LA PATOLOGIA COMPULSIVA DI CELEBRARE IL PASSATO CHE PUZZA DI MORTO.

01.10.2016 19:55

I 20 anni dalla pubblicazione di "Nevermind", i trent'anni dal primo numero di Dylan Dog, i trenta di Candy Candy, i cinquanta dalla nascita dei Pink Floyd che, statene certi, verranno celebrati in pompa magna nel 2017 (naturalmente a suon di gadget, ristampe, inediti e amenità assortite)...

Non siete nauseati anche voi da tutto questo inutile, patetico ciarpame retrò?

L'industria culturale non fa che guardare al passato per riproporre nuovi prodotti di vecchi autori cult (che cioè continuano a vendere). Un investimento sul passato ritenuto sicuro che toglie spazio e interesse per il presente e, soprattutto, per un futuro percepito più che mai come incerto.

Chi celebra il passato (quando non il trapassato, come i pur ottimi mensili inglesi “Mojo” e "Shindig!") è una generazione vittima della nostalgia che si rivolge esclusivamente ai pari età - sessanta-settantenni che ascoltavano il Prog e continuano incessantemente a riproporci i Genesis e i King Crimson in tutte le salse (come l'inutile magazine “Prog” di recente uscita), quando non i Beatles e i Rolling Stones che, per l'appunto, non passano mai di moda.

Questa patologia  compulsiva di celebrare il passato risponde almeno a un paio di impulsi:

  • da un punto di vista commerciale investire sul vecchio presenta rischi di gran lunga inferiori rispetto alla promozione del nuovo (per cui in Italia Jovanotti è l'eterno ragazzo, Ligabue l'immarcescibile rocker e via discorrendo, l'esangue discografia ringraziando): meglio la centesima raccolta di Fabrizio de Andrè (magari con un inedito per attirare anche i collezionisti che hanno già tutto) che il disco di un autore sconosciuto;

  • sotto il profilo psicologico il passato è rassicurante, non presenta incognite perché, per l'appunto, è già passato (come sosteneva quel genio di Captain Beefheart con un efficace calembour, “the past sure is tense” - “il passato di sicuro è remoto”): e bando ai revisionismi, sostiene il guru del giornalismo rock Riccardo Bertoncelli in un'intervista a “Classic Rock” di qualche mese fa, le cose vanno tramandate secondo la regola aurea del giornalismo d'antan (magari il suo).

   (dal sito Web "The Black Hole" - https://vblackhole.proboards.com/thread/60)

 

Tratto deleterio dei tempi che viviamo, questa incessante, pervasiva celebrazione del passato (che offre potenzialmente almeno un tributo al giorno) ha l'effetto di saturare gli spazi del presente, cristallizzando l'attenzione verso un tempo tramontato, bloccando ogni possibilità di innovare, sperimentare, guardare avanti come sarebbe naturale in una società vitale e dinamica. Un esempio accecante il proliferare di cover band: giovani musicisti molto capaci riescono a suonare in festival e locali solo a patto di ripetere il repertorio dei dinosauri del rock...

La gerontocrazia culturale (post sessantottina) sta facendo danni incommensurabili dal momento che cancella colpevolmente e violentemente i giovani dalla realtà e il loro naturale impulso a creare attraverso la manipolazione dissacrante del passato che in questo Occidente alla frutta al contrario è santificato.