un oggetto di freakeria da mandare in pasto al lettore assetato di gossip, anche di fronte alla sua morte sembra non riuscire a scrivere qualcosa di intelligente, se non pietistiche e moralistiche considerazioni a margine.
L’importante è che lo show continui, naturalmente, fino al prossimo morto da celebrare...
Grazie alle notevoli biografie di Watkinson e Anderson, di Palacios, all’ottimo lavoro di ricognizione di David Parker nei meandri di Abbey Road, alla più recente ricostruzione di Tim Willis, ai ricordi di Mick Rock e Storm Torgherson, alle rivelazioni diffuse dopo la sua morte, ai miei piccoli contributi di questi anni, all’annunciato nuovo libro di Rob Chapman (previsto per il 2010) sono convinto però che sia possibile oggi un approccio alternativo all’interpretazione della storia di Syd, prima e dopo la musica: il corpus di informazioni e testimonianze di cui disponiamo, pur chiarendo alcuni aspetti oscuri della sua biografia, mantengono inalterato il mistero della sua prematura scomparsa dalle scene, minando nelle fondamenta le logiche perverse dello show business.
Barrett ‘ha scritto nei rovi’ una favola moderna dalla morale illuminate, accecante.
Una morale semplice ma profonda, lanciata ai posteri con l’elementare atto (importa, è mai importato, quanto consapevole?) di chiamarsi fuori, “ritirarsi”, “scomparire” dalla macilenta apparizione quotidiana, continua, su giornali-televisioni-eventi mondani che rende tutto indistinto, privando ognuno delle proprie peculiarità, omologando corpi, sentimenti, idee.
Syd Barrett ha riscritto una storia antica, religiosa (addirittura mistica per le straordinarie analogie con le esperienze di figure fondamentali della nostra cultura spirituale quali San Francesco d’Assisi o Ignazio di Loyola, che seppero spogliarsi di tutto per essere se stessi e realizzare il disegno divino): non morendo, non suicidandosi, continuando a vivere semplicemente come chiunque altro, come persona “normale” senza alcuna aspirazione di “successo”. Del successo contrabbandato dal sistema contemporaneo per cui se non “appari non esisti”. Barrett esisteva comunque senza esserci, perché era in ognuno di noi e rappresentava, vivendo, con quello che per le logiche perverse della società dello spettacolo era un “basso profilo” (e chi ha, per converso, un profilo “alto”, oggi…? Cosa significa averlo?).
Aveva rinunciato al banchetto delle celebrità, aveva ridotto ai minimi termini la sua comunicazione con il mondo esterno (attenzione: il mondo esterno dei giornalisti, dei fan rompiballe, della retorica ipocrita dei Waters-Gilmour-Mason-Wright che con il loro successo planetario, riaccendevano periodicamente l’attenzione su di lui provocandogli solo fastidi… non certo quello dei bambini che giocavano davanti a casa, dei negozianti dove acquistava pennelli, colori, cibo, dei famigliari con cui trascorreva le festività, non la sorella che lo passava a trovare di frequente…), aveva da anni inaugurato una nuova vita, rinato Roger Keith, incurante della propria immagine “pubblica”, disinteressato ad apparire “affascinante”, “misterioso”, “intrigante”… a dispetto dell’accanimento periodico dei mass media che indulgevano volgarmente sulla fatale, ovvia, discrepanza fra l’avvenente, giovane “eroe psichedelico” e il cinquantenne/sessantenne calvo e cadente (ma, come per tutti noi, invecchiando, Barrett ha avuto i suoi ovvi alti e bassi fisici: sufficiente confrontare le fotografie che lo ritraggono dagli inizi degli anni Ottanta con quelle dei suoi ultimi mesi di vita…).
Saperlo là, indaffarato nel giardino della sua casa di St. Margarets Square, a Cambridge, era una consolazione per molti. Per tutti coloro che si sono sentiti Barrett almeno una volta, nelle giornate lente e noiose di “Dominoes”, nell’alienazione del lavoro di “The Scarecrow”, nell’assurda schizofrenia del “dover essere” (alluso in “Jugband Blues”), nella tragica coscienza di “Dark Globe” che qualcosa era finito per sempre (un’amicizia? l’infanzia? un sentimento intimo…?) o nella felicità insensata e infantile di “Bike”, nell’ebbrezza della scoperta di “The Gnome”, nella disperazione di “Feel”…
Oltre la morbosità del fan, oltre l’accanito, perverso piacere del gossip, saperlo vivo era un antidoto psicologico rassicurante nei confronti dell’insensatezza dell’esistenza che a volte ci assale.
(Relazione per "The City Wakes. A tribute to Syd Barrett", Cambridge ottobre 2008)
INTERVISTA A MALCOLM JONES
E’ il 14 agosto 1984 e c’è un gran sole. Siamo arrivati in Florence Road in ritardo sull’appuntamento fissato qualche giorno prima per telefono. La piccola strada, nascosta tra la quiete e il verde di South Wimbledon, allinea casette tutte uguali affiancate ordinatamente una all’altra secondo il consueto stile britannico. E’ alla porta di una di queste che bussiamo (anche perché il campanello sembra non funzionare,...), aspettando che venga ad aprirci Malcolm Jones.
Alto, magro, sorriso sulle labbra, Malcom (36 anni, celibe) ci accoglie con grande cordialità offrendoci immediatamente del tè e dell’orange juice. Nel suo salotto, a sinistra dell’entrata, c sono vari ripiani di dischi con libri e bobine dappertutto, frutto di vari anni di attività nel pop business. Gli spieghiamo che è nostra intenzione intervistarlo su Syd Barrett, sul rapporto di collaborazione da cui nacque nel 1969 la registrazione di “The Madcap Laughs”.
Puoi raccontarmi brevemente come sei riuscito a portare Syd Barrett in studio per registrare il suo primo album?
“Come ho già raccontato nel mio libro (“The Making of he Madcap Laughs” del , ndr.) a quel tempo avevo un ufficio alla E.M.I., proprio vicino a quello di Norman Smith (produttore dei Pink Floyd) e di Bob Barton, un vecchio produttore della compagnia. C’era anche un ometto che aveva il compito di organizzare l’attività nello studio, era addetto alla prenotazione delle sale e si occupava di tutto il resto...
Un giorno Syd telefonò alla E.M.I. dicendo che aveva intenzione di registrare un disco. Una cosa normalissma! (il tono è ironico, ndr.) Sarebbe come se io e te telefonassimo oggi per chiedere di poter registrare un disco... Naturalmente, la centralinista gli rispose che non avrebbe potuto fare una cosa del genere e per questo motivo lui pensò di rivolgersi a me. Gli dissi che avrei parlato coi responsabile per sistemare le cose. Mi risposero che non era possibile, per la verità, perché credo che quando Syd aveva registrato con Peter Jenner ( 1968, ndr.) aveva danneggiato alcune attrezzature dello studio. Quindi non erano dell’idea che Syd ritornasse in studio dopo un simile precedente.
Così cercai di convincerli che Barrett era un artista molto creativo e che era giusto lasciarlo provare una seconda volta. Dato che mi conoscevano bene e si fidavano di me risposero “D’accordo, si può fare”, a patto che mi sarei trovato un produttore che si occupasse di far funzionare le cose. Credo che Syd avesse già lavorato in studio senza un vero produttore nel ’68 – una cosa incredibile, se ci si pensa, tanto che neanche ai Pink Floyd era stato consentito di fare una cosa simile e gli stessi Beatles, all’inizio, si era dovuti affidare alla produzione di George Martin. Comunque, non c’erano molti produttori n circolazione a quei tempi... Norman Smith, che era stato il primo a lavorare per la E.M.I., sembrava la scelta più ovvia. Aveva già lavorato con Syd in precedenza, aveva prodotto i Pink Floyd, i Pretty Thing e molti singoli. Ma non era interessato alla cosa, non voleva farlo. Credo perché stava già lavorando coi Pink Floyd. Aveva risposto che stava già producendo il gruppo e non aveva intenzione a lavorare con Syd. Beh, si trattava di una specie di questione politica, se si vuole... Anche Peter Jenner non era interessato, non so dire perché. Come ho già ammesso nel mio libro, in quei giorni non pensai di coinvolgere Joe Boyd, un americano, che qualche mese prima aveva prodotto per i Pink Floyd il singolo “Arnold Layne”. Lo conoscevo e ci vedevamo spesso, anche perché lui aveva molte cose ed io ero interessato a ‘fumare’. Non conoscendo bene Syd non sapevo che avrebbe potuto essere il suo produttore ideale. E’ una persona molto diplomatica, gentile, un ottimo professionista. Per farla breve, insomma, non c’erano produttori disponibili...”
E allora?
“Mi pare che in quel periodo Syd abitasse proprio nella stessa piazza in cui abitavo io, in Earl’s Court. Per questo motivo diventammo facilmente buoni amici: non voleva perdere tempo e mi chiese di prenotargli uno studio per registrare il disco perché aveva le idee chiare su quello che intendeva fare. Avevo molta fiducia in lui e dissi ai responsabili della E.M.I. che Barrette era davvero in ottima forma. Fu lo stesso Syd, alla fine, a suggerirmi di produrre il suo disco. Gli risposi che avrei chiesto se si poteva fare. I miei superiori acconsentirono: “Sì, entra in studio e prova. Vediamo cosa succede”. Syd aveva già registrato dei nastri precedentemente con Peter Jenner senza che fosse stato realizzato alcunché. C’erano alcuni pezzi come “Ramadhan”, “Swan Lee”...”.
Syd sapeva già come intitolare il suo disco durante le session di registrazione?
“No, no... Ha tratto il titolo da una strofa di una delle canzoni... Ah, sì, da “Octopus”! E’ solo una strofa della canzone...”.
Chi decise di portare i Soft Machine in studio?
“Syd. Non so come accadde, fatto sta che li conosceva. A quel tempo non erano ancora famosi perché erano musicisti ‘underground’. Syd conosceva dei musicisti che voleva portare in studio ma non mi aveva detto chi fossero. Tanto che quando arrivai in studio loro erano già là ed io riconobbi solo Robert Wyatt. Non mi aveva detto niente. A quel tempo i Soft Machine non erano ancora conosciuti, e il loro primo LP non era mai stato pubblicato in Inghilterra. Era uscito solo in America per la Probe. Cercai di farlo pubblicare per la Harvest ma non ci riuscii perché ci sarebbero voluti un sacco di soldi. Personalmente, comunque, non li conoscevo: in seguito, quando ritrovai il nome di Willie Wilson da qualche parte comincia a capire chi fossero quei musicisti. Anche Jerry Shirley non era nessuno a quel tempo. Solo un anno dopo, quando lessi il suo nome su un altro disco, mi resi conto di chi fosse. Penso che in quel periodo Syd fosse ancora molto amico di Gilmour e che lui lo aiutò in effetti... Syd usò i suoi amplificatori in studio perché abitavano vicino. Si diceva che i Pnk Floyd non avessero più niente a che fare con Barrett, che si ignorassero, ma non era vero perché quando andavo da Syd trovavo sempre Gilmoue e Waters a parlare con lui! Può darsi che fosse stato proprio Gilmour a suggerire a Syd di coinvolgere quei musicisti, oppure qualcun altro tra i Pnk Floyd...”.
Cosa puoi dirmi di “Opel”, il pezzo che consideri il migliore tra gli inediti registrati da Syd?
“E’ una canzone stupenda, molto, molto bella. Vuoi ascoltarla? Non puoi registrarla, però...”.
Perché?
“Qualche tempo fa parlai con un giornalista di David Bowie e gli feci ascoltare alcuni suoi outtakes. Lui li registrò e li passò a qualcun altro che ne fece un bootleg...”.
Come mai non è stato ancora possibile pubblicare un disco con tutti gli inediti di Barrett?
“Beh, li registrai con un Revox, un ottimo registratore, davvero efficiente... Ho già scritto quattro volte alla E.M.I. per chiedere se erano interessati alla realizzazione di questo materiale, ma non mi hanno mai risposto. Gran parte di quei pezzi Barrett li registrò dal vivo in studio, senza sovraincisioni. Penso che la E.M.I. non abbia mai voluto pubblicarle perché sta aspettando il momento migliore. Syd era d’accordo a che venissero pubblicate ed io mi sono dato da fare varie volte per ottenerlo, ma la E.M.I. non mi ha mai degnato di una risposta... Ho detto loro che altri erano interessati a questo progetto, ma alla fine dei conti non è ancora successo niente. Sicuramente “Ramadhan” non ha una qualità tanto buona da poter essere messa su disco ma sono sicuro che ai fan farebbe molto piacere poterla ascoltare! Anche le altre, comunque, non sono di qualità eccellente...”.
Sono esclusivi della E.M.I. i diritti su questi materiali?
“E’ sempre molto difficile spuntarla quando qualcuno deve registrare qualcosa per qualcun altro e non so cosa dica il contratto di Syd a questo proposito. Ho parlato anche con altre case discografiche, tipo la Charly Recordes, che erano davvero interessate a pubblicare le canzoni...”.
Sei stato tu a produrre la canzone d Kevin Ayers “Singing a song in the morning”: è vero che ci suonò anche Syd?
“Sì, è vero. Non l’ho prodotta io, comunque, ma Peter Jenner. In un primo tempo ci suonò anche Syd... Si intitolava “Religious Experience”, per chissà quale motivo. Non aveva altro titolo, insomma. E’ un pezzo molto ripetititvo, il classico 45 giri pop. Ayers si chiedeva se non sarebbe stato meglio intitolarla “Singing a song in the morning”, appunto, la s sarebbe potuto cantarla e ascoltare alla radio. Era un po’ un pasticcio, perché ormai la prima versione era stata registrata. Per questo ritornai in studio e dissi di togliere la parte suonata da Syd: era un’introduzione di chitarra presa da un’altra parte del nastro. Già così era un pezzo sufficientemente commerciale, ed io lo resi ancora di più togliendo la parte di Barrett che per essere onesti era un po’ fuori di testa! Ma da qualche parte ho ancoral’acetato del nastro anche se non riesco a trovarlo. Adesso sarebbe il momento più opportuno per pubblicarlo perché sarebbe molto interessante per i fan poter ascoltare un versione diversa della canzone in cui si trova una assolo inedito di Barrett...”.
Che opinione hai dell’esperienza di Barrett alla luce di tutte le dicerie che si sono continuamente ripetute su di lui (droga, malattia mentale...)?
“Sono sempre stato refrattario a queste cose. L’ultima volta che avevo visto Syd era stato nel 1965 e non l’avevo visto prendere droga. C’era stato sicuramente un periodo in cui l’aveva presa, ma niente di più di tanti che ho conosciuto... Tutto quello che ha a che fare con questo genere di dicerie mi fa letteralmente incazzare... So che è diventato molto grasso, molto molto grasso ed è ormai calvo...”.
Credi che Syd possa tornare a suonare?
“No, caro mio... Non lo vedo da tanto tempo e sento soltanto delle chiacchiere sul suo conto. A seconda di chi parla sento cose diverse... Forse dovresti parlare con Bernard White, a questo proposito... Oppure con i due autori della sua biografia, Watkinson e Anderson, che sono in contatto con la madre...”.
(Wimbledon, Londra, 14 agosto 1984. Intervista raccolta per la fanzine "Octopus", mai pubblicata. Estratti utilizzati per le tre diverse edizioni di "Tatuato sul muro", Gammalibri/Kaos Edizioni 1985-1987-1995)
INTERVISTA A DUGGIE FIELDS
Nello stesso appartamento in cui visse Syd Barrett tra il 1969 e il 1970, al Earl’s Court Mans., ci riceve Duggie Fields, oggi pittore affermato, che con lui abitò per circa un anno. L’occasione del tutto inattesa (chi avrebbe infatti immaginato di ritrovare Fields ancora qui, dopo così tanti anni?), ci offre l’opportunità allettante di parlare con lui delle vicende che l’hanno coinvolto nella vita di Barretyt, soprattutto per poter constatare direttamente l’effettiva rispondenza dei fatti raccontati dai giornalisti francesi di “Actuel”...
“Non sono stati molto corretti, per la verità”, esordisce Fields. “Non lo sono stati proprio”.
Come e quando hai conosciuto Syd?
“Non lo ricordo esattamente... credo nel 1966 o 1967. Era il periodo in cui andavamo allo stesso college. Anche gli altri futuri Pink Floyd frequentavano la stessa scuola e ebi modo di conoscere Syd proprio grazie a loro...”.
Cosa ricordi della vita di Barrett in questa casa?
“Io me ne stavo in questa camera e lui nell’altra. Hai in mente la copertina del suo primo disco...? (Intanto mi fa strada nella stanza attigua in cui visse Syd circa quindici anni fa...). Qui sono state fatte quelle foto con il pavimento dipinto...”.
È molto cambiata adesso questa stanza...
“Beh, sì, ma è sempre la stessa stanza...”.
Lui viveva propriio qui?
“Sì, stava qui, io di là. Eravamo solo io e lui in tutto l’appartamento, lui di qui e d io di là...”.
Qual è l’episodio che ricordi più intensamente oggi di quel periodo?
“Mah... è molto difficile, perché è trascorso molto tempo...”.
Ma come furono i vostri rapporti?
“All’inizio ottimi, alla fine molto sgradevoli”.
Come mai?
“Perché era... perché diventò insopportabile. Era diventato difficile relazionarsi con lui, sia per me che per gli altri...”.
Anche per gli altri Pink Floyd e per David Gilmour?
“Oh, sì, certo, era difficilissimo per tutti... Sai in quali condizioni si trova, adesso?”.
Certo...
“Ecco, stava diventando esattamente com’è adesso... Non aveva un aspetto così sgradevole, come penso abbia oggi, ma la sua mente aveva molte difficoltà a rapportarsi con quella deli altri”.
Tu hai conosciuto molto bene Syd, per quanto per poco periodo: evitando tutti i soliti luoghi comuni, che persona era veramente per te?
“Era quel tipo di persona che avresti detto gentile, aveva molto carisma, un grande senso dell0ironia...Un persona di grande talento, l’unico nel gruppo ad essere veramente ‘speciale’. Tutto questo all’inizio, comunque... perché in seguito diventò una persona senza direttive, che non sapeva cosa fare. Se ne stava a letto tutto il giorno. In pratica, viveva a letto, e non sapeva mai se alzarsi oppure no. Tutto quello che faceva lo interrompeva per cominciare qualcos’altro. Quindi, a conti fatti non combinava niente... Si chiudeva là dentro, nel profondo della sua anima...”.
In quei giorni, quali erano i rapporti fra Syd e la sua famiglia?
“Syd andava a trovare sua madre a Cambridge, ma non so dire quali fossero i loro rapporti dal momento che non ho mai conosciuto la sua famiglia... Non credo che... Beh, posso dire che mentre viveva qui sua madre non venne mai a trovarlo. La sua famiglia viveva a Cambridge, lui abitava qui, a Londra. Per questo, ad un certo punto se ne tornò da loro...”.
“Hai mai visto qualche dipinto o disegno di Barrett?
“Mentre abitava qui, sì. Solo le cose che ha fatto mente viveva qui, perché dipingeva nella sua stanza...”.
Quando se ne andò si portò via tutto?
“Sì, li portò via, anche se non erano ancora finiti. Li iniziava continuamente, ma non li concludeva mai...”.
Ma dipinse molto?
“No... perché aveva molte difficoltà a dipingere...”.
Cosa pensi della sua arte?
“Non finiva mai i suoi quadri, come arte era incompleta. Non aveva un senso perché non era finita...”.
Cosa ricordi della seduta fotografica che si tenne nella sua stanza per la copertina di “The Madcap Laughs”?
“Non ricordo granché, per la verità... Non ricordo chi ci fosse qui quel giorno. C’era sempre un sacco di gente che andava e veniva dalla casa. Sulla copertina dell’album c’è anche una ragazza nuda!”.
Sai chi era?
“Si chiamava Iggy, era un’eschimese. In quei giorni viveva qui, nella stanza vicino a quella di Barrett, perché non sapeva dove andare. Non aveva vestiti,per cui girava in accappatoio e addirittura nuda. Per questo, rimase per due o tre giorni prima di ritornarsene dai suoi genitori”.
Di recente ho incontrato Storm Torgherson, l’amico d’infanzia di Syd, e mi ha detto che molte delle cose scritte a proposito di Syd non sono vere. Qual è l tua opinione in proposito?
“Sì, molte delle cose scritte non sono vere, ma gran parte delle cose successe in questa casa (tipo l’incendio della cucina) lo sono. Davvero...”.
Incredibile però...
“Beh, non molto, se pensi che sono accadute proprio qui”.
Ho letto dell’assurda situazione che si venne a creare durante il periodo in cui Syd stava preparando il suo primo album solo (mandrax, vagabondi per casa, litigi...). Quanto c’è di vero in questo?
“Onestamente non so nulla sul mandrax. E’ stato tutto molto esagerato dalla stampa. In molti mi hanno chiesto quali tipi di droghe abbia assunto Syd, ma non so, non sono in grado di rispondere... Era un periodo particolare, perché lui era famoso e non lo era, in un certo senso, e finiva per esasperare questo contrasto dentro di lui”.
Quando e perché Syd se ne andò da questa casa?
“Io vivevo di qui e lui nell’altra stanza. Aveva una ragazza che viveva nella stanza accanto alla sua. Ad un certo punto lei se ne andò e lui che tre suoi amici venissero ad abitare al suo posto. Questi tizi a loro volta avevano amici con un sacco di gatti e io non gli rivolgevo la parola perché non volevo che restassero qui. Erano troppi per una stanza così piccola! Inoltre per lo stesso Syd erano diventati troppi – non era mai solo – e finì anche lui per non rivolgere loro la parola... Quando la sua ragazza se ne tornò a Cambridge, anche lui decise di ritornare a casa, dove rimase. In un primo tempo mi chiese di mandar via quelle persone perché era intenzionato a ritornare, ma poi, quando quelli finalmente se ne andarono, decise di non ritornare. Ed io ero contento, per la verità, perché in un certo senso non desideravo che ritornasse”.
Perché?
“Ah... è difficile rispondere... Non era sempre una persona ragionevole e... Quando viveva qui non aprima mai le finestre della sua stanza che puzzava tantissimo...”.
L’ho letto nell’articolo di “Actuel”...
“Sì, sì, era proprio vero. Quando volevamo parlare con altri non ce la facevamo, ti rendi conto? Puzzava sempre, non era molto pulito. Quando si era con lui non si poteva dire cosa avrebbe fatto... Era sempre insoddisfatto, molto lunatico. M faceva diventare matto, in un certo senso. Era nevrotico e per un po’ lo diventai anch’io! Forse anche gli altri, non so...”.
L’hai visto di recente?
“No, non mi sembra... Forse l’ho incontrato per strada qualche volta in passato, ma non ricordo...”.
Hai idea di come si sentisse mentre abitava qui?
“No, non so... Penso che abbia cominciato a sentirsi infelice... Eravamo amici, nel senso che dividevamo lo stesso appartamento, ma dato che lui non parlava molto con me, facevo lo stesso con lui. Credo, comunque, che fosse poco felice e ad un certo punto avesse come deciso di “non vivere”. La mia vita era stata molto più semplice ed ero abituato ad affrontare le cose con un’attitudine migliore di quanto facesse lui”.
E i suoi dischi, li hai mai sentiti?
“Certo!”
Che te ne sembra?
“Beh, posso esserne attratto, ma non li ascolto perché non mi interessa come genere di musica. Ha certamente un certo fascino, ma non li ascolto abitualmente anche perché non sono mai stato un fan dei Pink Floyd in particolare. Per essere onesti, non è proprio il mio genere di musica (infatti, proprio mentre parliamo, dalla stanza in cui visse Syd si diffonde musica lirica, ndr.). Ma riconosco che Syd ha qualcosa di speciale”.
Come spieghi tutta la protezione nei suoi confronti da parte di molte persone (i Pink Floyd, Gilmour, Thorgherson...)?
“Syd aveva tutte le qualità per catturare immediatamente l’attenzione e la simpatia di chiunque, perché era una persona molto speciale. E’ difficile rappresentarti in modo efficace tutte le sue qualità, dato che in lui c’era qualcosa di veramente particolare. Alla fine distrusse tutte queste sue qualità al punto da non averne più. Per lui cominciò un periodo davvero bruttissimo”.
Tutti coloro che ho intervistato mi hanno dato opinioni differenti riguardo il carattere di Syd: c’è chi come Malcolm Jones ha sostenuto che fosse molto a posto nel periodo in cui abitò qui con te; chi, invece, che fosse molto incostante e imprevedibile. Che idea ti sei fatto tu?
“Come ti ho già detto, quando l’ho conosciuto non era una persona così complicata come sarebbe diventato in seguito. Ci furono dei cambiamenti definitivi nella sua personalità: inizialmente era molto felice, una persona molto alla mano, sapeva benissimo cosa aspettarsi dalle cose; popi, penso che sia cominciato a cambiare a causa del successo avuto dal gruppo. Diventò un vero schizofrenico, a un certo punto. È quello che penso io, naturalmente, e non ne sono sicuro, comunque... Diventò una persona veramente indifesa. Alcuni l’hanno visto proprio così, indifeso, forse anche perché l’avevano conosciuto nei primi tempi come una persona diversa, che sapeva chiaramente cosa voleva fare”.
Sa se c’è stata una donna importante nella sua vita?
“Ce ne furono per lo meno due: una si chiamava Lindsay Korner, e fu la sua prima ragazza quando suonava col gruppo; l’altra, Gayla Pinion fu invece la ragazza durante il periodo in cui abitò qui, quella con cui se ne tornò a Cambridge...”.
Un’altra domanda: ricordi se Syd suonava la chitarra nella sua stanza?
“Oh, certo! Quando lo faceva, non tutti i giorni, qualche volta veniva a suonarmi le sue nuove canzoni. Ma smise presto di comporne di nuove e smise anche di dipingere, standosene sempre a letto. Avrebbe potuto fare qualsiasi cosa, ma non combinò un bel niente e annullò tutte le sue potenzialità...”.
Qual è la storia corretta della Cadillac Rosa che si dice Syd avesse regalato a un passante?
“È una storia vera. Anche se hanno scritto che si trattava di una Cadillac, in realtà era una Pontiac Convertable, una Pontiac rosa! Gliel’aveva venduta Mikey Finn, poi membro dei T Rex di Marc Bolan, che a quel tempo era solo un mio amico. Syd aveva un po’ di soldi e Mikey voleva liberarsi della Pontiac, così gliela diede. La Pontiac era una gran bella macchina, quando uno era al volante attirava l’attenzione di tutti...”.
(Earl's Court Mans., Londra, luglio 1985. Intervista raccolta per la fanzine "Dark Globe", mai pubblicata: estratti utilizzati per le tre edizioni di "Tatuato sul Muro", Gammalibri/Kaos Edizioni 1985-1987-1995)
APPUNTI PER UNA VIDEOGRAFIA BARRETTIANA
Va premesso che per molti anni non sono circolati video dei PF. Non esisteva ancora Internet con E-mule e You Tube e l’unico supporto esistente era la videocassetta. Il gruppo non ha mai voluto produrne una raccolta ufficiale coi primi clip ed era possibile recuperare qualche video solo tramite il circuito dei fan (Arnold Layne, Scarecrow, Astronomy Domine).
Poi nel 1993 è uscito “Syd Barrett first trip”, un video amatoriale girato su 8mm nel 1966 da un amico di Barrett, Nigel Gordon che aveva ripreso Syd sulle colline vicino a Cambridge in preda, sembra, al suo primo ‘viaggio’. L’anno dopo la prima edizione in videocassetta di “London 1966-1967”, un grande documento.
Dopo l’avvento di E-mule e You Tube è stato possibile la circolazione di tutto l’esistente, quello per lo meno che è stato trasmesso negli anni alla TV.
Dopo l’uscita del video biografico di Edginton (2001) sono stati prodotti altri due video biografici, “Syd Barrett Under Review” (UK 2006, 66’), una ricostruzione biografica non ufficiale (è una collana che ha una certa distribuzione e ha fatto cose interessanti) con commenti critici del giornalista Chris Welch ed interessanti battute di Hugh Hopper sulle session di “Madcap” e nel 2007 “Up close and personal” (UK, 60’), DVD biografico con libretto di 72 pagine allegato. Sempre nel 2007 è uscito “The Piper at the gates of dawn”, un DVD di 76’ sulla genesi del disco con interessanti interviste a Joe Boyd, Norman Smith e John Hopkins.
Da segnalare anche l’edizione in DVD di “Remember a day”, film del 2000 diretto da Darryl Read con la sceneggiatura di Bernard White, ispirato e basato sulla vita di Barrett.
“Arnold Layne” (promo b/n 1967)
E’ girato da P. Whitehead nei pressi della casa al mare della famiglia Mason. King racconta che quel giorno si divertirono tutti come matti e la sera ascoltarono insieme Strawberry Fields Forever dei Beatles che era appena uscito.
Ripresi sulla spiaggia o sul pontile i quattro Floyd si con il manichino di Arnold , celandosi dietro a maschere. L’atmosfera è surreale e gioiosa. Tra cilindri e bombette sembra calata in un climax da anni Trenta. Con “Scarecrow” è il clip più artistico prodotto dai Pink Floyd con Barrett e probabilmente il meglio riuscito in assoluto.
“Scarecrow” (promo a colori del 1967)
Girato da Whitehead, probabilmente nella campagna di Cambridge, vede i quattro Pink vagare nel verde con lo spaventapasseri protagonista della canzone. Sarà proprio Barrett a piantarlo in una palude alla fine del video, prima che Waters e Mason inscenino un’improbabile e insensata sparatoria da cinema muto.
“Astronomy Domine” (dal programma TV “Look at the week”, 14 maggio 1967)
I Floyd qui suonano dal vivo in studio uno dei loro pezzi principali del periodo, quello che apre “The Piper”. Introduce l’esibizione il critico Hans Keller che con visibile sufficienza spiega algli spettatori che a suo modo di vedere i PF suonano
- musica noiosa in quanto ripetitiva
- assordante
- ammette di avere tali competenze musicali da non essere in grado di capire cosa vogliono fare
- e che comunque potrebbe sbagliare nel giudicarli, dal momento che hanno un pubblico che li segue e li apprezza
Dopo l’esibizione (6 minuti circa), segue una breve intervista di Keller a Waters e Barrett che sembra molto intimidito dall’arroganza di Keller il quale insiste sul tema della musica assordante chiedendone motivo e facendo un improbabile parallelismo con la musica da quartetto d’archi (Barrett guarda Waters con un sorriso malizioso).
L’integrale è indubbiamente un ottimo documento sull’ostracismo dell’establishment alla musica dei primi PF.
“Apples and oranges” (dal programma TV “American Bandstand” novembre 1967)
Documenta efficacemente i sintomi evidenti della degenerazione all’interno del gruppo. Qui, in tournee in America, i PF sono costretti a mimare i successi del periodo, soprattutto “See Emily Play”. Come risulta evidente sin dalle prime inquadrature, Barrett non ha molta intenzione di collaborare. Ha uno sguardo assente, gli occhi sono spenti. Il cameraman è costretto a riprendere gli altri, che si sforzano di sembrare rilassati e allegri.
“Jugband Blues” (promo clip del novembre 1967 a colori, trasmesso dalla TV canadese CBC)
Sembrava che il pezzo dovesse uscire come singolo, i PF poi scelsero “Apples”. Sin dalla prima inquadratura, Barrett ha l’espressione stranita. Pur cantando tutto il brano è evidente che qualcosa non va. Waters e Wright suonano i fiati per simulare l’inserto bandistico. Interessante l’ultima inquadratura, in cui Barrett finendo di cantare si volta verso gli altri con un’espressione davvero inquietante.
“The Syd Barrett Story” (2DVD – regia di John Edginton UK 2001)
E’ una ricostruzione biografica a impianto cronologico con immagini di repertorio, per lo più già edite e comunque in circolazione, intervallate da interviste ad alcuni protagonisti della vicenda (I Quattro Floyd, Bob Klose, Duggie Field, Peter Jenner, Joe Boyd, Mike Leonard tra gli altri).
Sotto il profilo tecnico, il DVD non è molto stimolante, risulta statico in palese mancanza di materiale (solo un estratto del clip di “Arnold Layne”, ad esempio). I sottotitoli in italiano sono un’infamia (Syd the beat, viene sottotitolato Syd the beast!!!).
E’ una ricostruzione tutto sommato sbrigativa, superficiale e, quel che è peggio, che la tesi portante del racconto è la solita: Barrett è impazzito a causa della droga. Il racconto si conclude quando in realtà avrebbe potuto diventare più stimolante, raccontanto degli ultimi 30 anni di isolamento…
L’unico a proporre un’idea alternativa è Jerry Shirley che sostiene in sostanza che Barrett non è che fosse così pazzo. Forse li stava prendendo in giro tutti…
Curiosa l’intervista integrale a Waters, tra i materiali aggiunti del primo disco (della prima edizione): ne esce il ritratto di un grande amico turbato dalla vicenda (a tratti Waters sembra commuoversi) che deve molto al genio di Syd. Cosa contraddetta più volte negli anni, ultima un’intervista su Mojo del febbraio 2008.
“Pink Floyd London 1966/67” (DVD 2005 a colori 60’ – regia di P. Whitehead)
Whitehead ci regala il contributo migliore sui PF con SBarrett. E’ un documento fondamentale per capire quale fosse l’atmosfera degli inizi e quali fossero le dinamiche interne al gruppo, le stesse modalità creative.
Documenta la seduta dell’11 gennaio 1967 ai Sound Techniques Studios di Londra, produzione Joe Boyd. Il primo di due giorni in cui saranno registrati Arnold Layne e Candy & a Currant Bun.
(Presentazione della serata video dedicata a Syd Barrett nell'ambito del "Biografilm Festival" di Bologna, 11-15 giugno 2008)
SYD BARRETT E LA SEDIA DI JOHN LENNON. Strane concomitanze di un rapporto a distanza…
Inedita per anni in italiano, una delle più belle e significative interviste di ‘popular music’ è stata finalmente pubblicata dalla White Star lo scorso anno in versione integrale. Nelle scorse settimane, una versione adattata del libro è uscita anche nelle edicole come allegato all’edizione italiana del mensile “Rolling Stones”. Con il titolo “John Lennon ricorda”, il volume raccoglie l’intervista integrale che l’editore della rivista, Jann S. Wenner, fece a John Lennon e Yoko Ono l’8 dicembre 1970, intervista pubblicata in due parti da “Rolling Stones” il 29 gennaio e il 4 febbraio 1971.
Nelle 169 pagine del volume, probabilmente il Lennon più autentico: diretto, profondo e caustico, irriverente e cinico, emozionato e cialtrone come solo il musicista ha saputo essere. Senza infingimenti nelle sue parole, Lennon è qui nudo e crudo agli occhi dell’intervistatore come è capitato solo rare volte di leggere. (1)
Convinto dopo mesi di corteggiamenti a distanza, Lennon si prestò all’intervista proprio quando ormai l’epopea con i Beatles stava volgendo al termine ed era da poco uscito il suo primo album solo “John Lennon/Plastic Ono Band” per la Apple, probabilmente il più riuscito della sua carriera.
Anche per questo, a caldo, la vicenda della separazione dal gruppo è guardata con acrimonioso distacco, rivelando quella che sarebbe diventata un’evidenza per la critica rock solo anni dopo (2): in quei giorni i Fab Four erano ormai quattro adulti disinteressati a continuare ad alimentare un mito adolescenziale ad uso e consumo dell’establishment discografico ed erano determinati ad affermare per la prima volta le loro diverse personalità artistiche e umane (soprattutto Lennon, McCartney e Harrison).
Avevamo letto l’intervista molti anni fa e, com’è ovvio, ne avevamo soltanto un vago ricordo. Rileggendola in questi giorni, è emersa improvvisamente dalle risposte dense di Lennon un’affermazione che ha assunto – inaspettatamente, almeno per noi - un significato particolare, riaccendendo una serie di vecchie, suggestive supposizioni.
A proposito della sua rinnovata passione per il blues e il rock’n’roll (che lo porterà qualche anno dopo a realizzare l’ottimo “Rock’n’Roll”, con tributi ai suoi miti giovanili…), Lennon afferma: “Il blues è migliore. (…) Non è alterato né meditato: non è un concetto. È una sedia, non un progetto per una sedia o per una sedia migliore o più grande o per una sedia di pelle o sofisticata. È il modello base di una sedia, sono sedie per sedercisi sopra, non sedie da osservare o giudicare. Tu ti ‘siedi’ su quella musica”. (3)
L’idea di una forma espressiva concreta, diretta, autentica, senza fronzoli che si ritrova compiuta in “John Lennon/Plastic Ono Band”, appunto, e in gran parte proprio in “Rock’n’Roll”.
Ma come non tornare alla apparentemente curiosa affermazione di Syd Barrett secondo cui alla domanda “Il pop è una forma d’arte?” aveva risposto: “Proprio come starsene qui seduti”?
Barrett rispose così a un perplesso Steve Turner, giornalista di “Beat Instrumental”, nel marzo 1971, durante una faticosa intervista in cui il musicista che era stato il band leader indiscusso dei Pink Floyd cercava affannosamente di convincere sé stesso, prima degli altri, che sarebbe tornato presto sulle scene con un nuovo album e, addirittura, alcuni concerti.
Un rapporto (di fascinazione) a distanza…
È plausibile che Barrett avesse letto in quei giorni l’intervista di Lennon, da sempre uno dei suoi riferimenti, secondo quanto hanno testimoniato a più riprese musicisti, manager e conoscenti dell’epoca.
Il quasi concomitante taglio corto dei capelli (ha ricordato Turner: “Syd sui presentò con una giacca di satin rosso, i capelli tagliati di fresco e un paio di stivali di coccodrillo”), d’altronde, confermerebbe più di una supposizione, al di là della debole giustificazione di Barrett: “Cambridge è un posto in cui ci si deve adattare – l’ho trovato difficile. È stato un po’ insolito tornarci, perché è la casa in cui sono cresciuto, ed è un po’ noioso, per cui mi sono tagliato i capelli”. (4)
Roger Waters: “Quando “See Emily Play” si rivelò un successo (salì al terzo posto in classifica), partecipammo a “Top of The Pops”, e la terza settimana lui non voleva saperne. Si presentò in uno stato incredibile e disse che non sarebbe apparso in TV. Alla fine scoprimmo che il motivo era che John Lennon si era rifiutato di farlo…”
Lo stesso Peter Barnes ha raccontato che “Syd si lamentava sempre che John Lennon avesse una casa mentre lui soltanto un appartamento”.
I riferimenti pubblici di Barrett ai Beatles hanno solo un precedente documentato nel corso di una stizzita dichiarazione alla stampa del novembre 1967, poco dopo l’uscita nei negozi del terzo singolo dei Pink Floyd, “Apples and oranges”, rivelatosi un flop commerciale: “Non me ne frega proprio niente… Tutto quello che possiamo fare è registrare i dischi che ci piacciono. Se ai ragazzi non piace, che evitino di comprarlo. Ai ragazzi piacciono i Beatles e Mick Jagger non tanto per la musica che suonano, quanto per il fatto che loro fanno sempre solo quello che vogliono, fregandosene del resto. I ragazzi lo sanno”. (5)
Per il resto, è storia acquisita che l’unico contatto diretto fra i Pink Floyd e i Beatles si fosse consumato ‘formalmente’ durante le session di registrazione di “Piper at the Gates of Dawn” (marzo-giugno 1967) negli studi della EMI ad Abbey Road – i Floyd nello studio 3, i Beatles nello studio 2. (6)
Il 21 marzo, mentre i Pink Floyd stanno registrando (dalle 14.30 alle 19.30 e dalle 20.30 all’1.00) “Pow R. Toc. H”, i Beatles lavorano nello studio vicino a "Getting Better" e "Lovely Rita" (dalle 19.00 alle 2.45).
Quella sera, intorno alle ore 17.30, grazie a Barry Miles (che era amico di McCartney) i Beatles andarono a trovare i quattro Pink Floyd. Racconta Barry Miles: “Stavo assistendo alla session dei Beatles e incontrai uno dell’entourage dei Floyd che mi disse che erano lì anche loro. Dato che in precedenza ero stato io a portare Paul McCartney a vedere il gruppo all’UFO, a quel punto gli suggerii di interrompere il lavoro e di andare a salutare i colleghi che stavano lavorando negli studi EMI. Paul Ringo e George e andammo tutti allo studio 3”. (7)
Circostanza confermata dallo stesso Waters: “Verso le cinque e mezzo del pomeriggio Ringo, Paul e George vennero nel nostro studio e rimanemmo inchiodati sul posto, eccitati dalla cosa” (8), e dal produttore Peter Jenner, anch’egli presente alle registrazioni. (9)
Lennon, comunque, proprio in quelle ore si trovava in condizioni pessime a causa di un acido andato male. Lewisohn: “Dopo aver lavorato alle voci per “Gettino Better” un paio di volte, John disse che si sentiva male. Gorge Martin – che non aveva capito la ragione del malore, ma sapeva che lo studio era, come sempre, circondato dagli ammiratori dei Beatles – portò il malconcio John sul tetto dello studio 2 per fargli prendere un po’ di aria fresca; lo lasciò lì e ridiscese in studio. Poco dopo Paul lo chiamò in sala di controllo: “Come sta John?”. “È sul tetto a guardare le stelle” rispose Martin. Paul ci scherzò sopra: “Vuoi dire Vince Hill?” riferendosi all’allora famoso cantante, quindi iniziando, insieme a George Harrison, una versione di “Edelweiss”, il successo del momento di Hill. Ma le parole di Martin colpirono immediatamente i Beatles come una frustrata. I due sapevano benissimo qual era il motivo del malessere di John: si trovava nel bel mezzo di un viaggio con l’LSD. Ed era stato lasciato solo sul tetto dello studio 2, che non aveva ringhiere o barriere di alcun genere, ma soltanto un salto di oltre dieci metri verso il suolo. Fu velocemente ricondotto in studio prima che si ammazzasse”. (10)
Interessanti le riflessioni relative alla vicenda raccolte da John Cavanagh:
Peter Jenner: “Avevano l’asoluto controllo delle loro session e questo ci impressionò. Erano loro a prendere ogni decisione.”. Mason: “I Beatles ci aiutarono molto. (…) So di gruppi che non hanno mai avuto la possibilità di mettere le mani sui tasti di registrazione. Sono tenuti alla larga dalla consolle del missaggio, mentre noi eravamo coinvolti sin dal principio; sotto questo aspetto, Norman fu davvero brillante, perché ci lasciò fare…”. (11)
Un altro possibile incontro tra Barrett e Lennon potrebbe essere avvenuto il 20 giugno 1968, ancora ad Abbey Road. Dopo l’uscita dal gruppo che aveva guidato al successo, Barrett stava lavorando al suo primo album solista nello studio 3 della E.M.I. sotto la produzione di Peter Jenner.
Quella sera (la session era prenotata dalle 19.00 alle 22.30) Syd stava registrando
"Swan Lee", "Late Night" e "Golden Hair" proprio mentre nel vicino studio 2 – dalle 19.00 alle 3.30 – i Beatles erano alle prese con "Revolution 9" per il loro Album Bianco.
È suggestivo immaginare, considerate le circostanze, che quella notte i due potessero essersi per lo meno incrociati…
La ‘leggenda’ di “What’s the new Mary Jane”
Ad avvalorare l’incontro fra i due geni del Rock, tra le leggende circolate negli anni è rinomata quella che ha riguardato un possibile coinvolgimento di Barrett alla session di registrazione di “What’s the new Mary Jane”, inedito di John Lennon registrato con Yoko Ono e George Harrison l’8 agosto 1968. (12) E’ risaputo che anche i Beatles, secondo un costume dell’epoca, fossero propensi a coinvolgere collaboratori occasionali nelle registrazioni dei loro pezzi (ad esempio, Brian Jones in "You Know My Name" e Eric Clapton in "While My Guitar Gently Weeps…) e, in quell’occasione, è certo che venne coinvolto anche Mal Evans, accompagnatore del gruppo.
Racconta Lewisohn, infatti, che “John Lennon e Gorge Harrison, il collega a lui più fedele, furono i due soli Beatles che suonarono in “What’s the new Mary Jane”, e John fu l’unico a cantare. Ma anche Yoko e Mal Evans – a giudicare dal nastro originale della seduta – partecipavano al divertimento.. (…) In tutti i nastri John cantava e suonava il piano, con George alla chitarra. (…) Tra le altre stranezze: alla fine dei nastri 2 e 4 qualcuno agitava vigorosamente una campana e qualcun altro martellava uno xilofono. Nel corso del nastro 4 qualcuno accartocciò deliberatamente della carta davanti a un microfono. E frattanto, tutti i presenti saltellavano in giro e ridevano in modo piuttosto isterico” (13).
L’ascolto del brano, una vera bizzarrìa acida in stile lennoniano, non rivela naturalmente molto di più (edito su numerosi bootleg, lo si può ascoltare su YouTube a www.youtube.com/watch?v=ixKCfJhW_x8 ).
Resta la suggestione di credere che quella sera fosse lì anche Barrett.
(20 luglio 2009, dal sito defunto de La Dea Bicefala, https://www.lucaferrari.net )
Note:
(1) Come ad esempio in “Testamento” (Gammalibri, Milano 1980), traduzione italiana dell’intervista pubblicata ancora da “Rolling Stones”;
(2) cfr. il recente “Let It Be” di John Perry (NoReply, Milano 2008);
(3) J. S. Wenner, “John Lennon ricorda” (Edizioni White Star, 2009, pag.88). Nell’originale: “The Blues are beautiful because it's simpler and because it's real. It's not perverted or thought about: It's not a concept, it is a chair; not a design for a chair but the first chair. The chair is for sitting on, not for looking at or being appreciated. You sit on that music”;
(4) intervista di S. Turner in “Beat Instrumental”, aprile 1971;
(5) in originale: “Couldn't care less. All we can do is make records which we like. If the kids don't, then they won't buy it. The kids dig the Beatles and Mick Jagger not so much because of their music, but because they always do what they want to do and to hell with everyone else. The kids know this”.
(6) cfr. Parker in “Random Precision. Recording the music of Syd Barrett 1965-1974” (Cherry Red Books, London 2001) e “Mark Lewisohn, “Otto anni ad Abbey Road” (Arcana, Milano 1990);
(7) Barry Miles, “Pink Floyd. The early years” (Omnibus Books Ltd., London 2006, pag. 96). Diversa la ricostruzione di Lewisohn (cit. pag. 222) che, invece, si limita a riportare: “Verso le undici, Smith portò il suo giovane gruppo a incontrare timidamente i Beatles e a scambiare con i più celebri colleghi quello che Hunter Davis definisce ‘saluti semicordiali’”.
Al di là delle difformità dei ricordi e dei presenti (secondo Lewisohn Ringo Starr non era presente alla session), è un fatto che i due gruppi si incontrarono brevemente;
(8) B. Miles, cit. pag. 96;
(9) cfr. L. Ferrari a pag. di 49 “Tatuato sul Muro” (Kaos Edizioni, Milano 1995);
(10) M. Lewisohn, cit. pag. 221;
(11) J. Cavanagh, “The Piper at the Gates of Dawn” (NoReply, Milano 2008) pagg. 63-64;
(12) cfr. la nota del booklet allegato al terzo volume di “Antholoy” (2CD – EMI 1996). Dei quattro registrati(compresa una falsa partenza), il take pubblicato è il quarto, di 6’35”. Informazioni dettagliate anche a https://www.beatlesbible.com/songs/whats-the-new-mary-jane/ e https://en.wikipedia.org/wiki/What%27s_the_New_Mary_Jane. Il pezzo verrà ripreso in due altre sedute successive (11 settembre e 26 novembre 1967, con diversi rimissaggi e nuove sovraincisioni di Lennon e Yoko Ono).
(13) M. Lewisohn, cit. pag. 321.
SYD BARRETT (A Fish out of Water) – Luca Ferrari Interview
Luca Ferrari, auto-proclamé “Speleologue Rock”, nous a profondément ému avec son ouvrage (CD + book) consacré à Syd Barrett. Nous avons voulu en svoir un peu plus, afin de tenter de cerner le personnage énigmatique, mais aussi, pourquois pas, ramener des « bones nouvelles des étoiles ».
Q. En quelques mots, qu’est-il arrivé à Syd Barrett depuis sa disparition du music-business ?
R. Au sujet de la disparition de Syd, tout les anecdotes concernant cet épisode, sont contenues dans la biographie par Watkinson et Anderson… Le plus important, à mon avis, est qu’il ait tenté d’oublier son passé en changeant son identité, en devenant quelqu’un d’autre, sans savoir quelle direction emprunter… Chacune de ses tentatives était dirigée dans ce butchasser de sa mémoire toute chose ayant un quelconque rapport avec les Pink Floyd. Au début des années 70, il a tenté également de changer d’activité, de revenir à la peinture, mais sa confusion intérieure (due à divers facteurs tels le mandrax, la solitude, la perte d’une partie de sa creativité, des problèmes psychologiques datant de son enfance…) etait trop fort pour que le pouvoir de sa vononté puisse prendre le dessus et, à cause de tout cela il n’est jamais devenu un vrai musicien ou un vrai peintre. Un véritable etre humain. Quelques personnes (bien peu nombreuses…) ont essayé de l’aider, mais il a préféré rester seul, vivant modestament dans un hotel ou chez sa mère.
Sa dernière tentative de formation d’un groupe musical (Stars, en 1972) fut une autre expérience d’incompréhension car les autres membres du groupe croyaient avoir affaire à un vrai musicien, mais les réalitiés étaient toutes autres…
Q. Syd Barrett est-il médicalement capable de revenir parmi nous ?
R. Non, Barrett continuera à vivre comme toujours à Cambridge, de facon extremement anonyme., sans aucune intention de revenir jouer de la musique.
Q. J’ai entendu dire qu’il se consacrait à la peinture. Comment prendre contact avec lui ou un membre de sa famille, pour éventuellement exposer ses œuvres ?
R. Au sujet des peintures: comme nous avons essayé de la montrer dans « A Fish out of Water », ces dix dernières années, Barrett s’était véritable impliqué dans la peinture. Cette ancienne passion était devenue une véritable obsession: il peignait tout le temps, 15 heures par jour. Il avait réalisé un énorme catalogue de ses peintures qu’il a détruit de ses propres mains. Durant les entrevues avec Rosemary, sa sœur, nous lui avons demandé s’il lui semblait possible d’organiser une exposition de ses peintures. Elle a répondu que cette idée serait très difficile à comprendre pour lui. « Quel sens cela aurait-il ? ». Peut-etre que l’argent pourrait créer une motivation chez lui, et encore… Le problème est qu’il n’est pas capable d’assumer tous les aspects de la chose et que sa sœur n’est pas intéressée ( !). De plus, nous avons recu de mauvaises nouvelles concernant son état de santé et je ne sais pas de quoi demain sera fait.
Q. Pouvez-vous nous parler de la « lumière intérieure » qui semble guider votre démarche ? Quels sont les artistes autres que Barrett à avoir éveillé votre inspiration ?
R. La « lumiére intérieure » qui m’a inspiré a été créé basiquement par l’intérét que j’ai porté sur des personnages tels que Nick Drake, Captain Beefheart, Syd Barrett, Thirs Ear Band (qui est le sujet de mon dernier livre) et d’autres comme Phil Ochs, Tim Buckley, David Ackles, Scott Walker, Rocky Erickson, John Lennon, Julian Cope, XTC, etc….
Un mélange de raisons politiques (relations avec le marché du disque, la Rock culture, les valeurs politiques…)et de raisons psychologiques ont motivé ma démarche.
Ma première question a été : « pourquoi ont ils echoue ? ». A cause de cela, pourquoi aurais-je du écrire un livre sur Bruce Springsteen ou sur U 2, les gagnants ? Cà n’aurait aucun intérêt… Ecrire sur Barrett ou Nick Drake est une occasion de pénétrer à l’intérieur du monde du Rock d’une facon differente : étudier les difficultés des relations entre les artistes et la logique du système de production. Ici, la vie (émotions, sensibilités, valeurs, idées…) est considérée comme étant de bien plus grande importance que les attentes du monde extérieur les concernant…
Q. Des nouvelles de Syd, depuis la sortie de « A Fish out of Water » ?
R. Nous gardons contact avec Rosemary juste pour savoir s’il va bien. Les dernières nouvelles sont mauvaises. En février 1997, il était soigné dans un hopital de Cambridge avec de sérieux problèmes de diabète. Il serait en train de devenir aveugle… Ce qui serait un bien triste paradoxe…
(Dalla rivista francese "Neu" n. 2, luglio 1997)
Pink Floyd – “The Piper at the Gates of Dawn” (3CD – EMI Records 50999-503919-2-9, EU 2007)
Per il quarantesimo della sua pubblicazione (agosto 1967) la E.M.I. ripropone in una splendida edizione de-luxe il capolavoro di Syd Barrett registrato con i Pink Floyd. Lo fa offrendo agli appassionati una confezione con ben tre CD che, dopo le numerose pubblicazioni circolate negli ultimi vent’anni, ha il pregio di imporsi come l’edizione definitiva del disco.
Due dei tre CD, infatti, ripresentano rispettivamente le edizioni originali esistenti (quella mono, editata in CD nel 1997 in limited edition, e quella stereo, in CD già dal 1986, rimasterizzata nel 1994), mentre il terzo, oltre a raccogliere tutti i singoli del 1967 (già editi in CD nel ’97), estrae quattro brani rari dagli archivi, di cui tre in versioni completamente inedite.
E se lo splendido packaging a cura dello StormStudios (Storm Torgherson, già fondatore della Hipgnosis che ha curato quasi tutta la produzione dei Pink Floyd) fa giustizia delle precedenti discutibili edizioni pubblicate (da quelle spartane degli albori del CD a quelle più elaborate, ma di dubbio gusto delle più recenti), proponendo un equilibrato mix di foto dell’epoca (per lo più inedite) e grafica psichedelica, sono gli ultimi quattro brani rari ad impreziosire l’ascolto, offrendo ulteriori indizi del pregevole lavoro in studio del quartetto.
“Interstellar Overdrive” (French edit) – take 2, è la versione abbreviata (solo 5.05) già pubblicata nel 1967 su EP solo in Francia (il rarissimo ESRF 1857 M) e circolata tra i fan anche grazie ad alcuni bootleg (il primo su cui venne pubblicata fu il raro picture disc “Unforgotten Hero”, edito nel 1976): vicina più alla versione in studio documentata dal cortometraggio “Tonite let’s all make love in London” (quella di 16.46 minuti edita nel 1990 dalla See For Miles) e meno alle poche esistenti registrate dal vivo, è un pezzo aggressivo, dal forte impatto ritmico, elettronico: conciso, essenziale, controllato, vede in evidenzia il lavoro di chitarra di Barrett e il preciso supporto del basso di Waters.
In mancanza di note (un limite evidente del disco), è difficile risalire con precisione alla data di registrazione del pezzo. Secondo la fonte probabilmente più autorevole - “Random Precision” di David Parker (Cherry Red Books, 2001) - il ‘recording sheet’ della EMI presenta cancellature e correzioni tali da rendere impossibile una chiara datazione (cfr. riproduzione allegata). È comunque probabile che la registrazione sia stata fatta ad Abbey Road nel corso della seduta del 22 marzo 1967 (“The Scarecrow” fu l’altro pezzo registrato), considerato che l’EP venne pubblicato in Francia il mese dopo (11 aprile). Il take 2 era stato registrato il 27 febbraio precedente in una versione di 10 minuti e venti e in seguito ridotta, appunto, per esigenze commerciali.
Decisamente diversa l’altra versione proposta del brano, anch’essa di soli 5 minuti. Secondo la nota si tratterebbe del take n. 6 che a quanto documenta David Parker venne registrato nel corso della session del 16 marzo 1967, occasione nella quale i Pink Floyd tentarono, con risultati insoddisfacenti, di registrare una versione ‘corta’ per un eventuale utilizzo commerciale (EP francese, inserti TV…): quattro prove (i take n. 3, 4, 5 e 6), di cui il quarto una falsa partenza.
Quella sul disco ha un inizio curioso, giocato sull’eco della chitarra di Barrett che riprende l’accordo iniziale due volte.
Interessante anche il missaggio stereo di “Apples and Oranges”, originariamente edita in mono (17 novembre 1967), che differisce da quest’ultima
Il pezzo era stato registrato nelle sedute del 26 e 27 ottobre (il 27 con ben dodici ore ininterrotte di lavoro!), mentre il remissaggio stereo il successivo 14 novembre, forse con l’idea di inserirlo nell’album seguente.
Il take inedito di “Matilda Mother”, invece, risale quasi certamente alla session del 21 febbraio 1967, in cui il gruppo registrò ben cinque take complete (più una falsa partenza). La peculiarità della canzone, la prima registrata dal gruppo per “The Piper at the Gates of Dawn”, è che il testo nella prima versione era mutuato quasi alla lettera dalla poesia di Hilarie Belloc avente come protagonista un ragazzo...
Solo in seguito Barrett compose un nuovo testo registrato nel successivo take (il settimo) che finì sul disco. Interessante notare che sin dall’inizio “Matilda Mother” aveva una costruzione melodica e armonica definita: solo il finale, dopo tre minuti circa, diversamente dalla versione pubblicata, presenta l’andamento in tre tempi di una giostrina con un effetto meno trasognante e più sinistro.
Dal momento che questa lussuosa edizione raccoglie anche tutti i singoli registrati con Barrett, sarebbe stata buona cosa che la EMI si decidesse a pubblicare finalmente anche i due brani più inquietanti della produzione di Barrett coi Pink Floyd – “Vegetable Man” (due take differenti) e “Scream Thy Last screma” (take 3 e 4) – e i due acetati registrati nella primavera del ‘65 nella formazione a cinque con Bob Klose – “Lucy Leave” e “King Bee”, ancora in circolazione su bootleg.
Tra gli altri interessanti inediti del periodo, la versione di “Interstellar Ovedrive” utilizzata per il cortometraggio “San Francisco” edito dalla Judex Films nel 1966 (il pezzo era stato registrato il 31 ottobre di quell’anno) e i numerosi take alternativi dei brani di “The Piper”, elencati minuziosamente da David Parker nel suo indispensabile libro del 2001 (alle pagine 252 e 253), e ancora presenti negli archivi della EMI. Tra questi:
¯“Arnold Layne” (otto take)
¯ “Candy and a Currant Ban” (due take)
¯ “Matilda Mother” (tre take)
¯ “Interstellar Overdrive”
¯ “Charter 24”
¯ “Jugband Blues” (due take)
¯ “In the Beechwoods” (take 3, 4 e 5)
¯ “John Latham”
● I BRANI DEI CD
CD 1 – “The Piper at the Gates of Dawn” (mono)
CD 2 – “The Piper at the Gates of Dawn” (stereo)
“Astronomy Domine” – “Lucifer Sam” – “Matilda Mother” – “Flaming” – “Pow R. Toc H.” – “Take up thy Stethoscope and Walk” – “Interstellar Overdrive” – “The Gnome” – “Chapter 24” – “The Scarecrow” – “Bike”
CD 3
“Arnold Layne” – “Candy and a Currant Bun” – “See Emily Play” – “Apples and Oranges” –“Paintbox” – “Interstellar Overdrive” (French edit) – “Apples and Oranges” (stereo version) – “Matilda Mother” (alternative version) – “Interstellar Overdrive” (take 6)
● LE EDIZIONI DELL’ALBUM
In vinile:
¯ Columbia SC 6157, mono (UK 1967)
¯ Columbia SCX 6157, stereo (UK 1967)
¯ Tower ST 5093, (USA 1967)
¯ Harvest 3C 062-04292, stereo (Italia 1971)
¯ Fame Records FA 3065, stereo (UK 1983)
¯ EMI , stereo (Brasile 1985) picture disc
(Dal sito defunto de La Dea Bicefala - https://www.lucaferrari.net)
LA DELUSIONE DI "THE CITY WAKES": CAMBRIDGE NON SI E' "SVEGLIATA" AL SUONO DEL PIFFERAIO… (Un resoconto sulle mostre dedicate a Syd Barrett)
Confesso di essere partito per Cambridge con l’idea che nella città natale di Barrett le celebrazioni sarebbero state totalizzanti, come si conviene al riconoscimento di una figura di rilievo da parte di una comunità. Il programma, d’altronde, per lo meno quello diffuso dal sito ufficiale della manifestazione (https://www.thecitywakes.org.uk) non lasciava molti dubbi in proposito: pensavo quindi che sarebbe stata un’esperienza memorabile.
In realtà, arrivato a Cambridge, mi sono subito reso conto che le cose sarebbero andate diversamente.
Anzitutto, la città – bellissima! – sembrava completamente ignara dell’evento. Non una locandina in circolazione, d’altronde, non un cartellone o uno striscione per le strade. Nulla o quasi. Il tassista con cui avevo scambiato qualche parola mi aveva chiesto chi fosse Syd Barrett, ignorando quando stava accadendo in città; così l’albergatore, incuriosito dal fatto che fossi venuto dall’Italia per partecipare proprio a un simile evento…
“Mind over Matter” (9 ottobre-10 novembre 2008): una mostra-civetta per vendere riproduzioni e libri di Torgherson…
Quanto alla mostra allestita alla Grand Arcade, poi, esposizione delle opere foto/grafiche di STORM TORGHERSON e dell’Hipgnosis, spazio (un ipermercato!), allestimento, contenuti (poche sparute note, didascalie sintetiche) inducevano solo a una scorsa rapida, quindici minuti a far tanto: tutto già visto, freddo, allestito in fretta e superficialmente al solo scopo di vendere qualche riproduzione in tiratura limitata e qualche copia del libro-catalogo…
“The Other Room”: la prima retrospettiva ufficiale dell’opera pittorica di Syd Barrett (24 ottobre-2 novembre 2008)
“(…) I know a room of musical tunes
Some rhyme, some ching. Most of them are clockwork.
Let’s go into the other room and make them work!”
(Syd Barrett, “Bike” – 1967)
Di tutto il programma del “City Wakes”, l’evento, almeno per me, restava comunque la prima mostra ufficiale delle opere di Barrett – “The Other Room: Syd Barrett’s Art And Life” – allestita alla Anglia Ruskin University, in East Road. Anche in questo caso, però, nessuna indicazione per la strada, nessun manifesto o avviso all’esterno. La mostra era allestita nella Ruskin Gallery, una sala prospiciente le aule scolastiche, di passaggio, disadorna: presentata da un catalogo minimale e modesto, proponeva una trentina di opere soltanto, alcune oltre tutto già conosciute (cfr. a lato le riproduzioni).
L’analisi del curatore della mostra, STEPHEN PYLE, amico di Barrett, di una pochezza imbarazzante, risibile se comparata a quella che Annie Marie Roulin aveva scritto per “A Fish Out of Water” (“The case of Roger Keith ‘Syd’ Barrett”, pagg. 61-100), l’unica in volume ad oggi disponibile :
“Ho conosciuto Barrett nelle classi di Arte del sabato mattina quando avevamo 16 anni. Diventammo amici immediatamente: avevamo un approccio molto simile all’arte e condividevamo l’amore per il jazz e il rock’n’roll. Quando entrammo in un corso d’arte al Cambridge College of Arts and Technology la nostra amicizia continuò. Restammo amici nei due anni del college, suonando rock e blues nello stesso gruppo, i Those Without.
Ricordo Syd come una persona totalmente creativa, che aveva un approccio assolutamente libero alla vita e a tutto quello che faceva. Suonava la chitarra e cantava (sebbene fosse abbastanza riluttante a farlo - infatti non si considerò mai un cantante) e i suoi disegni e le pitture erano migliori di quelli di gran parte dei suoi contemporanei. Frequentò il corso al CCAT assolutamente senza sforzo, ottenendo un posto alla Camberwell School of Art di Londra. Tutti pensavano che fosse un pittore di talento.
I disegni e i dipinti di Syd riflettevano il suo approccio alla vita, quasi totalmente senza vincoli. Erano molto colorati, un’espressione autentica della sua creatività: Syd dipingeva per sé stesso e non gli andava di modificare il suo lavoro per assecondare i consigli, le opinioni o le indicazioni degli altri. Per quello che ricordo, il suo interesse era concentrato sugli Espressionisti e i Surrealisti, i suoi artisti preferiti erano Dali, Ensor e Soutine.
Essendo stato un amico intimo di Syd e un ammiratore della sua arte sin dall’inizio, mi ha fatto piacere essere invitato a curare questa mostra. Spero che vi piaccia.”
Decisamente più interessante la paginetta curata dalla collaboratrice di Pyle, ANJI JACKSON-MAIN:
“Il genio di Syd Barrett quale musicista e compositore di testi è naturalmente diventato leggenda. Tuttavia, presentando questa mostra, in qualsiasi discussione sull’arte di Barrett è importante prendere le distanze dalle trappole di una biografia così tanto avvolta nel mistero e nel fraintendimento.
Le sue prime e ultime passioni, disegnare e dipingere, non sono mai state presentate a un pubblico, per lo meno in una forma coerente. Questa mostra tenta di fare quasi l’impossibile: non solo ha lo scopo di presentare come pittore contemporaneo un artista il cui nome si è già affermato con altre connotazioni, ma soprattutto qualcuno che non ha mai voluto essere presentato come tale.
Questa mostra offre uno scorcio dei lavori dai primi giorni – risalenti in effetti al periodo della scuola – fino a opere completate nel 2006, pochi giorni prima di morire. I lavori comprendono dipinti figurativi (fiori e paesaggi) e astratti, sperimentali, che esibiscono una conoscenza sofisticata dei principi dell’astrazione e che avrebbero potuto forse stare a fianco di artisti del tipo di Pollock o Twomby.
Tuttavia, anche osservando i primi lavori di Barrett, si sarebbe indotti a pensare a un Kandinsky di fronte ai pagliai di Monet, proprio alle origini dell’astrazione, dove la figura comincia a scomporsi in blocchi ritmici di colore le cui qualità formali superano la materia del loro soggetto, persuadendoci sottilmente a guardare alle cose in modo diverso.
Nei suoi lavori astratti dell’ultimo periodo c’è come un senso di stratificazione e sovrapposizione, reminiscenze di Pollock che evocano un ritmo e una musicalità che forse si riferisce a Cage o Schoenberg, anch’essi pittori oltre che musicisti, che esplorarono le intercorrelazioni fra pittura e musica.
Ciò non significa che, poiché Barrett è conosciuto principalmente per la musica, dobbiamo sollecitare un’interpretazione in chiave musicale, soltanto perché la sensibilità poetica che fa balzare fuori questi dipinti sembra invitarci a sperimentare un universo complesso e sintetico di sensazioni e possibilità che attraversa i generi.
Ma qui si avverte anche un senso di processo, che collega le attività sulla base di un’esistenza che imprime una logica profonda al lavoro. Sarebbe troppo facile cogliere solo l’apparente semplicità, per non dire l’ingenuità, del lavoro e perdere la profondità del significato, e la luce che lo anima. In tutto il fascino della leggenda che è Syd Barrett, probabilmente è solo per mezzo dei dipinti che incontriamo, forse per la prima volta pubblicamente, l’artista che è stato Roger Barrett”.
(Altre letture dell’opera più recente di Barrett sono state proposte dal critico d’arte Michael Glover su “The Indipendent” del 18 ottobre 2008 (l’articolo, “Gentle sobriety” è reperibile all’indirizzo: https://www.independent.co.uk/arts-entertainment/art/features/syd-barretts-inner-visions-962512.html) e, sempre su “The Indipendent”, da Terry Kirby (il pezzo, pubblicato il 13 novembre 2006, intitolato “Syd Barrett’s true love shines through at art auction”, riguardava in particolare l’ultimo dipinto conosciuto di Syd, “Still Life of Lemons” – FOTO 27)
Le opere esposte
Esposte senza un criterio apparente (cronologico, tematico, tecnico…), le 31 opere documentavano sostanzialmente due epoche dell’attività pittorica di Barrett:
- quella di studente alla Cambridge School of Art e alla Camberwell Art School di Peckham, a Londra, relativa al periodo 1960-1966 (12 opere), la maggior parte di proprietà di LIBBY CHISMAN, la prima ragazza di Syd (un’interessante testimonianza dell’amico di corso JOHN GORDON è reperibile a pag. 52 del n. 154 di “Mojo” del settembre 2006);
- quella relativa all’ultimo periodo, dal 2000 al 2006 (18 opere), in parte conservate dalla famiglia Barrett e in maggioranza distrutte, come si sa, dallo stesso Barrett dopo averne fotografato alcuni particolari (come già documentato nelle interviste alla sorella ROSEMARY BREEN in “A Fish Out Of Water”).
Una sola opera del 1971, di proprietà di un’altra delle ragazze di Barrett, JENNY SPIRES, (la “gentile Jennifer” di “Lucifer Sam”…) offriva una piccola testimonianza del periodo seguito all’esperienza con i Pink Floyd che precludeva al ritiro dalle scene, confermando l’idea di Duggie Fields che dopo l’uscita dai Pink Floyd la sua attività pittorica fosse stata alquanto ridotta e inconcludente (“Probabilmente non ha mai finito neanche un quadro”, ci raccontò Duggie Fields nel 1985. “Iniziava qualcosa ma poi perdeva ben presto l’entusiasmo; non ricordo di aver visto un suo quadro finito”) e che le opere di quel periodo fossero state in seguito distrutte da lui stesso (Rosemary Breen lo raccontò a A. M. Roulin nel 1995).
Questo l’elenco dettagliato delle opere (l’ordine è arbitrario poiché, come già detto, non era indicato alcun percorso di ‘lettura’ delle stesse):
● “UNTITLED” (1960) – stampa (Proprietà della famiglia Barrett)
*Nota: conosciuta sin dagli anni ’70, quest’opera era già stata riprodotta dalla fanzine “Terrapin” (numero speciale “Best of Terrapin”, London 1985), dopo che Bernard White l’aveva fotografata direttamente nel seminterrato della casa di Hill’s Road dove Barrett era tornato a vivere con la madre. Diversamente dalla didascalia esposta alla mostra, la datazione conosciuta faceva risalire l’opera al 1965 (cfr. “A Fish Out of water”, pag. 69);
● “Tortoise”* (1964) – acquerello (Proprietà della famiglia Barrett)
*Nota: Il dipinto era già noto per essere stato pubblicato sul volume “Crazy Diamond & the Dawn of the Piper” di Mike Watkinson e Pete Anderson (Omnibus Press, London 1991).
● “Untitled” (circa 2002) – tecnica mista (foto del quadro distrutto)
● “Blue & Red Landscape” (circa 2002) – tecnica mista (foto di quadro distrutto)
● “Dark Red Abstract” (circa 2002) – tecnica mista (foto di quadro distrutto)
● “Ink Sketch Boy”* (data sconosciuta) – inchiostro (Proprietà di Philip James e Vivian Brans)
*Nota: Questo schizzo ad inchiostro era riemerso nel 2000 grazie al ritrovamento di Philip James, il bambino ritratto, nipote di Vivian Brans, amica di Barrett. James ha raccontato al mensile “Mojo” (febbraio 2000): “Mi piacerebbe riuscire a ricordare di più sulla vicenda, anche perché sono cresciuto da grande fan di Syd, ma all’epoca avevo solo 6 anni. Ricordo che mi venne detto di stare fermo e che lui era alto e scuro e mi regalò una penna che non funzionava”. È probabile, dagli indizi emersi dall’articolo del mensile, che il quadro risalisse al 1965.
● “Ink Sketch Boy Seated”* (data sconosciuta) – inchiostro (Proprietà di Philip James e Vivian Brans)
*Nota: cfr. la nota dell’opera precedente.
● “Blue Cellophane Painting” (1964) – inchiostro e cellophane (Proprietà di Libby Chisman)
● “Self-portrait on Wood” (1964) – acrilico (Proprietà di Libby Chisman)
(Si tratta di un inquietante autoritratto figurativo del giovane Syd inserito di lato in un’ambientazione astratta)
● “Blue Abstract Hardboard” (1963) – pittura a olio su cartone (Proprietà di Libby Chisman)
● “Little-Red Rooster” (1966) – pittura a olio su tela (Proprietà di Libby Chisman)
(Una splendida raffigurazione astratta di un gallo su tonalità cangianti di rosso. Una delle opere esposte più belle purtroppo non riprodotta sul catalogo)
● “Field & Flowers” (2002) – tecnica mista (foto del quadro distrutto)
● “People Painting” (2002) – tecnica mista (foto del quadro distrutto)
● “Art School Christmans Party” (dicembre 1966) – copia del biglietto originale disegnato da Barrett (Proprietà di John Gordon)
● “Mixed Media Collage” (1962) – tecnica mista (Proprietà di Brian Wernham)
● “Still Life With Teapot” (data sconosciuta) – acrilico (Proprietà della famiglia Barrett)
● “Still Life Of Dried Flowers”* (data sconosciuta) – inchiostro e gessetto (Proprietà di Brian Wernham)
*Nota: Opera venduta dalla Cheffins nell’asta del novembre 2006. La nota del catalogo della casa d’aste precisava: “Syd dipinse l’immagine mentre era alla Camberwell School of Art e in un secondo tempo la regalò a sua sorella Rosemary”. Il quadro è firmato in basso a sinistra “R. Barrett”.
● “Red Flowers” (2002) - (foto di quadro distrutto)*
*Nota: In realtà il titolo corrisponde all’opera riprodotta nel catalogo, effettivamente distrutta. Esposto, però, era un quadro astratto dipinto a olio su legno…
● “Untitled”* (data sconosciuta) – acquerello (Proprietà della famiglia Barrett)
*Nota: A dispetto del titolo, il bel quadro rappresenta delle pesche in un piatto fondo sul brillante, luminoso stile pittorico del quadro intitolato “Still Life With Lemons”.
● “Flowers” (2006) – acrilico (Proprietà della famiglia Barrett)
● “Abstract – Mixed Media” (2005) – penna con gessetti e acquerelli (Proprietà di Brian Wernham)
● “Earth & Sky”* (2005) – pastelli a cera e acqua (Proprietà di Brian Wernham)
*Nota: Un quadro dal titolo omonimo è stato venduto all’asta dalla Cheffins nel novembre 2006. Diversamente da questo, era un lavoro ad acquerello montato su un foglio di sughero.
● one of a set of Landscape Paintings (2000-2005) – acquerello (Proprietà della famiglia Barrett) (Si tratta di un quadro di piccole dimensioni raffigurante un paesaggio campestre)
● one of a set of Landscape Paintings (2000-2005) – acquerello (Proprietà della famiglia Barrett) (Si tratta di un quadro di piccole dimensioni raffigurante un paesaggio campestre)
● “Untitled” (2000-2005) – acquerello (Proprietà della famiglia Barrett)
● un quadro astratto senza titolo e indicazioni risalente presumibilmente a dopo il 2000
● “Painting of a House” (2000-2005) – acquerello (Proprietà della famiglia Barrett)
● “Untitled” (1971) – olio su tela (Proprietà di Jenny Spires)
(Quadro astratto dalle tinte violente che richiama nell’esecuzione le opere dell’ultimo Jackson Pollock)
● “Red Crosses”* (senza data) – stampa su lino (Proprietà di Mark Benton)
*Nota: Originariamente dipinto nel 1965 da Syd e regalato all’amica (fidanzata?) Vivian Brans, il quadro è stato venduto all’asta dalla Cheffins nel febbraio 2007 con il titolo “A Design for a Panel of Abstract Crosses” per 4.000 sterline (più tasse d’acquisto).
● “Untitled”* (senza data) – stampa (Proprietà di Philip James e Vivian Brans)
*Nota: Come il quadro precedente, anche questo era stato dipinto da Syd presumibilmente nel ’65 e regalato alla Brans.
● “Garden Shed With Flowers” (2001) – acquerello (Proprietà della famiglia Barrett)
Risulta incomprensibile l’omissione di alcune opere già conosciute (ad esempio quelle pubblicate in “A Fish Out Of Water” risalenti agli anni Novanta - che potevano essere riprodotte in stampa fotografica) o di quelle vendute all’asta della Cheffins e di altri lavori grafici e pittorici comunque in circolazione che avrebbero potuto offrire un panorama ancora più ampio e composito: dalle copertine di “Barrett” e di alcuni singoli (“Octopus” edizione francese, “See Emily Play”, “Apples and Oranges”…), al retro-cover del primo LP dei Floyd; dai biglietti d’invito/manifestini del 1966-1967 ad altre opere circolate su Internet in questi anni e risalenti al 1979 …
Lungo le pareti di una balconata al primo piano, che dava sulla sala principale, erano esposte altre sezioni, in prevalenza fotografiche:
La galleria fotografica di Mick Rock
Si trattava di una serie di 10 fotografie formato 40x50 (in tiratura limitata e autografate dall’autore) tratte dal volume “Psychedelic Renegades”, in gran parte in circolazione da tempo su alcuni siti dedicati a Barrett (una raccolta molto ampia è presente nella ‘gallery’ del sito NeptunePinkFloyd all’indirizzo:
https://www.neptunepinkfloyd.co.uk/
Mick Rock le scattò nel 1969 nell’appartamento di Ear’l’s Court Mans. a Londra in preparazione della copertina di “The Madcap Laughs” e nel giardino della casa della madre in Hill’s Road a Cambridge nel corso dell’ultima intervista rilasciata dal chitarrista per “Rolling Stones”.
La serie di foto di Iggy Eskimo
Una serie di 15 foto ritraenti Iggy, la modella eschimese fotografata da Mick Rock nella session per la cover di “The Madcap Laughs”, qui ripresa in scatti di ANTHONY STERN, comunque tutti visibili alle pagine del sito di “The City Wakes” alla pagina https://www.thecitywakes.org.uk/cool_stuff/ant_stern.htm. Alla stessa pagina è anche possibile leggere un intrigante articolo sulla modella, apparso sul “Croydon Guardian” lo scorso settembre.
Altre foto di Anthony Stern
Si tratta di una serie di 4 splendide fotografie a colori dei Pink Floyd scattate all’UFO Club nel 1967 e di 12 foto di formato più piccolo a colori.
Due contributi ‘inutili’ di Storm Torgherson
La mostra proponeva inoltre le due copertine di Barrett curate da Storm Torgherson: quella dell’edizione americana del doppio “Syd Barrett” (1974) e la fotografia originale utilizzata per la cover di “The Madcap Laughs” autografata da Torgherson.
Le lettere a Jenny Spires
Di straordinario interesse l’esposizione di quattro lettere autografe (di cui due integrale) scritte da Syd a Jenny Spires nel 1966.
Per quanto brevi, sono un interessante spaccato dei sentimenti e delle idee di Barrett in quei primi mesi di vita a Londra, preludio del grande successo con i Pink Floyd.
Da sottolineare in particolare, a sostegno della tesi di chi, come noi, ha sostenuto negli anni la deliberata volontà di Barrett di abbandonare la scena, un passaggio dell’ultima lettera: pur descrivendo con curiosità e eccitazione una delle prime sedute di registrazione con il gruppo, Barrett ammette di essere “stufo di tutto” e di desiderare essere a Cambridge o in Grecia piuttosto che a Londra, “dove tutto quello che faccio è spendere soldi e viaggiare”.
In quei giorni, nonostante tutto, per Syd “splende ancora il sole”; in seguito, la situazione degenererà in una grave crisi nervosa che porterà al suo allontanamento dal gruppo…
(scritta su un foglio rosa con un bel disegno a pastelli che ritrae Jenny di spalle a una finestra)
“Cara Jenny, questa è una lettera per dirti che penso che tu sia bellissima e che sabato eri meravigliosa. Non riesco a fare a meno di pensarti e sono innamorato di te. Fai così colpo sulle persone che ho pensato di disegnare un tuo ritratto.
Non mi piacciono le lettere d’amore ma devo dirti cosa provo per te e sono cotto a Londra.
Per piacere scrivimi. Abito al 39 di Staweley Gardens, Highgate N.6”.
“… sono il miglior gruppo al mondo a parte gli Stones e i Beatles, si chiamano Tridents, e il cantante assomiglia un po’ a Mick Jagger e il batterista è molto carino. Eccolo.
(disegna il batterista e il cantante)
È molto magro e tiene sempre la testa bassa.
Piccola Jenny mi è piaciuto stare con te lo scorso week-end, non sono mai stato così felice in vita mia…”
“… quando sabato vieni facciamo delle foto. Sarà un bel viaggio, divertente…
Ho scritto una canzone su Bob Dylan. Si! Si! Anima. Dio. Eccetera.
Comincia così:
“I got the Bob Dylan Blues
and the Bob Dylan shoes
and my hair an’ my clothes in a mess
but you know I just couldn’t care less”.
In effetti è un po’ satirica e umoristica. Ah! Ah! Hee! Tee!
Tuo Syd”
(In questa lettera Syd descrive una session in studio che potrebbe risalire al maggio-giugno 1965 (cfr. David Parker, “Random Precision”, Cherry Red Records 2001). Ci sono disegni in biro del gruppo mentre sta registrando in studio)
“Cara Jenny, sei proprio un bocconcino. Adesso ti racconto cosa sta succedendo alle registrazioni. Abbiamo portato nello studio le apparecchiature, c’era una luce bianca orribile, e abbiamo collegato fili e microfoni. Rog aveva il suo ampli dietro a uno schermo, anche Niki era schermato e dopo un po’ di chiacchiere abbiamo provato che tutto funzionasse, quindi abbiamo registrato cinque pezzi più o meno in presa diretta, solo la chitarra e la batteria. Mercoledì aggiungeremo il cantato e il piano. I pezzi hanno una resa eccezionale, soprattutto “King Bee”.
Mentre canto devo stare in mezzo allo studio con le cuffie e gli altri stanno nell’altra saletta: loro mi possono vedere ma io no [sembra una citazione da “Flaming”, ndt.]. Inoltre posso soltanto sentire quello che sto cantando.
Spero che a casa vada tutto bene e che ti diverti. Non avresti potuto venire in sala di registrazione e comunque sono uscito dopo mezzanotte e per te sarebbe stata una faticaccia (…).
Oggi sono un po’ stufo di tutto e preferirei essere a Cambridge o in Grecia ma non a Londra dove tutto quello che faccio è spendere soldi e viaggiare. Comunque splende il sole. Ti amo.
Roger”
I materiali presentati sul catalogo ma non esposti alla mostra
A ulteriore riprova dell’approssimazione e superficialità con cui è stata allestita la mostra, è curioso come alcuni materiali inseriti nel catalogo non fossero esposti alla Ruskin Gallery:
- nessuna traccia della sezione di foto di Barrett dall’archivio della famiglia. Foto comunque già circolate da tempo in Internet (cfr. al sito NeptunePink Floyd);
- anche il fascicoletto intitolato “Fart Enjoy”, incluso nell’edizione celebrativa di “The Piper”, nonostante fosse incluso nel catalogo non è stato esposto;
- quanto alle opere, il catalogo riproduce alcuni quadri non esposti. Uno di questi, “Insect Shapes”, era stato venduto all’asta della Cheffins con un titolo diverso – “Abstract” – realizzato dopo il 2000 con tecnica mista. Un altro – intitolato “Blue Abstract”, richiama quello intitolato “Landscape, Cambridgeshire” venduto sempre all’asta della Cheffins. “Big Green Landscape”, previsto e non esposto, ricorda invece “Abstract of the Gog Magog” .
Conclusioni
“The end of truth that lay out the time
Spent lazing here on a painting dream…
A mile or more in a foreign clime
to see farther inside of me…”
(Syd Barrett, “She took a long cold look”, 1969)
Sarebbe stato interessante, oltre che ‘carino’, prevedere una sezione della mostra dedicata anche ai numerosi contributi dei fan: dalle tante fanzine circolate negli anni ai ritratti che, soprattutto dopo la morte di Barrett, hanno invaso il Web…
Una grande occasione mancata, dunque, cui ci auguriamo si voglia porre rimedio in futuro (sembra infatti sia prevista per il 2009 una nuova edizione di “The City Wakes”…). Barrett meritava molto di più…
(novembre 2008, dal sito defunto La Dea Bicefala - https://www.lucaferrari.net: la versione originale era corredata da riproduzioni delle opere e altre immagini correlate)
L'EREDITA' UMANA DI SYD BARRETT. Intervista a Luca Ferrari di Michele Pingitore
Lo scorso 9 luglio scorso scompariva Syd Barrett, fondatore dei Pink Floyd e musicista solista tra la fine degli anni '60 e l'inizio dei '70. Un mito e un genio musicale, che ha scalfito velocemente la scena rock inglese per appartarsi definitivamente nella sua Cambridge, dove è deceduto, lontano dallo show business.
La sua esperienza artistica ed esistenziale è stata oggetto di curiosità, studio e indagine, spesso fitta di misteri inverosimili. Luca Ferrari, critico musicale, è probabilmente la persona italiana che meglio conosce quest'artista. Ferrari è autore di tre libri sul musicista inglese: Tatuato sul muro. L'enigma di Syd Barrett (Gammalibri - 1985), Syd Barrett (Stampa Alternativa - 1989) e Syd Barrett. A fish out of water (Stampa Alternativa - 1995). Questa intervista vuole sfatare i falsi miti e leggende di un artista visionario della musica contemporanea.
Come commenta la scomparsa di Syd Barrett, arrivata quando il musicista inglese era in un certo qual modo già scomparso dalla scena da decenni?
«E' vero, Barrett è morto almeno due volte. La sua storia a me è sembrata paradigmatica delle logiche culturali del business discografico, dello stesso giornalismo musicale, troppo spesso interessato quasi esclusivamente a costruire "casi" anche dove non ci sono. Barrett si può dire fosse già morto nel 1972, data del suo ultimo concerto ufficiale, ed è sopravvissuto nelle coscienze di molti sia per l'assidua morbosità di certa stampa interessata allo scoop (come fotografarlo mentre portava la spazzatura nel bidone davanti a casa) che per il conseguente successo planetario del "suo" gruppo, i Pink Floyd. Lui, differentemente da altre icone del rock e dello spettacolo (Hendrix, Morrison, Marylin, James Dean) non è morto, né si è suicidato; ha semplicemente cambiato vita, ritirandosi dai riflettori. Ha continuato a vivere, noncurante delle costanti attenzioni dei media e dei fan, in una casa alla periferia di Cambridge. Era là, solo, ad occuparsi del giardino. In molti erano a conoscenza di dove abitava e hanno cercato di "stanarlo" dalla sua tana, ma a voler essere onesti, non c'era un solo motivo valido per andare a importunarlo. Il suo ostinato mutismo, la sua pervicace assenza, hanno "parlato" per lui.»
Sicuramente intorno alla sua figura si è creato un alone mitologico forse sproporzionato, ma adesso che non c'è più si potrebbe riportare il personaggio a quello che realmente è stato?
«Nei diversi libri che ho scritto e curato sulla vita e l'opera di Barrett ho cercato di proporre un punto di vista il più possibile equilibrato della vicenda, depurandola dai ricorrenti luoghi comuni e dalle falsità. Barrett era un giovane aspirante pittore finito per caso nel mondo della musica pop: da creativo qual era ha cercato di sperimentare con gli strumenti di cui disponeva il linguaggio della forma-canzone e la chitarra elettrica. Per certi aspetti è stato un precursore nell'approccio tecnologico all'arte della pop song, contribuendo in modo decisivo all'evoluzione delle tecniche applicate all'uso della chitarra elettrica e al rapporto tra suono e immagine: fu soprattutto lui, probabilmente proprio in quanto pittore, uno dei fautori dei primi light-show che si tennero in Inghilterra, rivoluzionando l'idea stessa di spettacolo musicale. Nell'esperienza dei primi Pink Floyd è stato sottovalutato il ridimensionamento dell'immagine della pop star a favore di una più determinante percezione audio-visiva dell'esperienza musicale. Barrett non è stato un chitarrista dalla tecnica rivoluzionaria come Hendrix, ma è riuscito a sviluppare l'uso della sua chitarra fino alle estreme conseguenze per le conoscenze dell'epoca, aprendo la strada a una generazione di compositori di art song quali David Bowie e Brian Eno, che non a caso ne hanno poi tributato il genio».
Barrett è stato aggirato dallo show business o è riuscito lui ad aggirarlo, consapevolmente o no?
«A mio modo di vedere è stato Barrett ad "aggirare" il music business e non viceversa. Invece capita di leggere il contrario, perché se per qualche ragione rinunci ai presunti benefici delle popolarità significa che hai qualche problema. E' un sillogismo dilagante, da cui è dipeso lo stigma che ha segnato la storia di Barrett artista: se non rispondi alle aspettative della società dello spettacolo, chissà forse sei pazzo o drogato, hai avuto per forza qualche problema profondo durante l'infanzia. Nessuno può negare oggi che Barrett sia ricorso alla droga per trovare una via d'uscita alle pressioni e alla routine imposte dalle condizioni materiali del successo, ma da qui a sostenere che si sia "bruciato il cervello" per sempre, mi pare ce ne corra. Il fatto certo, osservabile, è che Barrett si è progressivamente allontanato da quel mondo, tanto da negare a sé stesso e agli altri la sua passata identità, e riappropriandosi del suo nome di battesimo, Roger Keith. Che l'abbia fatto coscientemente o meno, nessuno può dirlo: ma a questo punto cosa importa?»
Ho trovato bizzarra, in un tuo scritto, la testimonianza di un vicino di casa di Barrett a Cambridge, in cui imputava lo stato di salute di Syd alle sue frequentazioni negli ambienti londinesi, mentre prima veniva considerato un ragazzo "normale".
«Anche i suoi stessi familiari, nel corso degli anni '70, hanno avuto la stessa reazione: si imputava all'ambiente di Londra la causa del suo apparente disagio psichico. Va compreso, considerata la realtà provinciale di Cambridge e l'estrazione borghese della famiglia Barrett: i fratelli sono tutti professionisti, il padre era patologo di fama (alla morte gli dedicarono una delle sale dell'ospedale principale della città), l'unico a intraprendere una carriera "alternativa" alle aspettative famigliari era stato Syd».
Cosa ci ha lasciato Syd Barrett oltre le sue splendide canzoni? Le future generazioni potranno raccogliere qualcosa da lui?
«Sono convinto che Barrett ci abbia lasciato - oltre allo straordinario (per sperimentazione di nuovi linguaggi e slancio creativo) poco materiale prodotto, comunque ancora tutto disponibile - un'eredità importante, ancora più significativa se rapportata all'epoca che viviamo: si può rinunciare al successo, alla popolarità, al denaro, addirittura al benessere materiale, per perseguire un equilibrio profondo, una propria strada nell'esistenza, anche contrastando le aspettative sociali, familiari, culturali. Una lezione semplice ma profonda che ha del religioso, per certi aspetti: rimanda ad esperienze mistiche e a figure fondamentali della nostra cultura spirituale quali San Francesco o Ignazio di Loyola, che seppero spogliarsi di tutto per essere se stessi e realizzare il disegno divino. Forse sto esagerando, ma sono convinto davvero che la storia di Barrett andrebbe approfondita proprio a partire da questo straordinario valore aggiunto: è possibile che nella "normalità" del nostro quotidiano ci sia la chiave del senso più profondo dell'esistenza umana. Può sembrare paradossale e forse non lo è poi tanto: la breve, folgorante parabola artistica di Syd Barrett sembra essere stata funzionale a preparare questa sorta di "mistica" che oggi, alla sua morte, con parole e idee anche diverse, in molti attribuiamo all'esperienza del musicista di Cambridge».
(da "Il Quotidiano della Calabria", 28 agosto 2006)
I PINK FLOYD PSICHEDELICI DI SYD BARRETT (1964-1967)
Nella storiografia si tende generalmente a considerare i fatti come concatenati tra loro, disposti in un preciso ordine cronologico e logico secondo cui a un evento ne consegue un altro, coerente.
Nella storia dei Pink Floyd, i primi 36 mesi con Syd Barrett segnano un periodo alternativo a quanto accadrà in seguito che – dalla metà del 1968 a questi ultimi anni – sarà dotato di una coerenza interna innegabile.
Lo sforzo degli storiografi pinkfloydiani è sempre stato quello di saldare il primo periodo al secondo con forzature davvero poco convincenti.
Perché i Pink Floyd di Syd Barrett, che romanticamente si tende a collegare all’Estate dei Fiori – come venne definita dai media l’estate del 1967 – sono stati un laboratorio di idee, sperimentazioni, ingenuità, azzardi unico nel suo genere, che non ha altri esempi della storia della musica giovanile contemporanea.
Enfatizzare “di Syd Barrett” ha lo scopo di far discendere gran parte della responsabilità di quei mesi soprattutto a Barrett, deux ex macchina del progetto The Pink Floyd Sound, prima denominazione pubblicitaria del gruppo che non a caso calca la mano sul termine “Sound”, suono.
Perché “psichedelici”?
I PF non sono parte integrante della scena. Non usano droghe (eccetto Barrett) e non sono impegnati in nessuna causa. Non hanno relazione con l’underground che li sostiene.
La sottocultura hippy e psichedelica non li coinvolge. Entrano in alcuni circuiti ed eventi solo strumentalmente, con l’obiettivo dichiarato dall’inizio di diventare famosi e suonare musica pop.
Rifuteranno sempre l’accezione di psichdelici e vivranno con difficoltà la contraddizione commerciale-artisico.
L’immagine
In un’epoca in cui l’immagine del gruppo pop è ai primordi, lo star-system è ancora ingenuo e poco sofisticato, quasi improvvisato, in cui le stesse copertine dei dischi sono poca cosa eccetto rari casi (come la copertina di “Revolver” dei Beatles, che forse per la prima volta propone una cover che da fotografica passa a grafica (mista a fotografie) affidando a un artista esterno l’art-work…), i Pink Floyd elaborano un modello che farà scuola nei decenni a venire fino alla mistificazione e al camuffamento dell’immagine stessa (penso ai Residents, ad esempio, o ai Faust):
immersi tra fumi, colori e immagini psichedeliche (loro uno dei primi dispositivi di illuminazione stroboscopia) il gruppo è invisibile sulla scena, volutamente interessato al sound, appunto, e non all’immagine: i movimenti sul palco sono quasi assenti, l’immobilismo è un elemento di anti-spettacolazione (l’esatto contrario dell’estetica rock che enfatizza la star, il suo corpo e i suoi movimenti…). I musicisti sono concentrati sui suoni e l’effetto sul pubblico è quello di un’immersione in una dimensione immaginifica, di sogno, non per niente indotta dalla droga più diffusa del tempo, l’LSD…
(1 - sampler VIDEO dall’UFOClub).
Il suono
L’esordio dei cinque giovani studenti sul finire del ‘64 (due di architettura, uno di musica e uno, Barrett, d’arte) è tutto sommato ortodosso: i modelli iniziali di riferimento sono il blues urbano di Bo Diddley, Sonny Boy Williamson, Willie Dixon, Chuck Berry… secondo quando accade sulla scena londinese (inglese) del periodo (anche grazie alla musica trasmessa da Radio Luxemburg che ‘forma’ il Barrett adolescente), e lo skiffle così come per quasi tutti. Barrett è affascinato soprattutto dai Rolling Stones (che va a vedere dal vivo nel 1965) – con Gilmour prova per ore il loro primo singolo del ’63, “Come On” -, dai Beatles (che nel 1966 hanno già lasciato le scene e pubblicato due album influenti come “Rubber Soul” e “Revolver”, appunto) e da Bob Dylan (del ’65 è il fondamentale “Bringing all back home”, del ’66 “Blonde on Blonde”), a cui dedicherà una canzone affettuosamente ironica (“Bob Dylan Blues”, riscoperta nel 2001).
Di quel periodo sono circolati due demo di ottima qualità – che attestano la scarsa propensione a immaginare qualcosa di nuovo rispetto alla corrente giovanile del tempo.
Si tratta di brani rock-blues dall’impostazione beat con un cantato che rimanda scopertamente alle timbriche e ai registri di Mick Jagger (2 - sampler audio).
Di lì a qualche mese, però le cose assumeranno una direzione diversa, decisamente nuova per i tempi: la forma, da chiusa, costretta ai tre minuti-tre delle classifiche pop e dei juke-box, esploderà in una forma aperta, digressiva, in progress.
Un documento eccezionale, a questo proposito, è una delle prime session di studio (febbraio 1967), ripresa da Peter Whitehead per un film dedicato alla “swinging London” – “Tonite, let’s all make love in London” (3 - sampler video): i quattro musicisti (nel frattempo ha lasciato la band Bob Klose, obbligato dai genitori a concentrarsi sugli studi)
Cosa è successo nel frattempo?
La scena si trasforma
Dagli inizi del 1966, il regista americano Steve Stollman (fratello di Bernard, fondatore della ESP), con l’idea di girare un film sulla scena londinese, prende in affitto il sabato i locali del Marquee Club di Soho, dove in genere si suona blues, e lancia lo “Spontaneous Undergound”,
I Pink Floyd, che cominciano a suonarci regolarmente da marzo, hanno l’opportunità di sperimentare liberamente il loro repertorio, ancora prevalentemente costituito da brani blues.
Sempre in marzo, Hoppy inaugura la London Free School a Powis Gardens (zona Notthing Hill, sempre a Londra), una specie di centro sociale ante-litteram, comunità aperta che offre servizi alternativi alla cittadinanza (ad esempio supporto legale alla numerose comunità immigrate) e promuove dibattiti, reading poetici, seminari su temi del sociale e della politica. Lì è nato il famoso Carnevale di Notthing Hill che si tiene ancora oggi...
Qui i Pink Floyd non solo incontreranno i futuri manager della Blackhill che porteranno al contratto discografico con la EMI, ma avranno modo, più che al Marquee, di sperimentare liberamente la loro musica, passando da un repertorio costituito prevalentemente da cover blues (tipo “Roadrunner” o “Louie Louie”) ai loro primi pezzi, tutti composti da Barrett.
Alla London Free School i PF sono impressionati dalle sperimentazioni degli AMM (e Barrett, in particolare, dall’uso della chitarra che fa Keith Rowe, combinando elettronica (rudimentale pedaliera) e una tecnica slide col righello di plastica): (4 - sampler audio) il gruppo, che sta pubblicando un disco con la ESP (“Ammusic”, venderà pochissimo diventando una rarità), vede tra i suoi musicisti il compositore Cornelius Cardew, già allievo di Stockhausen.
Barrett scopre l’LSD
Fino all’estate 1966, Barrett ha fumato solo hashish. Solo in rare occasioni ha sperimentato i funghi allucinogeni (cfr. il video impropriamente intitolato “Syd Barrett first trip” edito nel ). Con alcuni amici di Cambridge (tra cui Storm Torgherson, futuro grafico delle cover dei PF come titolare dell’Hipgnosis), sperimenta in quei mesi l’LSD che gli aprirà letteralmente la mente contribuendo non poco in termini compositivi a far esplodere l’esiguo repertorio di prime composizioni. E’ dell’estate 1966 la composizione di “Interstellar Overdrive”, nata dopo l’ascolto fumato con Peter Jenner di “My little red book” (di Bacharach) nella versione dei Love (sul loro primo album “Love”).
In settembre, alla All Saint’s Hall di Powis Square viene lanciato il “Sound/light Workshops”: i Pink Floyd diventano presto il gruppo principale e mettono a punto il loro light-show: inizialmente una coppia di americani proietta su di loro immagini a colori con una fila di piccoli proiettori su cui vengono fissati cerchi di perspex colorati; poi il 17enne Joe Gannon, studente del laboratorio dell’Hornsey College dove insegna Mike Leonard, si assume l’incarico di uomo delle luci finché un amico di Barrett, Peter Wynne-Wilson che lavorava in teatro, non gli procura una strumentazione professionale in disuso e con la moglie affianca Gannon nei concerti.
Nel frattempo, è il 31 ottobre, si è costituita la Blackhill Enterprises...
Per finanziare l’attività della LFS, verso la fine del 1966 Hoppy ha l’idea di fondare International Times, il primo mensile undergound inglese. La redazione e la stampa si trovano nel seminterrato della libreria Indica di Barry Miles. Fondamentalmente IT nasce per offrire un’alternativa all’omologazione di informazione del tempo.
Per il lancio di IT – il 15 ottobre 1966 – viene organizzato un mega evento alla Roundhouse di Camden Town: i Floyd suonano bene una versione di Interstellar Overdrive e fanno saltare l’impianto.
Prima del Natale 1966 viene inaugurato l’UFO Club (Hoppy e Boyd) allo scopo di finanziare IT già in crisi dopo qualche numero.
1967
Nei primi giorni di gennaio registrano un demo nei Thompson private studio recordings: Boyd lo sente e gli fa schifo
L’11 del mese, grazie a Peter Whitehead, ancora con Boyd registrano due demo (audio e video) per la soundtrack di Tonite let’s all make love in London
Il 29 gennaio è la prima session ai Tecniques studios di Chelsea per Arnold Layne e Candy & a currant bun
Il 9 marzo 1967 irruzione della polizia nella redazione di IT e confisca di tutto il materiale. In aprile (il 29) Hoppy organizza il 14th Technicolor Dream per raccogliere fondi e rilanciare il giornale.
Maggio ’67 il Games for May alla Queen Elizabeth Hall
Quindi, in giugno esce See Emily Play e cominciano I problemi della promozione, soprattutto fuori Londra.
Primi sintoni del degrado psicologico di Syd. Top of the Pops e programma radio.
In agosto esce Piper, 6° in classifica.
E’ comunque un fatto che tra i primi concerti e le due registrazioni demo e la session videoripresa da Whitehead sembra intercorso un secolo: là, goffi studenti alle prese con blues elettrici alla ricerca di un’identità; qua, la deflagrazione del blues in una tempesta elettrica:
ci sono sì i canonici chitarra-basso-tastiera-batteria, ma chitarra e tastiera sono trattati dal Binson Echorette, un dispositivo elettronico in grado di alterare i suoni e produrre loop, fading, echo…
E’ soprattutto dal vivo che i PF innovano: sono molteplici le testimonianze sui concerti del gruppo del periodo fine 1966-metà 1967: il repertorio progressivamente si modifica, sostituendo i classici del blues trattati elettronicamente con nuove composizioni di Barrett – su tutte “Interstellar Overdrive” e “Astronomy Domine”, veri e propri cavalli di battaglia che i Pink Floyd continueranno a riproporre fino in anni recenti. Per quanto mal registrate, sono circolati tra fan alcuni concerti integrali molto significativi di quanto la dimensione live fosse altra cosa delle registrazioni in studio. (5 - sampler audio).
Forse più che per chiunque altro, i Pink Floyd patirono la grande discrepanza fra esecuzione live (libera, sperimentale, ) e la registrazione da studio (la versione su disco) conosciuta dal pubblico, che, anche e soprattutto causa le pressioni della discografia, fu una delle ragioni del primo crollo nervoso di Barrett nell’estate del ’67.
I Pink Floyd erano diventati famosi per un paio di singoli – tra marzo e giugno – “Arnold Layne” e “See Emily Play” – erano apparsi in TV il 15 maggio sul primo canale della BBC (alla trasmissione “Look at the week”) e in luglio per tre settimane di fila a “Top of the pops”: il pubblico fuori di Londra, quello provinciale dei locali e delle sale da ballo, conosceva la band per i brani pop e, logicamente, pretendeva che venissero suonati dal vivo, fatto che col tempo cominciò a disturbare i musicisti che arrivarono al punto di comporre un brano quasi hard-rock a mò di reazione intitolato “Reaction in G”.
L’eredità
Cosa hanno lasciato in eredità i Pink Floyd di Syd Barrett? A giudicare da cosa è diventata la ‘popular music’, compressa spaventosamente dalle logiche di Mercato, poco o niente.
Negli anni Settanta il cosiddetto “Kraut Rock” di Tangerine Dream, Kraftwerk, Ash Ra Tempel, Popol Vhu più del contemporaneo “progressive” inglese, sembra riprendere l’idea della forma aperta, digressiva, di ricerca in progress di sonorità elettroniche che sfruttino al massimo la tecnologia del tempo… Quello che in America avevano fatto negli stessi anni Velvet Underground, Grateful Dead, Mothers of Invention, Jefferson Airplane soprattutto. In Inghilterra i Gong e gli Hawkwind.
Negli anni ’80 (tendenza che continua tuttora), i richiami a Barrett e a ‘quei’ Pink Floyd sembrano riguardare più la forma-canzone alla “Matilda Mother” o “Flaming”, l’idea d un pop stralunato che farà la fortuna di Robyn Hitchcock e Julian Cope, i TV Personalities, Bevis Frond, Jennifer Gentle, Matt Johnson (dei The The)
Negli ultimi anni, gruppi come gli Aliens di Gordon Anderson (già fondatore della Beta Band) sembrano aver ripreso quella lezione, come il Beck di “Mutations” o gli Spacemen3, The Flaming Lips, Ozric Tentacles, Aciod Mother’s Temple.
Un’audio-biblio-video-Webgrafia essenziale
- musica -
Pink Floyd – “London ’66-‘67” (CD – See For Miles, UK 1991 mono)
Mini-cd con due brani (“Interstellar Overdrive” e l’inedita “Nick’s Boogie”) registrati nel gennaio 1967 ai Sound Techniques Studios di Londra per la colonna sonora di “Tonite let’s all make love in London” di Peter Whitehead.
Pink Floyd – “The first 3 singles” (CD – EMI, UK 1997 mono)
I primi tre singoli del gruppo pubblicati in edizione limitata per celebrare i 30 anni dalla pubblicazione.
Pink Floyd – “The Piper at the Gates of Dawn” (3CD box - EMI-Harvest, 2007 mono/stereo)
Cofanetto celebrativo dei primi 40 anni dall’uscita dell’album. Nei quattro CD, le edizioni mono e stereo del disco, i tre singoli del 1967 e alcuni alternate takes dalle sessions di Abbey Road.
Pink Floyd – “A Saucerful of Secrets” (CD – EMI, UK 1994 stereo)
Secondo album dei PF pubblicato nel giugno 1968. Contiene “Jugband Blues”, registrata con Barrett nell’ottobre 1967 e vede la presenza dello stesso Barrett alla chitarra in “Remember a day”, “Set the control for the heart of the sun” e “Corporal Clegg”.
Pink Floyd – “The live Pink Floyd. Recorded live at Oude-Ahoy, Rotterdam, October 12, 1967” (CD – Bulldog Records BG CD 014, Italia 1987 mono)
Uno dei due concerti integrali esistenti dei Pink Floyd registrati nel 1967, edito semi-ufficialmente in Italia su formato CD (comunque distribuito dalla Fonit Cetra!).
Pink Floyd – “A tree full of secrets” vol. 1/vol. 2 (bootleg)
Out-takes e alternate-takes del periodo 1964-1967 scaricabili dalla Rete (https://www.hokafloyd.com), tra cui gli acetati di “Lucy Leave” e “King Bee” (comunque sul mini CD allegato al libro di Luca Ferrari “A fish out of water”, Stampa Alternativa, Roma 1999).
Pink Floyd – “The complete Top Gear sessions 1967 1969” (bootleg)
Tutte le registrazioni dei Pink trasmesse nella famosa trasmissione radio “Top Gear” condotta da John Peel. Sono scaricabili a pagamento da Internet all’indirizzo https://www.nowtorrents.com/torrents/pink-floyd-the-complete-top-gear-sessions-1967-1969-(bootleg)
- libri -
John Cavanagh, “The Piper at the Gates of Dawn” (Continuum, New York/London 2003, trad. it. No Reply, Milano 2008)
La storia approfondita della genesi del primo album del gruppo.
Luca Ferrari (a cura di), “Pink Floyd” (Arcana Editrice, Milano 1985)
Una raccolta di materiali vari, tra cui due dei primi articoli apparsi su “Zig Zag” nel 1972 che ricostruiscono le origini della band. Fuori catalogo.
Cliff Jones, “Echoes. The story behind every Pink Floyd song” (Carlton Book Ltd., UK 1996, trad. it. Tarab, Firenze 1997)
La storia dietro le canzoni dei Pink Floyd.
Barry Miles, “Pink Floyd. The Early Years” (Omnibus Press Ltd., London 2006)
Uno dei migliori contributi sulle origini della band (ottimo apparato fotografico).
(Relazione presentata all'On the Road Festival, Pelago (FI), 5 luglio 2009)
THE PIPER AT THE GATES OF DAWN (John Cavanagh)
Se può valere l’aforisma di Eisenberg secondo cui “il disco è un mondo. Il mondo inciso dall’uomo in una forma che gli possa sopravvivere”, The Piper at the Gates of Dawn non è soltanto uno dei mondi possibili attraverso cui, in noi, sopravvivono gli anni Sessanta, ma è il “disco dell’innocenza” con cui Syd Barrett, il suo autore, offre l’ingenua visione della realtà trasfigurata nelle parole e nei suoni di un bambino diventato adulto troppo in fretta.
E’ un luogo della memoria che rimanda al suo mondo di Cambridge, probabilmente, come racconta nel libro di Cavanagh uno dei suoi amici, ma è anche l’universo “disturbato” della nostra stessa infanzia che è sì armonia degli affetti (“dai mamma, raccontami ancora...”), emozione per l’ignoto (“Flaming”), scoperta (“vagando, cercando un posto in cui andare”), joie de vies (quella contagiosa di “Bike”) ma è anche timor panico (“le stelle possono far paura”), inquietudine (“quel gatto ha qualcosa che non riesco a spiegarmi”), noia e rassegnazione (“Scarecrow”) quando, improvvisamente, realizziamo che la vita ha un termine e crescere è imparare a convivere con la perdita.
Al di là delle vicende che affolleranno, affossandola, la biografia artistica di Barrett, è difficile immaginare un seguito a The Piper at the Gates of Dawn: ben oltre l’irripetibile climax in cui venne registrato, le clamorose coincidenze temporali (i Beatles nello studio 2 di Abbey Road...), le timide innovazioni tecnologiche, l’azzardato sperimentalismo – di cui rende ben conto questo libro -, il disco ha in sé una compiutezza, un’omogeneità ideale e psicologica conclusiva che trascende la retorica che lo vorrebbe semplicemente un ingenuo souvenir della Swingin’ London. E’ dolce e terribile al tempo stesso, fragile e aspro proprio come il settimo capitolo di Wind in the Willows, il libro per ragazzi di Kenneth Grahme da cui Barrett trasse il titolo, in cui il Topo e la Talpa incontrano all’alba il “pifferaio”-Dio Pan, ne sono ammaliati, impauriti, si dispongono in adorazione prima che la visione svanisca e imponga loro di “dimenticare” – “perché non rimaniate sgomenti”.
Troppo intensa la luce, troppo forti i suoni al cospetto della Verità: non è poi così casuale, quindi, che da allora Barrett sia rimasto là, nella stanza musicale di “Bike”, in compagnia di Grimble Gromble, degli omini di pane, del topo Gerald e di un gatto di nome Sam Lucifero.
(Presentazione alla traduzione di "The Piper at the Gates of Dawn" di John Cavanagh, Editrice Sublime, Modena 2009)