Interviste
(In questa sezione, interviste a: Alberto Cesa, Gastone Pietrucci, Peppe Barra, Riccardo Tesi, Elena Ledda, Giovanna Marini, Davide Van Des Froos, Giulia Coltri (Mondine di Novi), Marco Pandin (Stella Nera - A-Rivista Anarchica), Nick Haeffner, Daniele Sepe)
Alberto Cesa
Cantovivo ha suonato da qualche minuto nella splendida piazza del paese, davanti a un pubblico caloroso ma intirizzito dal gelo, un repertorio appassionato di canti politici e del lavoro per celebrare il 25 aprile. Poco dopo, al caldo di un tavolo della “Crepa”, il prestigioso ristorante locale, da affabulatore qual è Alberto Cesa parla a ruota libera di musica, politica, esperienze di vita con rara passione e coinvolgimento...
“Quando ho parlato del mondo dei vinti ho fatto un riferimento storico, quelli che altri hanno definito “i muti della storia”, cioè la cultura popolare è la cultura di chi non ha avuto la possibilità di manifestare attraverso le forme che ha avuto il potere dal punto di vista delle sue espressioni storiche, di far valere le proprie idee, la propria cultura, la propria dimensione emotiva. “Il mondo dei vinti” non è soltanto il mondo degli sconfitti perché sono partiti per andare a combattere delle guerre che non gli appartenevano e sono morti sul campo… è il mondo di coloro che sono stati emarginati dal corso storico secondo la costruzione di una storia che non gli appartiene. C’è un mondo contadino, una cultura che poi è diventato anche operaia per la trasformazione della società che è un mondo che vive ai margini di quelli che decidono i destini dell’umanità. Ancora oggi succede. E la cultura popolare è, di fatto, per millenni l’espressione di questa realtà, ma sotto i giochi del potere e che comunque in parte ne viene condizionata, in gran parte anche sconfitta. Ma molte volte, come è successo nella Resistenza, decide invece di prendere il destino in mano e di ribaltare il destino della storia. Soprattutto in questa chiave avevamo deciso, quando siamo partiti nel ‘74-’75, di scegliere questa dimensione culturale, perché veniamo dai racconti dei partigiani ancora vivi, e la cultura popolare per me era questo, non i libri di storia, non gli studi etnomusicologici etc. Per me era proprio la realtà viva, fatti umani e persone, un contesto vero, che in parte ho vissuto nella mia storia personale. E’ una dimensione che oggi, in parte è stata un po’ abbandonata perché viviamo in una realtà molto stupida, molto finta, e allora ricostruire le questioni vere, anche da un punto di vista antropologico, fisico, anche le facce delle persone che vivono queste cose qua (un esempio semplice: guarda le immagini della manifestazione di Roma della CGIL, guarda gli anziani, i vecchi, i bambini, i giovani – quelli che hanno combattuto e lavorato una vita – a fianco di questi qui tu vedi le facce dei politici del centrodestra, di questa gente, di quelli che comunque parlano dello stesso tema ma con una chiara ipocrisia, però la verità sta purtroppo da questa parte, purtroppo perché siamo ancora sconfitti, perché il mondo non è il mondo possibile che sogniamo a livello internazionale, ma è questo mondo di merda in cui ci troviamo. Io non mi sento sconfitto, credo che io come altri penso che un altro mondo sia possibile. Che poi la storia siamo noi e che possiamo farlo non sono più così convinto, però non bisogna abbassare la guardia su questo. Anzi. E la musica non è da sottovalutare in questo contesto, perché se è vero che non può cambiare il mondo è però una testimonianza forte delle emozioni che si vivono. E quando la musica popolare scappa dal suo contesto e va nelle mani di chi manovra con la stessa logica del commerciale, del potere, di prendere le coscienze attraverso dei linguaggi più accattivanti, diventa pericolosa. Anche in Italia ho visto molte cose che sono sfuggite al controllo di quella che è la nostra idea di musica popolare. Non vorrei far dei nomi, ma ci sono molti che sono cresciuti nei centri sociali, che hanno fatto gli alternativi e quando arriva la major che ti fa i contratti poi scrivi nei testi “viva la bandiera rossa” ma in quel contesto lì è diverso, è come fare la pubblicità allo yogurt. La verginità si perde una volta, e poi non si riconquista. Personalmente credo ancora in questa coerenza anche penalizzante, perché capisci che vivere come abbiamo vissuto noi questa dimensione in modo così coerente è molto penalizzante. Credo però che alla fine se c’è qualche occasione per cambiare le cose noi siamo lì e siamo una risorsa, altrimenti rischi di essere uno dei tanti che pala e canta così per niente…”
Stasera hai citato Pasolini - Pasolini esce spesso nelle cose che scrivi, che canti, con la sua visione apocalittica che lo portò a decretare amaramente la fine della cultura popolare con gli anni cinquanta… Se accettiamo che quella cultura è finita, oggi cos’è per te “cultura popolare”?
“Questo è da capire, nel senso che nell’interpretazione del valore storico di una cultura popolare di base, fondata su valori che condividiamo rispetto a un porsi in una dimensione diversa da quella del potere, allora non esiste più – almeno in Italia, nel mondo occidentale. Esistono culture popolari legate alle radici della tradizione in altre parti del mondo, però noi qui non possiamo far finta che continuino le tradizioni… sono tutte palle! Pasolini ragionava con un pragmatismo del pensiero molto violento e preciso… Noi abbiamo capito che questa cosa non c’è più, ma allo stesso tempo non possiamo scappare col dire rassegniamoci perché in fondo oramai è stata sconfitta la cultura popolare, la memoria storica è stata sconfitta…. Lavoriamo per farla vivere, ma non per fare del nostalgismo semplice della bellezza della musica tradizionale, del “com’era bello quando eravamo poveri, il vino buono…” – tutte palle. Guardiamo la realtà: oggi ci sono delle formule antagonistiche nelle culture del mondo che magari hanno linguaggi diversi, ma che guarda caso quando si rapportano a situazioni che hanno rapporti profondi con la storia dell’umanità riprendono in qualche maniera anche il linguaggio espressivo della storia. Cioè, la “world music” è la parte commerciale di questa dimensione perché se con la stessa impostazione venisse riportata a un livello più profondo potrebbe essere valida, ma così come viene presentata manca di anima. E’ una grande rappresentazione, ma dove ci porta… Certo, è una cornice bella, efficace sul piano estetico – politicamente, è certo meglio inglobare degli africani e farli suonare con te che fare il leghista e dire “’fanculo ai nordafricani”… Il rischio è però quello di agire in termini espressivi a un livello solo superficiale, non in profondità… Personalmente amo molto la cultura africana, quella andina, ma per avere un rapporto vero devo viverlo, non posso inventarmi una cultura solo perché devo fare un’operazione politicamente corretta, devo sentirlo nel profondo. Allora, se devo fare una cosa che sento come passione emotiva, piuttosto allora mi cerco un suonatore di cornamusa scozzese… Però, è chiaro che invece mi prendo un djambè africano perché fa moda, è una tendenza sfruttata dal commerciale… Quindi dico: “attenzione a non cadere in queste trappole che non ci portano da nessuna parte”, perché non è né difesa della nostra storia, né ricerca di una prospettiva utile e concreta per tutti: è una via di mezzo un po’ strana dove, guarda caso, si insinua sempre il mercato…”
Tu in genere parli di “incontro fra culture”…
“Esatto, “incontro”. Il fatto è di incontrarsi in maniera naturale, perché abbiamo dei sentimenti comuni rispetto alla realtà. Ho amici peruviani, brasiliani, scozzesi – mi sento in sintonia con chiunque viva la prospettiva del mondo che vivo io, chi lavora pensando di poterlo cambiare, non seconda la logica della costruzione musicale che stanno forzando le grandi case discografiche perché tira di più ecc…. Noi usavamo la fisarmonica quando tutti dicevano “che cazzo fai, cosa usi la fisarmonica…”: adesso tutti suonano la fisarmonica… Puoi avere il tamburo africano o il darbouka – mi sta bene tutto – ma il rischio in questo frangente è che si faccia solo commercio, senza andare da nessuna parte…”
Secondo te, allora, quali sono i luoghi in cui oggi la cultura popolare ha ancora il significato che aveva quando avete iniziato l’esperienza di Cantovivo?
“Prima di tutto, dove c’è ancora la tradizione vera, realtà dove che dal punto di vista storico sono arretrate rispetto alla modernizzazione, che per l’Occidente ha il significato di “arretratezza ambientale e culturale”. Possono essere alcune aree del sud italiano, della Sardegna, isole un po’ separate da quello che è il processo di sviluppo, di produzione ecc. Poi, credo che la creatività, l’innovazione, oggi, parta dal capire cos’è stata la nostra storia – un po’ quello che sta cercando di fare, in piccolo, molto in piccolo, il sindacato, con le rivendicazione finalizzate al recupero della dignità del lavoro. Quella cioè che è stata la più autentica cultura popolare, cioè l’anziano che ha combattuto per occupare le terre in Calabria, come l’operaio della Fiat ecc., che è la nostra storia più recente, di 50-60 anni fa. Questo può rappresentare un punto di partenza per costruire qualcosa. Sul piano espressivo, della musica, delle arti in genere, è difficile collegare questi aspetti. Io posso raccontarti attraverso le canzoni,come abbiamo fatto stasera, mille cose che riguardano queste cose, ma per i giovani che arrivano qua e che non sanno e non vogliono sapere, cosa posso dire a loro, è difficile dargli un motivo per essere presenti in questa realtà. Allora credo che l’unica cosa che possiamo fare, noi che abbiamo una certa età, è quella di essere sinceri, raccontar la storia, dare emozioni e spiegare, senza alcuna pretesa di essere insegnanti, con l’attitudine di comunicare e ascoltare per poter costruire eventualmente qualcosa insieme. Da un punto di vista musicale, deve essere qualcosa che sconfigga la logica della finta alternatività, appiattita sul mercato.”
Che interpretazione dai alla tua generazione, rispetto ai destini che oggi si possono osservare. Dicevi che per quanto riguarda Cantovivo, che la vostra etica è sempre stata la coerenza costi quel che costi…
“Devo ammettere che molte volte mi vien voglia di emigrare. Ad esempio in Portogallo, poi vince il centrodestra; in Francia ha vinto il centrodestra… Alla fine non abbiamo vie di uscita. La mia generazione che ha imparato da quelli che hanno fatto i partigiani, che ha imparato delle cose importanti sul piano della coerenza, dell’impegno e così via, che però ha corso il rischio di sbandare – la mia generazione, ad esempio, è anche quella dei Curci, dei Franceschini, che hanno fatto scelte diverse dalle mie: io ho fatto una scelta più moderata, per certi aspetti, però con un grande sogno che era quello di cambiare il mondo, e adesso che rispetto a quella prospettiva tutti gli ideali sono crollati e il mondo è sotto la mano di una grande famiglia che gestisce sopra le nostre teste tutto – dal denaro, alle comunicazione, al futuro – noi cosa possiamo fare se non cantare la nostra disperazione? Ma senza piangerci addosso: anche se sono disperato e a volte mi sento uno sconfitto, mi sento dentro una grande vitalità per poter dire e pensare delle cose, essere costruttivo come diceva Pisolini attraverso la poesia, l’arte, delle forme che apparentemente sul momento potrebbero sembrare banali e non efficaci, ma che alla fine possono contribuire a cambiare la realtà…”
L’arte non come specchio ma come martello, insomma…
“Esatto. Bretch diceva anche che in fondo in tempi di guerra parlar di alberi è un delitto, non ha senso. E’ vero, però mi rendo conto che oggi quelli che fanno i balli popolari e raccontano la cultura popolare in un certo modo non sono dei delinquenti – li combatto anche un po’, perché credo si debba ragionare sempre in termini “politici” – l’importante è sempre sapere dove si vuole andare, quali sono le matrici autentiche di quello che si sta facendo, perché altrimenti tutto può avere una sua legittimità, anche i Ragazzi di Salò, anche se sappiamo che non è così, perché la verità storica non si può strumentalizzare e travisare, ci sono dei punti fermi da cui dobbiamo partire…”
Il rapporto con le fonti è quindi fondamentale. Come vedi la necessità di rivitalizzare gli archivi in un paese in cui il museo è concepito quasi sempre come qualcosa di morto? Come rendere la nostra memoria storica viva?!
“Il problema oggi è quello di mantenere da un lato la coscienza storica di quello che è successo – quindi raccogliere le fonti, come ha fatto ad esempio l’Istituto De Martino o noi stessi, catalogarle, metterle a disposizione di chi è interessato e vuole usufruirne, semplificando gli apparati istituzionali, la burocrazia, rendendo più diretto l’accesso; dall’altro, partire da quelle fonti per rielaborarle, ma senza aver paura di “spettinarle”, senza timori reverenziali verso chi museizza questi documenti, e, però, senza arrivare a stravolgerle al punto da rendere irriconoscibili. Io dico: salviamo la tradizione, i documenti storici, ma lavoriamo da lì in poi con lo scopo di costruire qualcosa che abbia un senso rispetto alla realtà in cui viviamo oggi. Una ballata medievale piemontese, provenzale o calabrese, devo presentarla non soltanto con l’intento di fare un’operazione estetica, ma per inserirla in un contesto espressivo che mi corrisponda emotivamente, cercando di risultare accattivante a chi mi ascolta. Come faccio ad essere accattivante? Ho due strade: la prima è quella facile, ed equivale ad utilizzare gli strumenti della modernità – faccio rap, un po’ di rock…; l’altra, la più difficile, comporta l’usare la ballata o la canzone ecc. mantenendola per quello che era, ma aggiungendo qualcosa di nuovo in funzione del suo linguaggio originario. Fare in modo cioè di esaltare gli elementi della medioevalità, se sto lavorando su una ballata medioevale, rendendola moderna, attuale e piacevole all’ascolto anche per un bambino di otto anni che vive a Perugia o Torino. Altrimenti ne facciamo un’operazione puramente estetica che non c’entra nulla col valore originale del brano. Con Cantovivo abbiamo cercato di farlo. Lo puoi fare attraverso strumenti, linguaggi, in mille modi diversi, ma alla fine se sei sincero, se sei comunicativo, il messaggio arriva allo scopo. La comunicazione si mantiene aperta, con prospettive nuove per andare avanti: quello che secondo me conta, oggi, è non chiudere porte dietro di noi, ma semmai di aprirne davanti, in tutte le dimensioni dell’arte, della politica, del lavoro, della vita.”
A proposito di relazioni umane, di comunità. Volevo sapere che rapporti hai con la tua terra, il Piemonte, che ha storicamente una lunga tradizione di gruppi musicali popolari… Ti vedo un po’ isolato, un cane sciolto…
“Sono un po’ fuori dal giro, esatto… Sono un battitore libero per scelta, perché… Non voglio fare polemiche o critiche ad alcuno. Ci sono situazioni che non condivido e le ho anche manifestate per cui chi mi conosce lo sa… Rispetto al discorso della musica folk ho un mio mondo che mi corrisponde, in cui sto bene, che non è quello del successo commerciale, per carità, ma riguarda coloro che non si vendono alle logiche di scambio – “io ti faccio venire qua, tu vai a suonare là…”, i favori, le clientele… - a me non me ne frega un cazzo. Quello che credo sia importante per noi, ed è quello che sto facendo ancora adesso, è di far vivere questa esperienza nella sua semplicità. Riconosco che dal punto di vista musicale ci sono molti gruppi validissimi, interessanti, che mi piacciono – Baraban, Riccardo Tesi, e’ Zezi, La Macina… - ma credo che per quanto mi riguarda, almeno rispetto al Piemonte, è che Cantovivo si distingue dagli altri perché crede che la scelta di far musica popolare sia anzitutto una scelta “politica”, prima ancora che estetica e culturale e su questo, per la verità, mi sembra di non avere molti amici intorno… Non penso si possa fare musica popolare senza pensare che la cultura da cui proviene appartiene a un mondo che è quello dei “vinti”, come dicevamo, e che deve distinguersi da qualunque altra logica di musica e di cultura… Tutti o quasi, purtroppo, lavorano in un’ottica estetizzante, magari corretta dal punto di vista filologico, perfetta nelle esecuzioni, ma lontana dai vissuti, dalla realtà. Non sono presenti, vivono nei circuiti mediatici, sono implicati nella produzione, ma non c’entrano un cazzo con l’idea di rivitalizzare un modo di pensare che sia alternativo a questo mondo di merda in cui viviamo… Pensa solo a tutto quello che ha prodotto Porto Alegre, il movimento no-global… non c’è musica, ancora. Infatti mi hanno chiesto di fare qualcosa, e sono anche d’accordo, ma è difficile partire da lì: è un sentimento molto forte quello di essere contro il liberismo selvaggio, contro lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, però se da un punto di vista culturale dobbiamo pensare a una musica che sia espressione di ciò, cosa possiamo fare? Andiamo dietro a Manu Chao? E’ simpatico… però dietro di lui cosa c’è?! A me piacciono personaggi come Ivan Della Mea perché sono comunque fuori da queste logiche. Però, purtroppo, non è che lo si possa “usare” come puoi “usare” Manu Chao… è stato importante, niente da dire, ma non lo si può spendere con risultati efficaci. Dobbiamo usare persone che hanno un grande peso culturale per darglielo attraverso una nostra investitura, cosa che in genere non accade perché le majors sono interessate ad altro. Su questo siamo un po’ indietro, anche se a conti fatti non sono pessimista. Sono un po’ in crisi per quello che sta succedendo, però vedo intorno molta gente reattiva che crede in un altro futuro possibile.”
Non ti ha mai sfiorato l’idea di cantare l’oggi come un hobo contemporaneo, con la chitarra alla Guthrie che “uccide i fascisti”?
“E’ una cosa che voglio fare, che ho in testa. Il 7 maggio, a Pisa, ad esempio mi hanno invitato in occasione della commemorazione dell’omicidio di Serrantini, ucciso dai fascisti. Mi hanno detto, però: “Non vogliamo che tu venga lì solo a cantare, ma ci piacerebbe che tu ci racconti cosa pensavi in quegli anni lì”. Mi è sembrata una cosa molto interessante, perché rimette in primo piano anche la dimensione umana di chi ha vissuto quelle esperienza da vicino. Non è che da un punto di vista politico la cosa mi sembri risolutiva, perché in fondo è perdente, non ha un a progettualità dietro che cambierà il mondo, ma questo piccolo contesto che è Pisa, che ha una sua storia, che vive la cosa con questo atteggiamento mi sembra positivo. Trovo importante che si valorizzino le esperienze di chi ha da raccontare…”.
(intervista a Isola Dovarese (CR) del 27 aprile 2002, inclusa nel volume "Folk Geneticamente Modificato", Stampa Alternativa 2003)
Peppe Barra
Al “Folk Club” di Torino, diretto da Franco Lucà, storico musicista della Ciapa Rusa, poco prima dello splendido recital in cui ha presentato brani dal suo ultimo album “Guerra”, tra storielle, canti tradizionali e Carosone, scambio qualche opinione con Barra, uno dei mostri sacri dell’italica tradizione popolare…
Vorrei conoscere la tua opinione su quanto è accaduto negli ultimi 15-20 anni in Italia, dopo il cosiddetto primo folk revival, quel non-movimento che portò tra gli altri al grande contributo della Nuova Compagnia di Canto Popolare…
“Diciamo che la Nuova Compagnia di Canto Popolare - è importante fare molta attenzione su questo - non ha mai fatto revival. La Nuova Compagnia di Canto Popolare ha fatto “la Nuova Compagnia di Canto Popolare”, e ha tratto il suo repertorio dal mondo popolare - un patrimonio che è sacro e intoccabile - perché quello già cantato e ballato dai portatori di musica popolare non poteva essere scimmiottato dal gruppo… Per cui non c’è mai stato un revival, ma questo grande patrimonio è stato divulgato dalla Nuova Compagnia tenendo presente il contesto di allora (eravamo tra la fine degli anni ’60 e gli inizi dei ’70…), con i nostri presupposti chi di musicista chi di attore, chi di cantante, per cui è molto importante sapere che i concerti della Nuova Compagnia venivano proposti al pubblico in modo sempre diverso. Pur avendo a disposizione lo stesso materiale, ci basavamo sullo stato d’animo del momento in cui si andava a proporre il pezzo, per cui ogni volta si trattava di una creazione della Nuova Compagnia di Canto Popolare che teneva presente la matrice popolare ma di fatto non faceva revival. Anche perché in quel momento il revival già non lo si poteva fare. Erano i giorni del ’68 e c’erano ancora in circolazione grandi cantatori - tra l’altro mia madre Concetta, Otello Profazio e Matteo Salvatore, Rosa Balestreri, Maria Carta, Matteo Salvatore - grandi esponenti del mondo popolare vero come il Duo di Piadena, Giovanna Marini, Giovanna Daffini e Caterina Bueno, tutti questi grossi nomi che facevano mondo popolare vero perché avevano vissuto il mondo popolare come mia mamma Concetta… Noi no, anche se però con la Nuova Compagnia di Canto Popolare abbiamo riportato un po’ alla luce questo mondo facendolo conoscere al pubblico che non sapeva di questo grande patrimonio…”.
Certo, è probabile che si trattasse di un’etichetta giornalistica d’effetto quella di parlare di revival, anche se in effetti lei stesso ammette che la vostra generazione non aveva vissuto direttamente le tradizioni…
“In effetti, no, ma fortunatamente soprattutto io avevo alle spalle una mia cultura popolare, lo stesso Giovanni Mariuello, gli altri meno, ma io e Giovanni avevamo alle spalle una grande cultura popolare che abbiamo potuto esprimere attraverso i concerti. Io avevo come riferimento mia madre e i miei nonni, Giovanni Mauriello aveva il padre. Ero nato in una famiglia d’arte - mio padre attore, mia madre già attrice e cantante, ma con un retaggio popolare perché era una cantatrice ufficiale procidana (tra l’altro l’anno scorso le hanno dedicato una strada a Procida…) -, per cui diciamo che la Nuova Compagnia di Canto Popolare aveva il privilegio di poter fare riferimento anche a queste persone… Era un nucleo molto importante, Roberto de Simone è stato quello che ci ha guidato in questo mondo, il mondo misterioso delle tradizioni popolari. Un mondo anche sacrale, per cui noi abbiamo toccato con molta delicatezza il mondo popolare e lo abbiamo riproposto con eleganza. Questo è stato il nostro grande merito…”.
Direi proprio di sì… Anche recentemente mi è capitato di risentire alcuni vecchi dischi in vinile della Nuova Compagnia, alcuni del vecchio catalogo li hanno anche rimasterizzati in CD in questi ultimi anni…
“Esistono ancora… Adesso quello che fanno non mi interessa…”
E’ un’altra storia, non le appartiene più…
“No, assolutamente… Non voglio nemmeno…”
Volevo dire che riascoltando oggi i vecchi lavori vecchie cose in vinile che pur avevo ma ormai triturate dagli ascolti in cd quindi rimasterizzate, qualcosa per fortuna, sta uscendo ancora anche se a fatica devo dire che è di un’attualità quella musica straordinaria, una lezione oggi che vale ancora…
“Ogni tanto ultimamente mi è capitato di fare degli incontri con i giovani. L’ultimo è stato la settimana scorsa all’Università Bocconi di Milano, un altro l’ho avuto a Genova, all’Università di Filosofia… Dico sempre ai giovani quello che ho appena detto, che la Nuova Compagnia di Canto Popolare ha avuto il grande merito di poter lottare in quel preciso momento storico… Fortunatamente ci sono ancora i documenti e andrebbero un po’ più rispettati, un po’ più valorizzati, analizzati. Spero di poterlo fare io, per lo meno, anche perché vedo tanta attenzione nei giovani, soprattutto in questo ultimo periodo, in cui si formano vari gruppi, vari momenti di amore per queste tradizioni… Dico sempre che se io avessi la possibilità di farlo - purtroppo faccio teatro, faccio musica e tempo non ne ho molto a disposizione – se le istituzioni mi permetteranno di farlo sarei contento di poter dare delle lezioni ai giovani…”
Proprio alla luce di quello che diceva del clima che viviamo oggi di rinascita o perlomeno di un interesse rispetto alle tradizioni - anche nella sua regione, nella sua città in particolare, sempre così attiva con i vari Daniele Sepe, Tamburi del Vesuvio, Nando Citarella… - volevo sapere come vede questa nostra contemporaneità…
“Come dicevo c’è interesse, anche se non si tratta di un interesse puro, non so se mi spiego, visto e considerato che purtroppo subiamo un elemento disgregativo - molto negativo in certi casi - che è la televisione, che manda continuamente messaggi sbagliati ai giovani… Allora, l’obiettivo di un giovane che vuole riproporre oppure vuole creare, vuole essere, come si dice in termini facili, artista - è molto difficile questo termine, questa parola: artista – è…”
… la disciplina, il rigore…
“Ma no, è soprattutto umiltà, modestia, non c’è dubbio… In pratica, il pericolo è proprio questo: il trampolino che ai giovani fa comodo è quello di alzarsi la mattina e dire “adesso vado da Maurizio Costanzo e divento una persona famosa”… per un momento, poi cosa succede se tu non hai alla base esperienze, amore, vita da dare?! Cosa puoi dare, cosa resta… Questo è il pericolo che corrono i giovani e il messaggio che mando sempre a loro è: attenzione, il successo bisogna guadagnarselo, ma il successo non serve perché da alla testa. Bisogna invece parlare col cuore, il cervello va bene perché bisogna averlo, bisogna essere delle persone, però soprattutto avere il cuore, perché l’artista è soprattutto cuore. E’ immaginario, espressione, poesia. Se si esclude tutto questo pur di arrivare, allora è sbagliato…”
Secondo me uno degli elementi più critici della contemporaneità in cui viviamo è il rapporto con la memoria. Lei come vede oggi il rapporto fra la musica e in genere l’arte popolare e la comunità, considerato il fatto che le comunità - forse anche a causa della televisione - sembrano disgregate, sembrano non avere più un’identità loro…
“Vorrei far capire che le nostre radici andrebbero più rispettate, andrebbero non solo analizzate, o utilizzate per poter fare delle cose, ma andrebbero amate, e oggi come oggi con tutti i problemi che ci sono - guerre, politica, lotte di potere e tutto questo disinteresse per la cultura - è chiaro che a farne le spese per primi sono le giovani generazioni. Quando eravamo giovani noi, avevamo più interessi perché intorno esisteva un habitat anche famigliare molto solido, cosa che purtroppo adesso non c’è più. Non voglio fare della facile retorica, però credo che la famiglia sia molto importante e oggi purtroppo non ci sono più i modelli positivi in circolazione. I giovani sono diversi, non voglio dire che sono necessariamente sbagliati, però sono diversi e soprattutto, questa è una cosa importante secondo me da dire, non c’è più l’immaginario, non c’è più il fantastico…”
Secondo lei a cosa è dovuto esattamente?
“Beh, basta osservare il mondo: il consumismo, l’arrivismo, il potere, il malessere diffuso, il peggioramento ecologico… Il pianeta va a rotoli e ne risente il respirare. Respirare aria pulita significa rigenerare il sangue. Se i giovani fossero a contatto con una natura fresca, vera, pulita avrebbero altri pensieri, no? Il cuore si aprirebbe di più, il sangue defluirebbe meglio… Per cui di cosa stiamo parlando? È tutto un po’ sbagliato, questa situazione è un po’ tutta negativa e allora la prima cosa che in questo contesto ammiro veramente sono i giovani che difendono la natura perché la natura è importante. Tutto quello che abbiamo avuto fino adesso lo abbiamo avuto perché gli antichi rispettavano la natura, a cominciare dai riti di fertilità…”
Riti pagani…
“Riti pagani che comunque hanno preservato e hanno fatto sì che noi fino all’inizio del secolo scorso eravamo più sani e più disponibili vero la poesia, verso un mondo migliore. Abbiamo avuto guerre, abbiamo avuto tragedie, sofferenze, però ci salvava questo amore che la terra ci ridava…”
Amandola …
“… amandola … oggi non avendo più questo a che cosa si riferiscono i giovani?”
Però, ad esempio, potremmo immaginare un tipo di canzone popolare o di cultura popolare o di arte popolare antagonista al sistema attuale e di motivi probabilmente ce ne sarebbero…
“Certo… certo…”
Ma come mai non ci sono esperienze significative? Perché? Il problema è che non ravvedo intorno a me molti esempi di nuove creazioni. Si fa del revival oggi anche molto ben suonato ma…
“C’è anche un’altra cosa da dire: stiamo vivendo un periodo che io spero finisca presto perché è molto drammatico - davvero drammatico - e questo dramma che stiamo vivendo sia politico che sociale non è molto incoraggiante. Tutte queste onde negative che arrivano rendono difficilissimo pensare alle altre cose, concentrarsi, e amare tutte le cose è molto complicato…”
Per cui è per questo che ritiene difficile che oggi possa fiorire una nuova stagione di cultura popolare antagonista…
“No, nonostante tutto non sono pessimista, sono sempre ottimista, e spero che col passare del tempo, in breve tempo, si possano capire di più questi problemi e risolverli…”
Visti poi i risultati di critica ottenuti da “Mo Vene” - il Premio Tenco, gli stessi appassionati che non sono tenuti ad avere competenze specifiche in termini di analisi rispondono con grande partecipazione e amore ai suoi concerti, questo ultimo album “Guerra”, ben accolto dalla critica - mi chiedo come mai è così parco nel donare nuove registrazioni?!
“Perché ho avuto troppo poco tempo… Perché poi sono una persona che se deve fare le cose o le fa bene o non le fa, e ho avuto poco tempo per farle perché mi sono dedicato quasi interamente al teatro e il teatro mi ha preso molte delle mie energie. Un altro motivo è che i mie dischi sono nati dagli incontri con le persone – “Mo Vene”, ad esempio, è stato inciso perché avevo conosciuto Savio Riccardi che mi ha dato questo input, mentre per “Guerra” c’è stato Lino Canavacciuolo con questo nuovo gruppo con cui abbiamo ripescato, rimaneggiato brani tradizionali, tutto qui. Tutta la mia carriera, tutta la mia vita artistica è stata determinata da incontri e gli incontri sono importanti. Nella Nuova Compagnia c’è stato Roberto de Simone, ma non solo: in quel periodo ho conosciuto Carpitella, Lomax, Nino Rota, per cui gli incontri determinano le esperienze e le strade da prendere. Ti arricchiscono, anche, ed è chiaro che quando poi ci pensi, ti fermi un attimo a pensare, è chiaro che poi il risultato ti fa vincere il Premio Tenco, se no non è possibile…”
Si nota anche ad un ascolto superficiale un sensibile salto tra il primo disco e “Guerra”…..
“Beh, perché si evolve…”
In tema di materia compositiva mi sembra di poter dire, mi scusi se azzardo un’analisi, che il primo lavoro è più radicato alla tradizione…
“Perché il mio pensiero era ancora vicino verso certe cose…”
L’ultimo album, invece, lo trovo più vicino a certe forme che oggi verrebbero definite etniche piuttosto che word music…
“E’ chiaro, forse il prossimo disco sarà ancora diverso, se Dio mi da la forza di farlo, ancora più… Andrà al di là di certe cose, studierò, analizzerò, amerò e cercherò di comunicare…”
Mi tolga un’ultima curiosità: il tributo a De Andrè, so che è stato voluto espressamente da lui…
“De Andrè, conoscendomi e avendo quella straordinaria sensibilità che gli riconosciamo (ormai lui è dentro di noi…), essendo persona molto legata alle tradizioni, a quel filo poetico che univa Genova e Napoli, pensò appunto di farmi scegliere una sua canzone da interpretare e io scelsi “Bocca di rosa” perché è stata una delle canzoni che ho sempre amato…”
Il progetto era “Canti randagi”…
“Quella di “Canti randagi” è stata appunto la possibilità, il pretesto di poter recuperare il testo di De Andrè riproponendolo in chiave napoletana nella bellissima traduzione di Vincenzo Salemme. Poi, la mia interpretazione e l’apporto sia di Savio Riccardi che di Nino Canavacciuolo hanno cercato di renderla ancora più viva e anche più sensuale, più napoletana…”
Un po’ come ha fatto con “Don Raffaè”, no?...
“In “Don Raffaè” c’è più teatro.”
Il continuo cambio di registro…
“Sì, perché c’è più il registro teatrale…”
La parte del paletò resta uno dei momenti della canzone più evocativi…
“Mi piace comunque prendere pezzi del repertorio di altri artisti e stravolgerli a modo mio, come ho fatto con varie canzoni di Renato Carosone, tipo “Pigliate n’a pastiglia” che ho fatta mia perché mi piace rievocare queste cose riproponendole alla mia maniera, magari più attuale, più folle. Io amo la follia, sono una persona folle, molto folle.”
Per cui la follia…
“La follia è quella condizione dello spirito che mi da la spinta per poter fare certe cose… Certo un cinquantottenne se non tiene la follia…”
A proposito: come reagisce alla classica definizione usata nell’interpretarla, nel giudicarla: istrionico. Io non la considero sempre così felice…
“Non mi piace molto la parola istrionico.”
“L’istrionico Peppe Barra”
"L’istrionico è più vicino al narcisismo, io sono narciso, perché chiaramente un po’ tutti lo siamo e soprattutto un attore, un artista lo è. Però sì, la parola istrionico è un po’ fuori luogo ma è sempre stata detta benignamente, affettuosamente. Ma forse quelli che hanno usato questo termine si sono rifatti al mio modo di propormi, di impormi al pubblico giocando, scherzando e non far perdere mai l’attenzione che il pubblico ha. Forse questo può essere inteso come istrionismo…”
Un’antica televisione da cui dovrebbero imparare spesso gli addetti ai palinsesti… Grazie infinite, è stato gentilissimo.
(intervista al Folk Club di Torino del 22 dicembre 2002, inclusa nel volume "Folk Geneticamente Modificato", Stampa Alternativa 2003)
Riccardo Tesi
Nell’ambito della fortunata rassegna che si tiene al Teatro ponchielli di Cremona, Tesi ha da poco concluso il suo spettacolo “Un ballo liscio”, basato sul bellissimo disco omonimo del 1994. Poco dopo, nel camerino, è disponibile per una chiacchierata…
Cos’è, per te, oggi in Italia la musica “popolare”?
“Guarda, dipende da che punto di vista la osservi. Ho anche una formazione da etnomusicologo, anche se non mi sono mai laureato, quindi se segui quell’accezione lì, è una cosa, se segui l’accezione di introduttore discografico è un’altra; se segui l’accezione del pubblico, delle etichette discografiche, degli “scompartimenti” dove viene venduta la musica etnica è un’altra ancora… Ormai, con l’etichetta “world music” si va dal suonatore tradizionale di launeddas a Peter Gabriel, quindi dentro ci stanno operazioni musicali estremamente distanti l’una dall’altra, accomunate a un riferimento alla tradizione, ma che può essere la tradizione stessa vissuta in prima persona -–il suonatore etnico che è nato nel villaggio e suona la musica del villaggio per la comunità, quindi fa parte della comunità, a suonatore – come nel mio caso – che non sono nati come musicisti etnici, che non hanno cioè una mentalità etnica, sono appassionati di musica etnica (io sono stato appassionato di musica etnica e lo sono ancora…). Però, dal momento che sono musicista e monto sul palco per fare la mia musica non sono un musicista etnico – sarebbe un bluff, perché non lo sono dalla nascita, non ho quel tipo di cultura e di mentalità, cono talmente “contaminato”, espressione orribile, che ho una cultura urbana. Per me è stata solo una grande passione, ma mi sarei potuto interessare al jazz o alla musica indiana, o del Pakistan, e sarebbe stata esattamente la medesima cosa. Diciamo che ho una mia storia personale, insomma… Poi viene il mercato, nel quale principalmente circuito: è il mercato della “world music”, quindi festival che prima erano festival di musica “popolare”, poi musica “folk”, poi “etnica”, quindi “world” – tutte etichette che nel corso degli anni hanno comunque sempre indicato un movimento che è nato con il “folk revival”, in America con Pete Seeger o Woody Guthrie, per poi diffondersi un po’ ovunque. Faccio parte di quesi musicisti che hanno comunque una grande attenzione alle radici, però io faccio la mia musica, firmo i miei pezzi. Qualche volta lavoro sulla musica tradizionale, ma comunque la devo sempre far mia. Trovo sia inutile che io faccia della musica tradizionale esattamente com’è, se non semplicemente per un criterio estetico: penso che cambiarla la rovinerebbe, per cui a quel punto la suono esattamente com’è, perché mi piace così, ma non perché si debba fare questo… Non sono portatore di nessuna tradizione, faccio semplicemente la mia musica. Ho una curiosità veramente onnivora, cercando di avere sempre uno stile mio. Quello che per me è importante è il “pensiero musicale”, che ha molto a che vedere con la musica “etnica”, avendola praticata, studiata ho una certa forma mentale che però non si limita solo a quello, perché ho anche praticato altri stili. Dai jazzisti ho preso delle cose, dai cantautori delle altre... sono un po' il risultato delle mie esperienze. Io credo che la cosa migliore sia essere sé stessi, sinceri, ognuno è il musicista che è in basealle esperienze che ha avuto e ha quindi un gusto personale, e fa la musica in base alla propria idea del bello.
Immagino, quindi, che ti possa infastidire l’idea di essere parte di un “movimento”, per quanto presunto…
“No, guarda, ti dirò che per certi versi ne sono fiero, nel senso che comunque c’è stata e c’è una grande passione da parte mia. Anzitutto la mia vita musicale è legata a uno strumento tradizionale e a un movimento di persone che come me si stava interessando a una musica che stava morendo, a balli che non si ballavano più, a strumenti che non si suonavano più, e tutto questo movimento ha fatto in modo che adesso queste musiche sono suonate di nuovo e sono stati documentati i suonatori tradizionali, che sia stata studiata questa musica, analizzata, spiegata, che ci sia una nuova pratica di questi strumenti che non è più tradizionale, perché gli organettisti di Milano non sono più quelli della tradizione, ma è bello che questo strumento viva ancora. Dobbiamo sapere quello che stiamo facendo veramente -–facciamo un’altra cosa – però la musica va avanti: l’organetto non nasce come strumento tradizionale, all’inizio era stato usato dalla borghesia, poi è sceso nelle classi popolari. Quindi si è trattato di uno strumento di produzione industriale di cui si sono appropriati i musicisti tradizionali per fare la loro musica. Ma è lo stesso tipo di operazione che abbiamo fatto noi, magari in senso inverso, cioè tirarlo fuori dalla tradizione per fare la nostra musica… Però l’importante è che viva l’organetto, che abbia ancora qualcosa da dire, che sia uno strumento. La cosa che mi appassiona di più sono quei musicisti che partendo da strumenti tradizionali , da musiche tradizionali, la spingono in avanti facendo musica personale, facendo uscire da un contesto che rischia di essere ghettizzato. Pensa ad esempio a Totore Chessa, un organettista tradizionale che però suona a un livello stratosferico. Io non potrei fare la stessa cosa, perché non sarebbe sincero.
Sarebbe una forzatura, in qualche modo…
“Sì, è anche possibile… Ci sono persone che si mettono a suonare con uno strumento uno stile finché lo suonano benissimo , fino a che diventano quasi rappresentanti di quello stile. Va bene anche così, certo, ma non è la mia storia. Io ne ho un’altra, preferisco raccontare le storie che mi emozionano e sono tante…
Secondo te, che legame hanno le musiche di cui parli, la tua musica, con la gente? Se un’accezione ormai superata se vuoi dalla cosiddetta “globalizzazione”, dal “villaggio globale” che vede il declino della comunità e quindi la musica “popolare” nella vecchia accezione rischia di non essere più rappresentativa di una comunità, come vedi tu, a questo punto, il rapporto tra musicista “etnico” e quella che un tempo era la sua comunità di riferimento e che oggi non c’è più….?
“Mah, ci sono casi in cui continua a esistere. Ad esempio, se prendi Luigi Lai alle launeddas, lui suona esclusivamente per un pubblico sardo, che capisce la sua musica, ha ancora una comunità di riferimento. I musicisti irlandesi hanno ancora una comunità di riferimento, così i baschi… Pensando all’Italia, in realtà, esistono delle sacche, in verità, zone in cui queste musiche sono suonate e ballate ancora – quella è la dimensione tradizionale, che esiste – in altre zone le cose si sono evolute, come nel caso del liscio. Anche il liscio è stata un’evoluzione. Non è più musica tradizionale perché è musica d’autore, da un punto di vista etnomusicologico non è possibile interpretarlo come tale, però nella funzione ha sostituito il liscio. Ma anche la “house music”, allora, perché ha la funzione di far ballare, però in un ambiente urbano… E’ stato il risultato della globalizzazione, dell’industrializzazione: differentemente da quello che è stata prima, la musica tradizionale quando cessa di avere una funzione decade, quindi sparisce. E’ importante che gli etnomusicologi documentino, perché è una parte importante della cultura, è la memoria, e questa va preservata. Poi, di questa memoria, ognuno ne fa l’uso che gli pare: o può fare un’operazione estremamente fedele, del tipo “questa musica si suona così” – è una delle operazioni possibili, va bene; oppure si parte dalla memoria per andare avanti, io sto facendo questo: in sostanza, a me interessa fare una musica che sia di oggi, per la gente di oggi – urbana. Non ho una comunità di riferimento, ma mi interessa che la mia musica abbia delle radici, che non sia di stampo anglofono perché la “pop music” viene da là e credo che sia interessante che un italiano suoni la “pop music” a suo modo. Quindi esistono anche dei gruppi “pop”, “rock” che fanno un’operazione analogo: a suo tempo il Canzoniere del Lazio faceva cose che mi piacevano, che continuano a ispirarmi perché è il tipo di operazione possibile che secondo me ha senso oggi. E’ inutile scimmiottare il gruppo inglese di Bristol perché va di moda. Si possono usare certe tecniche, intendiamoci, a me interessa e non sono contrario al fatto di poter usare certe tecnologie, però con una sensibilità “italiana”, cioè di essere in qualche modo riconoscibili. Ci sono delle cose anche di rap che a me piacciono, le forme un po’ più “italiane”, che fondono alcune cose della tradizione, come i Sud Sound System, ad esempio. Le cose che succedono ad esempio in Puglia, nel Salento c’è una scena molto ricca e interessante, anche sul piano della sperimentazione di nuove soluzioni espressive…”
Un aspetto che mi interessa è il rapporto con il mercato, l’industria discografica, la produzione e la distribuzione di musica, dal momento che la musica “tradizionale” è da sempre considerata espressione di una minoranza… Mi pare che tu, al contrario, sia riuscito a dimostrare che si può suonare musica “etnica” mirando alle grandi platee…
“Béh, si è trattato di semplice sopravvivenza, in realtà… Ho avuto la fortuna di stare per un po’ di tempo in una bellissima etichetta, la Silex, che è stato un sogno per tutti perché era la versione “etnica” della ECM, finché questa non si è scontrata con il mercato. Le vendite non sono state sufficienti per assorbire la produzione… Poi il problema qual è: cosa fai, entri in una major dove sei l’ultima ruota del carro, dove non credono in te, sei legato mani e piedi, diventano proprietari della tua musica e non ti promuovono, niente…?! No, non mi interessa. Lavori per le piccole etichette, con pochi mezzi… Situazione simile. Attualmente la mia posizione è questa: sono io il padrone della mia musica, io detengo i diritti e quindi io sono il produttore. Io investo, il disco lo pago io, poi lo do in licenza. Finora c’è stata questa operazione con il Manifesto che comunque ha fatto 14mila copie con il primo di Banditaliana,, quasi 10mila il secondo, che è comunque uscito da un anno: sono belle cifre e, soprattutto, hanno un prezzo tale chela gente rischia anche di comprare il disco, perché 8 euro è un prezzo irrisorio e uno può acquistarlo anche se non ci conosce a fondo. Anche perché non avremo mai la promozione per arrivare dovunque, in modo che uno entrando in un negozio ci possa conoscere. Quindi, la nostra possibilità di vendita è quella di avere prezzi contenuti e di poterci far conoscere attraverso i concerti. Per l’estero, invece, ho un contratto con Felmay perché comunque è un’etichetta solida, onesta, che occupa un suo spazio a livello mondiale, che non è da multinazionale, evidentemente, ma ci serve per ammortizzare le spese di produzione e ci permette di farci conoscere e suonare dovunque.”
Oltretutto, mi pare che uno dei punti di forza di Felmay sia il catalogo, il fatto che diversamente da quanto accade di solito, una volta uscito il disco non rischi di sparire dopo pochi mesi…
“Ecco, è vero, ti basti pensare che con Silex, purtroppo, ho due dischi fuori catalogo e il “Ballo Liscio” era già fuori catalogo se non fosse uscito il film di Mazzacurati…”
(intervista al Teatro Ponchielli di Cremona del maggio 2002, inclusa nel volume "Folk Geneticamente Modificato", Stampa Alternativa 2003)
Gastone Pietrucci
Sceso dal palco dopo una trascinante esibizione con La Macina, il gruppo che guida da oltre trent’anni, Gastone Pietrucci, l’asciugamano intorno al collo, la fierezza del navigato attore di teatro, si sottopone gentilmente al fuoco di fila delle mie domande nella suggestiva cornice del Castello di ???, dove da qualche anno si tiene la bella rassegna “Bala Ghidon”.
Mi interessava capire la tua idea di musica popolare oggi… Si fa tanto parlare di musica popolare di questi anni, anche se mi pare che le idee siano un po’ confuse…
“Guarda, non ho avuto mai il problema di dover etichettare quello che facevo perché ho riproposto queste cose da quando le ho riprese con molto rigore, ma rendendomi conto che non ero né il contadino né la filandara… Già il fatto stesso che lo facevo io in un certo senso tradivo queste persone, anche se le amo, per cui perché non le dovrei fare? Le faccio e basta. Quindi, per me la musica popolare era questo - il gusto di fare queste cose, in modo comunque molto rigoroso, senza pedanteria… Ho sempre avuto un rapporto diretto con i nostri cantori popolari, per cui era naturale cantare con loro. Loro si rispecchiavano in quello che facevano: se io canto un canto della filanda e le filandare cantano con me qualcosa ci deve essere… Queste cose le ho amate a tal punto che mi arrabbio ogni volta che ho la sensazione che in Italia si debba conoscere tutto tranne che la musica popolare italiana, questo mi fa incavolare … Non me ne è mai fregato niente delle mode, sono andato avanti così e forse è stato vincente questa cosa della semplicità del gruppo. Questo, diciamo, fino a un anno, due anni fa, con l’ultimo cambiamento di collettivo - all’inizio li vivevo sempre come traumi i cambiamenti, invece ho capito che quando ti va via la gente è benedetto perché così si va sempre più avanti. Con i musicisti che mi accompagnano adesso, tra l’altro bravissimi , mi sono trovato al punto, dopo trent’anni, di provare un piacere immenso a ricominciare a collaborare con altre persone, come con i The Gang, che fanno rock, o con Valeria Morriconi, o con Rossana Casale, Giovanna Marini e adesso Tesi… E adesso forse la marcia cambia un’altra volta, adesso canto solo io…”
Una quarta, quinta giovinezza…
“Ma si, adesso voglio pure contaminare, mi voglio divertire, perché una sera posso fare delle cose estremamente raffinate e un’altra delle cose estremamente popolari. Posso continuare a rifare la Pasquella, ma allo stesso tempo voglio fare esperienze diverse senza pormi limiti. La musica popolare è questa, la amo e la voglio fare conoscere a più gente possibile. Non è vero che è un genere che non piace, è un genere che non vogliono far passare!”
Non è diffusa sufficientemente, non è fatta conoscere.
“Si, se nella società dell’immagine non appari, tu non sei niente: Se anche appari alla televisione come un cretico, non importa, perché sei un cretino perfetto. Ho rifiutato dei passaggi in televisione dove dovevo mascherarmi da pastore o da cantore popolare… Li ho mandati a quel paese – “non mi maschero e non faccio il cretino con voi”, ho detto!”
Insomma, non ti sei prestato alle logiche del mercato…
“La musica popolare è questa: guarda loro (indica i Musetta che, nel frattempo sono saliti sul palco, ndr.), salgono vestiti come sono. Non che mi debba mettere il costume e andare in giro a fare lo scemo, lo sgambettino. Perché poi uno debba essere lezioso e cretino non l’ho mai capito, perché piaccia tanto alla televisione… Io sono fatto così, canto e buonasera. Il contadino che viene con me si mette il capello e canta, non si mette il pompon per compiacere chi guarda. Questa è una forma di continuità - lui è lo stesso che viene da noi tra i suonatori. Ho fatto cantare una miriade di musicisti che non cantavano più adesso; adesso stanno morendo, ma io per trentacinque anni li ho fatti cantare… Tutti piangono sulle tradizioni perdute, ma da noi non sono perdute per niente… Certo, prima o poi finiranno…”
E’ il rapporto con gli informatori: oggi che gli informatori scarseggiano e i repertori si riducono, almeno apparentemente, tu cosa dici, cosa succede?
“Ma guarda, per quanto mi riguarda è proprio l’opposto. Io ne ho troppi di informatori e fino a qualche anno fa, pensa, avevo la pretesa di conoscerli tutti di persona, per nome e cognome, adesso ho uno schedario. Non li conosco più, quando sei giovane non te ne preoccupi, adesso hai cento mila cose da fare e sei solo, purtroppo…”
Se ne sono andati anche tanti grandi ricercatori…
“Sì, e stanno morendo anche gli ultimi informatori. Io li ho coinvolti trent’anni fa, e avevano già la loro età, immagina, però mi dico che va bene così perché alla fine ho fatto qualcosa che resterà. Se no, pazienza…”
Parlavi credo giustamente di un popolo senza memoria che popolo è…
“E’ un popolo vergognoso, un popolo che non ha dignità. Quello che mi preoccupa di più sono i giovani senza radici, sono in crisi di identità - non che la musica popolare ti salvi, ma almeno ti fornisce un entroterra culturale di riferimento… Sto lavorando con bambini nella scuola, faccio dei lavori incredibili con i bambini dalla prima alla quinta elementare di Polverigi: centoventi bambini a cui ho fatto fare delle ricerche per tutto un anno intero, stimolandoli con i genitori: hanno ricercato le loro filastrocche, le ninnananne ecc. portando di tutto e insieme a loro abbiamo fatto uno spettacolo dove ognuno cantava la sua filastrocca senza scimmiottare gli altri… Allora, io rendo orgoglioso questo bambino, gli faccio capire che la cosa va bene. Poi, magari, se la dimenticherà, ma questa esperienza non gliela toglie più nessuno…”
E’ una esperienza forte…
“Fra vent’anni lo trasmetterà a suo figlio. Ma in genere è più facile farli rimbecillire questi bambini, perché è voluto, perché un popolo che non pensa è un popolo che si fa guidare passivamente, e ne vediamo i risultati…”
Un popolo votato a consumare…
“Un popolo che non si indigna, che non ha più un sussulto. Mi arrabbio tutti i giorni soprattutto quando vedo certe persone, non ce la faccio proprio… E questi niente, imperterriti - l’ultimo vestitino, la cosina alla moda… e il bello è che sembrano tristi… fossero felici, almeno, andremmo da qualche parte...”
Come vedi il revivalismo di gruppi che da qualche anno, a decine, suonano musica popolare, si riferiscono esplicitamente alla tradizione?
“Se serve… Sai, quello che mi preoccupa è che molti gruppi seguono le mode. Adesso va la moda del klezmer e tutti fanno klezmer, vanno zingari e tutti fanno gli zingari… Vedi pugliesi, piemontesi, torinesi che adesso sono tutti zingari…”
C’è anche il tarantismo…
“Il tarantismo è ottimo fatto là, in Salento. Immaginami a fare il tarantismo… poi che mi metto a fare, lo zingaro? Posso capire Moni Ovadia, è un grande, ha le sue radici, ma io che mi metto a scimmiottare Moni Ovadia perché adesso va il klezmer che operazione faccio? Invece di preoccuparci di scoprire e usare il klezmer, andiamo a scoprire le nostre radici, i nostri “misteri bulgari”, che ogni terra ha…”
Usi i “misteri bulgari” come metafora e con una chiara ironia… Siamo pronti ad abbracciare la prima offerta che il mercato ci fa come fosse l’ultima frontiera della conoscenza…
“A Fabriano, ad esempio, ho un gruppo di contadini che sta morendo. Suonano strumenti costruiti da loro – violini, viole, organetti – e suonati alla loro maniera, ma ti rendi conto? Usano un canto arcaico, una cosa incredibile: non è il “mistero di Fabriano”, quello? Ho un grande rammarico quando penso ai gruppi che fanno folk revival: se tutti fossero stati seri (non che io mi senta superiore, intendiamoci…), se tutti avessero lavorato nel proprio territorio come ha fatto La Macina, ci sarebbe stato automaticamente un revival interno, regionale, un po’ quello che è successo nelle Marche dove ci sono ancora un gran numero di musicisti tradizionali… Non concepisco i gruppi che vanno a suonare di qua e di là e non fanno niente sul loro territorio. Dico: suoniamo pure dove ci pare, andiamo anche in Argentina (dove tra l’altro ogni tanto vado anch’io…), però suoniamo a casa nostra, nelle nostre terre…”
Ecco un altro tema che mi interessa molto: il rapporto con la comunità di appartenenza… Come lo vedi, tu, oggi questo rapporto?
“Certo, la gente si rispecchia in te, vede noi, poi c’è il passa parola, un pubblico porta un altro pubblico... Noi abbiamo un pubblico fedele, non il pubblico televisivo che vede l’attore di turno e poi corre a teatro ma poi non ci va più per le altre cose… Il nostro pubblico è diverso perché è particolare - noi li chiamiamo “i folgorati della pace”, sono come colpiti – che viene una prima volta e continua a venire a sentirci, portando altre persone. Gente che ci segue da trent’anni e che non ti abbandona mai perché tu gli dai cose diverse dal mercato…”
Si crea una comunanza di cultura, di linguaggi, di dialetto…
“Si, porti un mondo intero, sai, l’emozione che dai a uno che non si ricordava…Ti viene a sentire ad un concerto dove gli hai portato un frammento della sua mamma, della sua nonna, gli hai stimolato la memoria. Sai che flash, che colpo gli provochi!? Non dico che è tutto così… Dico sempre ai giovani che noi non guardiamo indietro con nostalgia perché in passato si stava anche male - i mulini erano bianchi ma la gente era nera, sporca…”
O rossa di sangue…
“…però guardiamo indietro andando avanti… Dico anche che si può conoscere tutto, tutti i generi musicali, ma perché un giovane deve conoscere tutto e non deve conoscere la musica popolare? Anche il cretino americano devi conoscere, quindi conosciamo anche il cretino italiano…”
Tra l’altro, con un orecchio minimamente allenato, anche stasera nella vostra musica si coglievano riferimenti al country americano, che poi country non è a pensarci bene, perché è locale, è musica vostra…
“Se tu dovessi sentire i saltarelli dei contadini di Fabriano, è country... Glielo abbiamo portato noi dall’Europa, in fondo. Però non mi pongo problemi, nel senso che sono stato sempre sicuro del valore di quello che facevo. Ho avuto grandi collaboratori, ma in un certo senso fragilissimi, perché sono saliti e scesi da questa barca… A me va bene anche così, perché se tu hai capito fai un tratto con me, quando scendi “ciao, arrivederci” - ce ne sono altri disposti a incontrarsi, finché questo sogno dura si va avanti…”
Anche Alberto Cesa mi ha raccontato la stessa cosa… Credo sia un po’ comune a tutti gli “iniziatori”, quelli che come te hanno creduto sempre in quell’idea di espressione, di impegno, di ricerca…
“Guarda, Marco è il figlio della donna con cui ho iniziato La Macina - l’ho visto bambino… L’altro fisarmonicista ha ventotto anni - sono grandi musicisti e senza forzatura ho lasciato che contribuissero al cambiamento della mia musica… Dove ci porterà questo nuovo corso, non lo so… Lo capirai dal prossimo disco…”
Ascolta, come vivi questo fenomeno dell’immigrazione? Negli ultimi quindici anni, che ci piaccia o no, siamo come costretti al confronto con le altre colture…
“Ma guarda, ricordiamoci che noi siamo stati un popolo di emigranti. Stasera non ho fatto America America, ma di solito la canto. Ricordiamocelo: siamo partiti noi e quando sono stato in Argentina ho capito quello che la nostra gente stava soffrendo, come erano trattati, peggio di adesso… Non dimentichiamo queste cose. Più sei ignorante più hai paura del nuovo, del diverso, perché giocano su certe paure. Hanno bisogno che la gente abbia paura per coprire le loro porcate, devono rappresentare l’albanese come una minaccia… Pensa, sono stato in tournèe in Albania e a causa di come parlavano dell’Albania non sono andato terrorizzato ma molto prevenuto: beh, ho trovato un mondo, una cosa incredibile, altro che inciviltà! Siamo noi gli incivili…”
Luoghi comuni montati ad arte…
“Ma scherziamo? Guarda come montano gli albanesi: se c’è un delitto è colpa dell’Albania. Io dicevo a loro che i delinquenti li abbiamo al governo. Noi li abbiamo mandati legalmente al governo. Ti dico questo e penso che basti... Pensa, con i bambini della scuola, tra l’altro, abbiamo fatto uno spettacolo dove albanesi, cubani, macedoni, cecoslovacchi recitavano nella loro lingua con la traduzione - è stata una bella cosa…”
Sul piano sociale siamo intolleranti, sospettosi, ci sentiamo minacciati, però poi alla televisione ci dfanno sentire Giran Bregovic, Cementano ci porta il gruppo zingaro e tutto magicamente si aggiusta… Quella stessa gente che sputerebbe in un occhio al kossovaro per la strada, ascolta i dischi di musica rom, se ne compiace…
“Goran Bregovic mi piace, ho i suoi dischi, come ho i dischi di Cesare Evora che mi fa impazzire. Che ti posso dire? Non riuscirò mai a mettere questa roba nelle miei cose, però… non ha senso, come non hanno senso le citazioni, troppe citazioni. Devi fare le tue cose, altrimenti rischi di sembrare ridicolo.”
Magari un po’ autocompiacente…
“Posso fare un omaggio a Cesare Evora, ad esempio. Siamo andati a Capo Verde dove ho fatto un concerto: ho cantato un pezzo suo in italiano, ma era un semplice omaggio. Ti immagini se mi metto a suonare e a cantare io un suo pezzo o, adesso che va di moda il fado, stupendo, metto nei miei stornelli il fado? Faccio ridere, io amo il fado, lo rispetto, ma non potrei usarlo nei miei pezzi…”
Non ti appartiene…
“Per esempio, il motivo dell’angelo: ho utilizzato un altro motivo popolare… Abbiamo fatto delle cose su Leopardi, ma erano composizioni nostre - non mi metto a fare il fado o Cesare Evora, che adesso va di moda, oppure Moni Ovada, che pure amo. Non mi metto a fare klezmer. Certo che mi piace, i cd li ho consumati, anch’io sento le cose, sono cantante e mi piacerebbe cantarlo, ma preferirei fare un omaggio a Tenco o a Piero Ciampi…”
Grande cantante…
“Grande solista… Per dire, abbiamo fatto un omaggio a De Adrè…”
Come mai Ciampi?
“Perché Ciampi è stato un mio amore. Devo farlo da tre anni. Il gruppo quella volta si è sfasciato e non ho potuto farlo. Allora è decantato, ma lo faremo sicuramente perché Ciampi è un poeta, è da fare”.
E adesso, cosa stai facendo?
“Sto facendo un disco di revival totale, ben arrangiato, dove canto solo io… Cambierà tutto... Però quelle altre cose le voglio fare, prima di morire... Voglio continuare a collaborare con altri artisti, anche, perché in Italia c’è anche questo fatto, che tutti sono chiusi nel proprio orto e nessuno si confronta con gli altri. Tu ti senti migliore e l’altro non conta niente. Invece, sapessi come impari dal confronto, col confronto cresci…”
Anche Riccardo Tesi, che ho intervistato da poco, sosteneva la stessa cosa…
“L’abbiamo chiamato per questo disco e ci ha fatto un arrangiamento di due pezzi… L’abbiamo inciso l’altro ieri ed è stata una grande esperienza vederlo suonare e cantare con noi …”
(intervista al Castello di Pontenure (PC) del 21 giugno 2002, inclusa nel volume "Folk Geneticamente Modificato", Stampa Alternativa 2003)
Elena Ledda
Internet è tante cose, anche un incontro “virtuale” con Elena Ledda, una delle più grandi interpreti di musica etnica contemporanea che il nostro paese ha avuto negli ultimi vent’anni. L’intervista è cominciata ed è proceduta a salti, in più puntate, rispondendo alle risposte date, chiedendo integrazioni e precisazioni…
Che opinione hai dell’attuale sorta di “revival” delle musiche della tradizione (popolari, etniche…) che sta interessando il nostro paese?
“Trovo che sia positivo un rinnovato interesse verso le musiche della tradizione, dopo anni di solitudine culturale in Italia e con confronti soprattutto all’estero (in particolare Francia e Germania), il fatto che artisti giovani o addirittura artisti affermati attingano a questo repertorio non può che fare piacere… Mi auguro che questo interesse non sia superficiale e legato esclusivamente a motivi commerciali.”
Credi che esista ancora un rapporto fra le musiche “popolari”/”tradizionali” suonate oggi e la gente, i territori, il vivere quotidiano?
“In Sardegna, i balli, le preghiere, le ninnananne sono ancora piuttosto legate sia alla gente che al territorio dove si esprimono, quindi al vivere quotidiano. I canti più legati alle funzioni sociali, per esempio quelli di lavoro (filugnana-filatrici, a boghe ‘e riu-lavandaie, graminatogghja-vendemmia), o d’amore o di divertimento legati alla vita contadina naturalmente hanno perduto questo legame. Questo non significa che abbiano perduto la forza espressiva ed artistica.”
Ma ritieni che queste musiche debbano necessariamente averlo per apparire, diciamo, “legittime” a chi le suona o canta e le ascolta?
“No, naturalmente. Il legame che deve necessariamente esistere è quello che io chiamo della “trasfigurazione dell’arte”. Io canto le stesse ninnananne di mia nonna, non credo alla sua stessa maniera; in mezzo forse c’è lo stesso sentimento, ma in più il tempo trascorso, lo studio e la dedizione verso questo repertorio, le diverse condizioni tecniche e soprattutto da parte mia lo sforzo verso l’atto creativo musicale.”
Secondo te è conciliabile l’”attrazione fatale” verso il localismo (quale urgenza di
riappropriarsi della propria storia, della cultura, dell’identità), espressa dichiaratamente da certa proposizione di musiche tradizionali, e le prospettive “globalistiche”, “multiculturali” di quest’epoca che, giustificando la ragion d’essere della cosiddetta “world music”, riducono spesso la musica a null’altro che a un “nonluogo” nel mare magnum del Mercato?
“Il termine localismo è forse riduttivo, io mi esprimo sempre in termini “identitari”. I sardi hanno una loro lingua, una fortissima specificità musicale, con questo bagaglio non potranno mai essere assimilati alla “nebulosa” world music…”
Credi che abbia sempre un senso il lavoro di ricerca, catalogazione e analisi filologica del patrimonio tradizionale?
“Certamente. Il mio lavoro è anche quello di ricercare in prima persona ed essere sempre aggiornata sugli studi svolti in questo campo. Il musicista ha il dovere di conoscere profondamente anche la parte teorica.”
E' rimasto ancora molto, nella tua regione, da scoprire, archiviare e diffondere che appartenga alla memoria della gente?
“Per quanto riguarda la scoperta di nuove fonti, il lavoro è stato ampiamente svolto da illustri ricercatori. Sarebbe opportuno in questo momento dedicare ancora uno spazio alla catalogazione, all’archiviazione e alla diffusione del repertorio in maniera corretta. L’ultimo validissimo esempio di lavoro con queste caratteristiche è stato l’antologia “Musica Sarda. Canti e danze tradizionali”, a cura di Diego Carpitella, Pietro Sassu e Leonardo Sole, del 1970. In Sardegna esistono ancora coloro che possiamo definire “ i padri” di talune forme espressive, per esempio Luigi Lai e Aurelio Porcu per le Launeddas; Mario Mannu e Leonardo Cabizza per il canto a chitarra logudorese; Matteo Peru per il canto gallurese; Salvatore Maxia e Peppuccio Loni per il canto campidanese… Con loro bisognerebbe per fare il punto della situazione relativa alle loro competenze, registrare tutto il materiale che conoscono e poi procedere alla catalogazione e all’archiaviazione. Solo così questo repertorio non sarà a rischio, non solo di estinzione ma ancora peggio di un pesante “imbarbarimento”. Anche perché non esistono nuove fonti o nuovi canti da scoprire, ma piuttosto da valorizzare - per esempio il mio interesse ultimamente si è rivolto alle forme espressive del canto femminile, sacro e profano. E’ chiaro che ho ascoltato “sul campo” numerosi Rosari, filastrocche e canti di lavoro che appartengono al mio archivio personale, per una parte della mia musica questo è un passaggio obbligato, ma naturalmente non c’è la possibilità di sovrapporre, che so, un Rosario di Orgosolo con l’interpretazione delle donne di quel paese e trovare che combaci perfettamente, perché io sono una musicista e non un antropologa…”
Rispetto alla tua lunga esperienza, quali ritieni siano i problemi più pressanti del settore (discografia, distribuzione, promozione, mass-media…)?
“Dipende da come ci si colloca dentro al mercato. E’ chiaro che se appartieni a una multinazionale discografica non hai il problema di essere distribuito, promosso e di avere visibilità; non hai però i vantaggi di essere completamente indipendente. Anche qui si tratta di scegliere da che parte stare…”
Se la Commissione Parlamentare che sta facendo audizioni con personalità presunte autorevoli dello spettacolo (Baudo, Dalla, Bocelli…) per elaborare la famigerata “legge sulla musica” convocasse anche te, cosa andresti a dire?
“Parlerei del fatto che oggi con lo spasimo verso i “grandi eventi” sta morendo completamente la vera possibilità di diffondere e comunicare non solo il repertorio tradizionale ma la musica tutta - dal rock, al jazz, alla classica…”
Quali soluzioni suggeriresti? .....
“Che i grandi eventi, di qualunque genere, attingano le risorse economiche anche dai privati, e che invece la dimensione pubblica si occupi di tenere vivo tutta il fermento e la creatività legata a dimensioni minori, non come qualità, ma intendendo il radicamento di tutte le realtà locali nel territorio, favorendo anche gli scambi di situazioni più piccole, magari lontane, così si fa crescere il confronto e la circolazione musicale. Un capitolo a parte andrebbe dedicato alla formazione: l’educazione musicale nel nostro sistema scolastico è destinata, purtroppo, a rimanere la “cenerentola” della cultura...”
Cosa pensi dell’autoproduzione, modalità oggi molto diffusa soprattutto tra i gruppi e i musicisti più giovani?
“Ho già risposto a questa domanda. Autoprodursi non significa l’esclusiva possibilità di esistere, ma soprattutto all’inizio della carriera può essere un modo per dimostrare le proprie possibilità senza condizionamenti.”
Quali canali informativi e/o strategie utilizzi per farti conoscere?
“Ho iniziato la carriera in tempi in cui bastava avere delle qualità e suonare per farsi conoscere. La mia strategia (?) è rimasta questa: professionalità e concerti!!! Talvolta, di questi tempi, mi chiedo se è ora di cambiare...”
Ma non credi che improntare la propria espressione sulle logiche del mercato (vado in studio, faccio il disco, lo promuovo...) possa "snaturare"l'espressione, tradendone la passionalità, l'istintività, l'autenticità, stravolgendo quindi il significato di un'esperienza che prima nasceva e si esprimeva esclusivamente nel "qui ed ora" e basta?
“Siccome nasceva e si esprimeva nel “qui ed ora”, afferiva esclusivamente alla dimensione antropologica. Per quanto riguarda le dimensioni che tu chiami del mercato, la mia professione (ahimè!!!) ne è quasi completamente estranea, con le debite conseguenze…”
Cosa ne pensi di Internet, così massicciamente presente oggi anche nell’esperienza di gruppi
che si rifanno esplicitamente alla “tradizione”?
“Internet è solo un mezzo, che io uso abitualmente. Non è certo Internet o la tecnologia che può scalfire la forza dell’identità, così come non è internet che può crearla.”
Ammetterai, però, che molti musicisti, soprattutto giovani, con la tecnologia oggi hanno l'opportunità di mascherare i propri limiti tecnici e, soprattutto, espressivi….
“D’accordo, ma chi maschera i propri limiti tecnici difficilmente può mascherare quelli espressivi (e certamente non è un problema anagrafico, molti personaggi famosi, anche recentemente, se si fossero affidati alle nuove tecnologie, almeno per l’intonazione, avrebbero fatto bene alle orecchie dei più), che comunque prima o poi emergerebbero. La povertà musicale dura lo spazio di poche stagioni, certo non si può costruire su di essa una credibilità musicale...”
Come riesce un musicista ad utilizzare la tecnologia per quello che è preservando la sua identità (è una delle obiezioni ricorrenti dei cosiddetti "puristi")?
“La dimensione “pura” non esiste quasi nemmeno in ambito antropologico, figurarsi quando entra in gioco la dimensione spettacolare. La purezza, per quanto mi riguarda, attiene esclusivamente al rigore e alla serietà con cui svolgo la mia professione.”
Alcuni musicisti tradizionali con cui ho parlato mi dicevano di non sopportare il fatto che oggi molti giovani, senza alcuno studio, senza ricerche, senza confronti, entrano in studio a fare, per esempio, una tarantella con strumenti "esotici" tipo il darbouka (o l'oud, o il djambè...) che non c'entrano nulla con la forma originale... Ritengono che un'operazione così sia illegittima, non abbia alcun valore culturale. Tu che ne pensi?
“Non sono assolutamente d’accordo! Basta con queste contrapposizioni! Non sono gli strumenti cosiddetti “originali” a determinare l’essenza, per esempio, di un ballo, ma piuttosto la conoscenza precisa dei moduli ritmico-espressivi. Ho sentito moltissimi strumenti originali che non avevano nessun tipo di interesse culturale, così come mi è capitato di ascoltare trascrizioni che possedevano la vera natura ed essenza della musica che proponevano. Voglio fare un altro esempio: l’organetto, che è considerato uno strumento principe della musica tradizionale sarda, ha fatto la sua comparsa in Sardegna solo nel secolo scorso (il Novecento)...”
Come nasce una composizione originale di Elena Ledda?
“La musica sarda ha dei canoni espressivi molto precisi, per chi li conosce. Quindi, per quanto riguarda la parte musicale cerchiamo sempre di non snaturare eccessivamente i moduli dell’espressività tradizionale, anche se è naturale che in sede di composizione esiste una forza creativa dei musicisti. I testi originali invece partono sempre o da interessi e esigenze ancorate a temi contemporanei oppure dall’ispirazione dei poeti con i quali collaboriamo.”
Quali sono gli elementi fondamentali che intervengono nel tuo lavoro di "appropriazione" e "riproposizione" di un brano tradizionale?
“Esistono nella musica tradizionale sarda dei brani molto significativi per forza e bellezza espressiva: quindi non è necessario intervenire eccessivamente; altri, all’apparenza meno forti, una volta riproposti si sono dimostrati altrettanto efficaci. Certo, il primo elemento per la scelta di un brano è la sua bellezza, ma non bisogna dimenticare che su tutto vince la capacità di ogni singolo artista di trasfigurare il brano e di renderlo incisivo.”
(intervista via Internet del febbraio 2003 inclusa nel volume "Folk Geneticamente Modificato", Stampa Alternativa 2003)
MA DOVE FISCHIA IL VAPORE? Botta e risposta on line con Giovanna Marini
Gent.le Giovanna Marini,
sto lavorando a una guida alla musica tradizionale in Italia per conto dell'editore Stampa Alternativa di Roma, programmata per la metà del 2003. Scopo principale del lavoro (a carattere divulgativo) è quello di offrire schede di orientamento sui gruppi/musicisti attualmente in attività di cui - è un dato oggettivo - si scrive sempre meno di quanto si dovrebbe (e potrebbe), suggerendo qualche "punto di vista critico" sulle complesse e variegate dimensioni del settore.
Nell'approntare la scheda che riguarda la sua lunga e, a mio avviso, gloriosa carriera artistica, ho qualche difficoltà nell'interpretare l'ultima produzione discografica (quella del “Vapore”, registrato con De Gregori) in rapporto alla “fase” compositiva e creativa precedente, quella del Quartetto.
Avevo per questo pensato di venire a intervistarla a Piadena (abito a 8 chilometri...), dove il prossimo 30 marzo gli amici della Lega di Cultura (Micio, Morandi, Tavoni....) organizzano l'annuale, piacevole festa e mi dicono che Lei sarà presente - ma scadenze editoriali mi impongono di chiudere il redazionale prima e mi trovo perciò costretto a questo “azzardo”. Le pongo, così, alcune domande dirette, senza tanti preamboli, augurandomi di non infastidirla troppo:
1. Hanno una relazione tra loro le due esperienze (Quartetto e “Vapore”)?
2. Se si, come si rapportano?
3. Com'è nata l'idea del progetto del “Vapore”?
4. Che “ragionamenti” stanno dietro l'operazione?
5. Perché il disco è stato (immagino volutamente) registrato in modo approssimativo, senza la consueta cura per i suoni che caratterizza ormai anche gran parte della produzione folk contemporanea?
6. Si aspettava, sinceramente, una risposta simile da parte del pubblico e dei mass-media?
7. Come la interpreta?
8. Cosa pensa della recente “rinascita”, solo in parte revivalistica, che ha interessato la musica tradizionale e popolare?
9. Crede che ci sia ancora spazio per una nuova canzone di impegno civile e sociale?
10. Come vive il rapporto con le nuove tecnologie digitali relativamente al processo di creazione e produzione artistica?
La ringrazio anticipatamente per l'eventuale disponibilità. Cordiali saluti,
Luca Ferrari
Egregio signor Luca,
le rispondo subito perché purtroppo non potrò essere a Piadena il 30 marzo e me ne dispiaccio moltissimo. Certo che le due esperienze hanno un punto di incontro e precisamente il punto in questione sarei io (scusi la megalomania). Avendo fatto ricerca negli anni passati e, forse ancor di più, negli anni presenti, ho cercato di trasformare la mia scrittura quartettistica, prevalentemente madrigalistica, in scrittura che assorbe gli stilemi del cantare contadino (di tradizione orale), quindi il modo di melismare, l'andamento orizzontale delle parti con inevitabili urti fra loro, pur mantenendo un assetto accordale, assolutamente trascurato dai vari cantori proprio perché sempre fissi nel percorso orizzontale. Essi pensano unicamente alla loro linea melodica pur sapendo che l'incontro delle voci darà un effetto polifonico accordale, a volte secondo le leggi dell'armonia classica, a volte semplicemente per pura successione di accordi, come accade nelle polifonie insulari mediterranee (e qui è contenuta la risposta anche alla sua seconda domanda). Quindi il disco con De Gregori è un ricordo delle mie prime esperienze, quando, udita la sorprendente voce della Daffini e la sua irregolarità e noncuranza delle regole classiche nel cantare, decisi che la sua era avanguardia musicale, con straordinaria libertà e indipendenza armonica, anche se elementare, e desiderai apprenderla, assorbirla al massimo. Così, imparai tutto il suo repertorio sotto i suoi consigli materni, e sono rimasta sempre molto affezionata a quel periodo di apprendimento che diede molti frutti più tardi quando mi misi a scrivere per quartetto. Francesco De Gregori mi ha semplicemente chiesto di ritornare a quell'apprendimento e metterlo a mia volta su disco insieme a lui. Devo dire che anche lui ha cambiato voce per quei canti, studiandoli con molta attenzione ed eseguendoli in perfetta osservanza delle regole tradizionali. L'accompagnamento elettrico a mio e a suo parere non disturbava affatto il canto e le canzoni perché essi sono molto più potenti, l'accompagnamento sostiene semplicemente, con poco intervento, e rende avvicinabile anche alle nuove generazioni una musica che altrimenti non potrebbe proprio entrare nelle loro orecchie abituate solo agli alti volumi.
L'idea è nata perché covava da anni soprattutto in Francesco De Gregori, che ha fatto la sua carriera espressiva senza mai dimenticare l'amore che lo aveva avvicinato al canto italiano di tradizione orale, per quelle canzoni italiane che aveva sentito al Folk Studio di Roma dalla mia voce fin da quando aveva 15 anni, mentre io ne avevo già trenta.
Nessun ragionamento c’è stato dietro l'operazione, che non ha niente di chirurgico. Solo un “vogliamo farlo questo disco?”. “Sì, ora ne abbiamo proprio voglia, va tutto male, facciamo almeno “una cosa che ci fa piacere”. Quindi ci siamo chiesti: “Quali canzoni mettiamo?” “Scrivi queste, e questa, ecc....". Le abbiamo suonate, andavano bene tutte e ci sembrava che fossero giuste. L'unica a cui non abbiamo trovato un giusto modo di esecuzione è stata “O Gorizia” e l’abbiamo accantonata. Purtroppo abbiamo dimenticato “Addio a Lugano”...
Mi chiede perché il disco è stato registrato in modo apparentemente approssimativo: perché nasce in casa volutamente, con poca spesa, come ricordo. Ovviamente, non immaginavamo il successo che ha avuto. E poi, anche perché sarebbe stato anacronistico togliere al disco la sua naturalezza – si tratta di canti di terra, lavoro, guerra, morte e vita, non hanno bisogno di accorgimenti speciali, e devono passare solo la bellezza delle melodie e il senso delle parole. Non ci aspettavamo assolutamente una tale risposta...
Credo che da un lato sia la risposta al lavoro silenzioso ma costante fatto dagli anni sessanta in poi dei Cantacronache di Torino, dei Giorni Cantati di Piadena, del Nuovo Canzoniere Italiano. La nostra gente c'è ma è nascosta, è come se fosse uscita apposta per comprare il disco. Poi, anche perché sono canzoni belle, di per sé, e la gente lo capisce, non è cretina. Inoltre va considerato che la gente comincia ad essere stufa di tanta omologazione, di quest’opprimente globalizzazione, che fa in modo che tutto sia uguale, appiattito. Appena hanno visto in TV una donna vecchia senza cerone e un uomo famoso ma timido, hanno deciso di premiarli...
Penso che la recente rinascita di queste musiche, il nuovo “revival”, possano essere sempre una conseguenza di quanto espresso nella risposta precedente. Le giovani generazioni, poi, studiano la world music all’università, al DAMS, e ne vogliono sempre di più per rispondere al loro bisogno di radici, di identità: è il loro no alla globalizzazione che taglia le radici, uniforma, deprime in sostanza. Certo che c'è uno spazio per una nuova canzone di impegno sociale e civile e vedrete come si riempie presto, si è visto dalla risposta al disco oltre che da tanti altri segni.
Quanto al rapporto con le nuove tecnologie, lo vivo male. Non sopporto il senso di vuoto nei CD quando in un brano il cantore fa una pausa e si sente il vuoto della morte del suono. Preferisco i fruscii, i disturbi di fondo, tant'è vero che ormai li rimettono dappertutto, se ha notato. Non sopporto l'eccesso di sofisticazione, e anche per questo De Gregori, che era ovviamente il più consapevole dei due, ha evitato qualsiasi sofisticazione da sala e mi ha portato a registrare a casa sua...
Grazie e arrivederci,
Giovanna Marini".
(Internet, 7-8 marzo 2003 - intervista inclusa nel volume "Folk Geneticamente Modificato", Stampa Alternativa, Roma 2003)
LE FRODI DI BERNASCONI. Luci e ombre di Davide Van De Sfroos, un fenomeno “cool”.
Ne hanno parlato un po’ tutti, in questi mesi, dopo l’uscita del suo quinto lavoro, “… e semm partii”, e i toni sono stati generalmente esaltati, quando non apologetici, secondo uno stile che da sempre caratterizza le riviste patinate pop/rock usa e getta che affollano le edicole, con le loro pubblicità di profumi e scarpe a confondersi coi dischi e le fotografie dei musicisti.
Davide Bernasconi, in arte Davide Van De Sfroos (“di frodo”), è un fenomeno “cool”, insomma, di quelli che dall’oscura, sconosciuta provincia si ritrovano al centro della scena quasi senza essersene resi conto: “Brèva & Tivàn”, il penultimo CD, sembra abbia venduto almeno 35.000 copie e altrettanto, se non di più, farà l’ultimo uscito: cifre ragguardevoli, indubbiamente, se rapportate all’asfittico mercato indipendente. Quanto al pubblico, le cronache e il “passaparola” raccontano di concerti affollatissimi, di fan entusiasti ai limiti del delirio. Dopo averlo intervistato, in occasione del concerto al “Fillmore” di Cortemaggiore (PC), il 29 marzo scorso ho avuto modo di costatare di persona la “presa” che il personaggio ha sul (suo) pubblico. Prime file estasiate, che cantavano a memoria i suoi testi, pronti a “pogare” (si dice così, no?!) al primo 4/4 metronomico, ammiccando a ogni battuta del musicista. Un successo difficilmente contestabile, insomma, vissuto dal protagonista con una modestia e un senso della misura che imbarazzerebbe anche il più esigente dei critici.
Di qui, però, poiché apparteniamo alla schiera di coloro che non si accontentano delle apparenze, l’impulso di andare più a fondo sulla natura del “fenomeno”, cercando delle motivazioni che si spingano oltre l’evidenza, schiacciante, dell’innegabile fascino che Van De Sfroos suscita sulle folle, con quella sua parlata roca, da sopravvissuto “maudit”, quel suo narrare di sé parlando degli altri – figure di laghet drop-out, emarginati dimenticati da Dio che sembrano uscire da “Autobiografia della Leggera” di Danilo Montaldi (chi si ricorda di questo sociologo ante-litteram cremonese?) o dal più recente “Poema dei Lunatici” di Ermanno Cavazzoni, da cui Fellini trasse ispirazione per il suo film-culto “La Voce della Luna”.
L’equivoco di “popolare”
Sgombriamo il campo, anzitutto, dall’equivoco di “popolare”, che tanto ha contribuito al successo di De Sfroos. Il musicista stesso è pronto ad ammettere che non esistono tradizioni musicali nel territorio in cui vive – Tremezzo, sul Lago di Como – e che quindi ha dovuto inventarsi una “tradizione”, una pseudo “cultura popolare” che veicolasse i testi, le parole. Anche a un ascolto superficiale, infatti, difficile non cogliere l’artificiosità dell’operazione: nessuna filologia che tenga, quindi, nessuna fonte testuale, nessun “informatore” a ispirarne la poetica, se non la “semplice” descrittività dell’esperienza - sufficiente l’ascolto di uno dei suoi brani più famosi, “L’omm de la tempesta”, una ballata blues retta da due soli accordi con un ritornello attraente (“catchy” direbbero gli inglesi) che nulla ha da invidiare a musicisti “mainstream” tipo Ligabue o Zucchero.
De Sfroos utilizza la musica come veicolo per i testi, aderendo alla tradizione del cantautorato anni settanta, in un melting pot di generi (dal rock al blues, dal reggae allo ska, dal pub-folk al jazz-blues) che ne rendono l’identità musicale vaga, quando non pretestuosa, all’interno di un progetto artistico dall’estetica dimezzata (la musica come dimensione accessoria), quantomeno incoerente in rapporto al radicalismo implicito nella scelta, senza dubbio interessante, di utilizzare un idioma dialettale.
Aleatorietà e ripetitività della forma
Aleatorietà della forma, quindi, perché la musica non è dettata da un “destino” di appartenenza a una storia, e sua paradossale ripetitività: il successo di De Sfroos sembra infatti dipendere dalla prevedibilità della costruzione armonica, secondo una prassi (studiata da alcuni musicologi “popular”, tra cui Franco Fabbri) in uso in ambito pop. La struttura scelta da Bernasconi risulta invariabilmente la stessa (stessi attacchi vocali, stessi movimenti interni al brano), contribuendo all’equivoco di detenere una natura “popolare” (come la giga o il saltarello…) senza averla. L’effetto di un ascolto superficiale (intendiamoci: non meno legittimo!), “muscolare” verrebbe da dire, dei pezzi – soprattutto se associato al movimento (il “pogare” come espressione di “trance” contemporanea) – è infatti quello di essere fatalmente calati in uno spazio psicologico “popolare” (indotto soprattutto dal cantato in dialetto e dall’uso di strumentazione tradizionale – fisarmonica, violino su tutti), senza che lo sia, in una dimensione illusoria e ambigua, equivoca appunto.
La valenza “politica”
Il sentimento di appartenenza solo virtuale a una rappresentazione che si accredita indebitamente, riuscendoci, come “popolare”, nel concerto di De Sfroos si rifrange sul senso di identità dei partecipanti, sull’aderenza a un universo che si fa “rituale” (ma come il concerto rock, non come la festa contadina) e solo allusivamente “politico”. I testi di Bernasconi propongono una visione della società “dal basso”, certo, ma scarsamente politica, riducendo la poetica a stereotipi sociali vittime di un bozzettismo a tratti grottesco, autistico, autoindulgente. Un universo chiuso, insomma, nell’alternarsi meccanico di figure caratteristiche, “popolaresche” più che “popolari”, prive di rapporti significativi con la realtà.
De Sfroos, d’altronde, è tanto onesto da ammettere di considerarsi semplicemente un “cantastorie” piuttosto che un “hobo”, pur nella contraddizione di riferirsi, nell’enunciazione delle sue fonti ispiratrici, a Bob Dylan e, soprattutto, a Woody Guthrie (quello della “chitarra-macchina che uccide i fascisti”…). A domanda diretta, il musicista ammette di rinunciare ad avere un ruolo politico e dichiara di non volersi schierare, di non prendere posizione. Legittimo, certo, pur nell’evidenza di una forse involontaria ambiguità… Perché “politici” lo si è sempre, che si scelga o no di esserlo - dipende dal come… - e, benché sia possibile una lettura classista delle “lyrics” di De Sfroos (la retorica dell’emarginato, dello sconfitto), con relativo portato di sentimenti di solidarietà e di “pietas” – la maggior parte dei testi di “… e semm partii”, ispirata all’idea del “viaggio” (emigrazione/immigrazione), non autorizza a interpretazioni culturalmente avanzate (multi e interculturalismo, egualitarismo, socialismo…) ottundendo le straordinarie potenzialità del tema. Bernasconi nulla dice, ad esempio, sui rapporti tra localismo e culture altre, fra radicamento e viaggio, fra identità e alterità, limitandosi a tratteggiare un campionario di figure di “laghet” certamente suggestivo e divertente ma irrimediabilmente oleografico, semplicistico, povero di suggestioni umanistico-letterarie (altra cosa, ad esempio, il campionario straordinario di “Anime Salve” di De Andrè, certi perdenti di Ivano Fossati, per non dire dei ritratti ironici e stracolmi di umanità di Conte e Capossela…).
Finale con facile previsione
Con una poetica di questa natura, espressa oltretutto con ricercata “autenticità” (l’immagine del “worker” della chitarra, che parla col cuore in mano…), è facile prevedere un crescente successo del musicista, per quanto attenuato dall’uso del dialetto, implicito elemento penalizzante in un’ipotesi di commercializzazione di massa. Clima politico e recrudescenze xenofobe (condensate in certo celtismo d’accatto…) potrebbero paradossalmente strumentalizzare gli aspetti culturalmente più degni del progetto artistico - l’uso del dialetto, appunto, l’ostentazione di una certa estetica “bohemien”…
Anche in ragione di ciò, più che in altre occasioni, l’invito che rivolgiamo ai lettori di FB è quello di restare vigili, di non lasciarsi facilmente sedurre, di osservarne gli sviluppi futuri senza indulgenze, consapevoli che non è scontato che le “frodi” cui allude Davide Bernasconi si riferiscano esclusivamente alle “vite rubate” intorno al Lago di Como e messe su disco.
L’intervista
Siamo nel backstage, adagiati su un comodo divanetto. Davide Van De Sfroos, confermando la fama di irrefrenabile affabulatore, azzanna le domande con risposte-fiume, per certi aspetti rivelatrici più dell’imbarazzo di trovarsi sotto i riflettori che di una sufficiente consapevolezza del suo ruolo di musicista contemporaneo. La trascrizione dei 20 minuti di conversazione, per questo, non poteva che essere fedelmente “nuda e cruda”.
Anzitutto, ho una curiosità: capire come ti collochi – se ti collochi – nel panorama della musica popolare-tradizionale che si suona in Italia…
“Il problema di tutte le cose è sempre quello di dare una collocazione, di cercare di capire dove uno può essere collocato. E’ chiaro che io parto da un esperimento che non viene assolutamente da strategie di marketing, perché logicamente mettersi a cantare nel dialetto strano di un paesino del lago di Como, è tutta una cosa dettata solo dalla passione. Io, quasi per scherzo, avevo detto di suonare un genere “bifolk”, sembrava un gioco di parole… però, in realtà, è forse la cosa giusta: non è il folk levigato, sistemato – tipo quello dei Fairport Convention o dei Pentangle – il “bifolk” è quello di Woody Guthrie, ma anche del Bob Dylan degli inizi, o dei Pogues e tutte queste cose… Poi è chiaro che ognuno ci può trovare quello che vuole, perché questa musica è fatta da un italiano che canta in dialetto, ma possono esserci dentro tutti gli influssi che uno ha ascoltato – da Tom Waits fino a Leonard Cohen, De Andrè… e chi più ne ha più ne metta… E’ chiaro che io non ho imitato nessuno, ma sono contento di aver appreso influenze da tutto quello che ho ascoltato. Oggi come oggi cosa sono? Non sono altro che una persona che ha preso in mano una chitarra come alibi per scrivere queste storie. Quindi è venuta prima la roba scritta dei primi accordi di chitarra. La voglia era proprio quella di girare cantando per la gente… Probabilmente, siamo di fronte a un atteggiamento simile a quello dei cantastorie, i suonatori di strada, gli “hillibilli”, i mariaci… Io mi sposto con la band e mi vedo proprio con questo genere di cose, più che vedermi come uno del rock, del pop italiano che aspira a diventare Zucchero o Ligabue… Non è assolutamente così, anche perché ormai ho 36 anni e da quando suono queste cose qui, dal ’90, il mio spostamento in giro è stato più quello con lo sguardo alla J.J.Cale o alla John Lee Hooker, piuttosto che pensare di diventare qualcuno… E’ chiaro che si vuole andare avanti, però non vincendo Sanremo a tutti i costi… Quindi io mi vedo “folk” nel lato fangoso della cosa…”
Hai citato tra le fonti ispiratrici Woody Guthrie, che a me è sempre piaciuto molto per la sua identità di “hobo”, una tipologia di cantastorie che non hai considerato ma che immagino ti interessa per la dimensione politica del far musica…
“Io ho sempre detto che nella mia musica – non politicizzata nelle canzoni, con slogan e cose simili – io non ci metterò nessuna bandiera da un certo punto di vista, perché non voglio essere limitato in nessun modo nel raccontare quello che è la gente. Quindi, visto che sotto il palco io mi trovo personaggi di tutti i tipi, perché ascoltano storie che riguardano la gente e non riguardano un settore: perché io posso parlare del partigiano, posso parlare del fascista, senza sventolare, ma facendo emergere quella che era la sensazione bella o brutta in quel tempo. Poi ognuno ha tutto il tempo di andare a casa a far tutte le dietrologie… Quando io cantavo la canzone forse più politica che era “Poor Italia”, parlavo di tutti coloro che dicevano “poor Italia” ma che poi erano i primi a renderla povera quest’Italia… Quindi, io non ho mai detto: “attenzione, io adesso vi spiego e inneggio a questo e inneggio a quest’altro…”, ma la gente deve essere in grado di capire che mi muovo come un cronista, come un navigatore, senza chiedere documenti, senza chiedere bandiere, perché per me è stato così sin da bambino – ascoltare la storia del partigiano, ascoltare la storia del nonno che era comunque fascista… ascoltare la storia dello zio aviatore che di certo non era con gli americani perché era italiano… ascoltare quello che succedeva dal contrabbandiere ma anche dal finanziere… sapendo sempre che dietro le divise, dietro le bandiere, c’era sempre una persona e le persone sono proprio alla base di tutte le storie che racconto… Poi, però, viene il discorso “però stai attento, canti in dialetto lombardo, non hai paura che ti scambino per…”: sarebbe peggio non cantare in dialetto lombardo, che è la lingua che parlo da quando avevo 4 anni, perché ho paura di essere preso per… Se io faccio un disco intitolato “E… semm partii” e spiega che noi eravamo emigranti una volta, e dice tutte queste cose qui senza dire niente, e comunque delle persone di un partito o di un altro lo ascoltano in modo equidistante e tutte dicono: “mi hai emozionato”, io ho raggiunto il mio obiettivo. Ben vengano che lo ascoltino questi e quegli altri…”
Però, se io ti chiedessi un’opinione rispetto al mondo in cui vivi oggi, ad esempio proprio sull’immigrazione che è un fenomeno che il tuo ultimo disco tocca nel profondo con le storie che racconta, tu ti sentiresti imbarazzato a prendere una posizione se ce l’hai o non avresti problemi di sorta?!
“Imbarazzato a prendere una posizione in questo senso: perché la persona che parte dalla propria terra è la persona che già sta affrontando un dolore, perché non è “oh, che bello, ce ne andiamo…!”. Anche noi quando eravamo gli “italiani d’Argentina”, quando siamo andati in Svizzera, Germania o dovunque vuoi tu, non eravamo contenti di andare. Andavamo ed era già un momento duro, con delle emozioni, dei dubbi, delle speranze… Nel momento in cui, poi, arrivi in una terra, c’è l’imbarazzo di chi ti deve ricevere – “oh, dio mio”, la paura, “chi saranno questi?!”… Da un certo punto di vista è paura per quello che realmente accade, a volte si demonizzano cose come si demonizza un telefonino o Sanremo, quindi è veramente un bacino grande di cose, di emozioni e di tensioni, di paure. Certo, se uno avesse la bacchetta magica potrebbe dire: “Dai, speriamo entrino solo quelli che hanno intenzione di…”, perché magari arrivano degli immigrati che sono dei disperati, che erano dei delinquenti nel loro paese… però poi bisogna vedere perché erano delinquenti nel loro paese… cosa ha fatto il loro paese per renderli tali… quanto i nostri delinquenti diventano interattivi con loro… Io, quello che vedo è sempre il battito di cuore di quello che da una terra va a un’altra terra… Quindi, vedendomi come l’italiano che si muove oppure come quello che vede qualcuno che sta arrivando a casa sua… Sono poi il primo ad essere innamorato delle altre culture che possono essere tutte quelle della “world music”, quelle di Peter Gabriel, anche quelle della musica araba - il vero folk… Queste influenze mi piacciono e vorrei anche arrivare a metterle dentro la mia musica, ma non vorrei arrivarci in un modo del tipo: “adesso che ho la possibilità vado e chiamo uno del Maghreb e lo metto dentro perché ci sta bene…”. Dovrebbe essere un qualcuno che ho conosciuto e come ho messo alcune ragazze della Sardegna, mi sono intrecciato con una storia simile alla loro e mi sono appassionato della Sardegna… Così come domani potrei mettere delle influenze del Salento, ma deve essere un percorso che tu fai in prima persona, altrimenti è un po’ come prendere l’album delle figurine, il “calcio mercato” - prendo i musicisti più bravi e li inserisco… Mi sono sempre mosso come uno che fa del lavoro artigianale, con le mani, in piena autenticità, anche se poi si va avanti e si cerca di lavorare con i musicisti che ti piacciono, rimanendo dentro l’istintività della cosa… Che la musica cresca, ma essere sempre convincente per chi ascolta rispetto al modo in cui proponi la canzone…”
Tu hai scritto un paio di libri di poesie e mi è parso di cogliere nei tuoi testi delle fonti letterarie: ci sono dei modelli di poeti, di scrittori a cui ti senti particolarmente vicino?
“Nella poetica, quella scritta con le parole in italiano, quelle che ho scritto in questo libro “Perdonato dalle Lucertole”, l’80% delle poesie sono tutte in italiano e sono state scritte dall’infanzia. Lì ci trovi da Fellini a cose come Vittorini, piuttosto che Quasimodo… A me piace tantissimo Garcia Lorca, così come il mondo descritto da Testori, il mondo del pittore Ligabue, come Ermanno Olmi… Tanta roba che arriva anche dal cinema. E’ chiaro che tutti i poeti stranieri e anche italiani – Emily Dickinson, William Blake, Pablo Neruda… - io li ho sempre tenuti in grande considerazione… Mi piace anche Montale, Pasolini, Ungaretti… Però la mia poesia non sarà mai troppo ermetica, da rimanere in tre righe – potrebbe essere più o meno lunga, ma ha imparato a diventare discorsiva proprio come lo è la gente del lago… Quindi a volte sono i fogli di un taccuino senza tempo, piuttosto che una poesia vera e propria...”
Esiste una continuità tra la scrittura delle poesie e quella delle canzoni?
“A volte c’è una continuità così diretta che alcune poesie sono diventate canzoni – ad esempio “Pulènta e galèna frègia”, “Ninna nanna”, “La nocc”… “Ventanas” dell’ultimo disco era una poesia scritta per me… Questo avviene quando tu la strutturi, l’hai già pensata magari in una lingua e vedi che comunque è musicabile. Altre volte non hai nessuna intenzione di mettere quella cosa in musica perché è una cosa che uno la deve leggere in un momento suo e non può essere sventagliata in giro con della musica perché non lo consente o non è pensata per quello…”
Quindi prima parti dal testo…
“Più che dal testo scritto dall’idea di quello che voglio cantare. Arriva prima la storia e dopo lo scrivere questa storia: la storia deve essere una storia su questo uomo, su questo personaggio… Partono delle parole, diventano la trama, poi tu fai la canzone… La musica viene scelta in base al tipo di cortometraggio che è… Per “Sugamara”, ad esempio, è chiaro che questo qui è un tipo un po’ spaccone e ci starebbe bene una cosa un po’ mariaci, un po’ Compay Segundo… Poi, magari, le cose arrivano dopo, mentre sei lì in cucina che ti accompagni e dici “questo è lo stile della canzone”…
Vorrei provocarti sulla forma che hai scelto, quella con cui ti esprimi: i puristi del mio ambiente sostengono che la tua è una forma un po’ “sempliciotta”. Forse qui torniamo al “bifolk”…
“E’ sempliciotta perché è fatta da uno che ha basato tutto quello che fa sulla semplicità… A me non frega niente che ci sia sotto Wellenweider con l’arpettina new age o il violinista dei Cheftains… C’è stato un periodo in cui giravamo in nove e con noi c’era uno dei migliori flautisti del nord Italia, uno che suonava la baghet bergamasca, con intrecci di suoni dal vivo che sembravano usciti da Bregovic, ma per me era troppo… L’importante è attraversare queste cose, ad esempio come nel disco quando abbiamo chiamato la Banda Osiris, che non è una vera banda, perché suonano gli strumenti in modo sguaiato, ma era quello che si voleva… “Sempliciotto”… Certo lo so, un disco di James Taylor è più preciso, è più impostato, è più matematico… perché James Taylor fa le cose in quel modo… L’idea di poter mischiare delle robe appunto in modo grossolano, non purista, con questo patchwork di cose, per me è fondamentale perché io non ho una musica reale laghet – dalle mie parti ballano il liscio romagnolo…”
Quindi questa tua forma che potrei definire “sgraziata” è intenzionale, voluta…
“Sì, è volutamente tale perché sennò dovrei fare dei giri e dei rigiri, una palestra apposta per poi dover affrontare dei puristi che francamente non mi interessa di affrontare perché questa è la musica per lo spazzino, per il muratore, ma anche per l’avvocato piuttosto che per il ministro che vuol sentire quella roba…”
Da questo punto di vista, allora, hanno ragione i filologi che dicono “questo non fa musica popolare!”…
“Hanno ragione quelli che dicono: “Questo non fa musica né folkloristica, né popolare”, anche se il contenuto è popolare… Ho inventato una forma che è quella che è fatta delle cose che ho ascoltato attraverso la mia vita… C’è di tutto dentro… Anche un blues sarà sempre un blues “à la Davide”, perché è il Davide che fa un blues…”
E il fatto di cantare in dialetto limita secondo te la diffusione della tua musica?
“Era la credenza iniziale della quale me ne fregavo perché ero talmente contento della cosa che per me già arrivare in città, a Como, e dire “mi conoscono” era già un successo… Adesso vedo che in Piemonte dicono “bello, abbiamo capito”, in Liguria idem, in Veneto imparano le canzoni a memoria, sono stato vicino a Roma e una bambina romana mi ha cantato “La Balera”, all’Aquila qualcosa capivano qualcosa no, ma la cosa più bella è stata arrivare a Perugia e vedere la gente che voleva capire, la cosa li incuriosiva, perché questo suono che non capivano gli piaceva da matti…”
… che poi è un po’ come l’inglese nel rock per chi non lo capisce, in fin dei conti…
“Esatto. Ci sono gli U2, “no, non vengo a vederli, non capisco niente…”, ma in fin dei conti conta poco, no?”
Rispetto alla tua visione delle cose, alla tua poetica, intendendo come costruisci il tuo immaginario e lo proponi agli altri, venendo da una realtà chiusa, quella lacustre – il lago non indulge sull’idea di viaggio, è un po’ come vivere in una pozzanghera – com’è nata questa visione per i mondi altri, che poi sono le vite delle persone di cui scrivi?
“… perché comunque era il passaggio obbligato successivo. Perché anche il personaggio che sta sul lago si trova in una situazione in cui lui è lì chiuso, col suo modo di essere col suo modo di vivere, ma è sempre stato un chiacchierone che ha osservato il turista che arrivava. E’ sempre stato uno che per un motivo o per l’altro ha viaggiato. Allora, vediamo questo laghet quando va in giro come reagisce, cosa riporta quando ritorna a casa, come lo dice, e come sarà lui scaraventato nel mondo… L’importante è non rimanere a crogiolarsi dentro questo mondo chiuso, questo lago, questa vallata… Il viaggio è importante proprio già come concetto anche astratto, tu ti concentrerai sempre sui passi che fai e se sarai bravo a guardare, a divertirti mentre cammini, porterai a casa qualcosa…”
Da qui deriva quella sorta di urgenza che si avverte nella tua musica… Sembra che tu fremi quando canti, come se tu non stessi nella tua pelle, e questo lo si ritrova nei testi, nella musica, la voglia irrefrenabile di andare, del viaggio, di evadere anche fisicamente…
“Sì, sono un ansioso… Vuoi sapere una cosa che le spiega tutte? Non c’è una canzone che non sia stata scritta nell’arco di una giornata… Cioè non può rimanere lì, dal momento che è partita la prima parola, a costo di svegliarmi di notte ma la devo finire, perché io sono ansioso, sono quello che apre il pacchetto subito, che non riesce a trattenere un’emozione…
Adesso che sei diventato famoso, se una major ti proponesse un contratto come reagiresti?
“Da un certo punto di vista, lavorando da libero sono riuscito a fare delle cose, certo faticando di più, ma ho fatto veramente quello che volevo sfidando tutte le leggi – il ritornello deve arrivare dopo tot battute, e la canzone più famosa, che è “La balàda del Genesio”, non ha ritornello ed è solo cantata ed è tutta uguale su tre accordi. Francamente credo davvero poco a tutto questo appiattimento dove tutto deve funzionare dal punto di vista commerciale, come i prodotti del supermercato. C’è anche gente che ha voglia di ascoltare mezz’ora di canzoni o come l’altro libro 80 minuti di storia in dialetto tutta in rima. Dico sempre che preferisco piacere tanto a 25 piuttosto che così così a 50…”
Ma non ti disturba questo successo incalzante, non hai paura che ti possa condizionare?
“Vedendo che è sempre proporzionato e che le persone capiscono quello che stai proponendo, non mi fa paura. Mi farebbe paura se dovesse esplodere da un momento all’altro come un lecca lecca, con tutti i bambini che lo vogliono perché la televisione ha uno spot che dice di prenderlo… Ma siccome tutti quelli che vengono dicono la stessa cosa, cioè che vengono a sentire quello che gli interessa sentire, allora sono tranquillo.”
("Folk Bulletin", )
NICK HAEFFNER. DELLO SCOMPARIRE INTELLIGENTE.
Prologo con piccolo mistero.
E’ probabile se non certo che il nome di Nick Heaffner non dirà nulla alla generazione che oggi aspetta con ansia l’ultimo disco dei Coldplay o accorre in preda ai brividi a un concerto dei Green Day.
Quando Haeffner se ne uscì con quel suo “The Great Indoors”, era il 1987, probabilmente non era ancora nata o per lo meno era intrattenuta a pappine.
Heaffner scomparve dalle scene di lì a poco com’era arrivato, comunque, dopo che quel suo favoloso, inatteso album – recensito dalle riviste del settore come un “piccolo grande capolavoro” – non aveva venduto granché e non si erano trovate radio disposte a farlo ascoltare. La sua casa discografica, oltretutto, - la gloriosa Bam Caruso di Phil Smee – era fallita dopo poco – e “The Great Indoors” era diventato difficile, se non impossibile, da trovare.
Io, il disco, per la verità l’avevo comprato mosso dall’impulso di poter ascoltare l’ennesimo “erede di Syd Barrett”. Come già mi era toccato con l’Anthony Moore di “World Service”, il Peter Blegvad di “The Naked Shakespeare”, il Julian Cope di “World Shut Your Mouth” e il “Robyn Hitchcock di “Black Snake Diamond Role”… mi sembrava irrinunciabile poter ascoltare la Testamatta reincarnata in qualche giovane inglese di belle speranze. Inutile dire che oggi quella prospettiva mi sembra pazzesca, oltre che improbabile, tant’è vero che nessuno di quei presunti “eredi” potrebbe oggi essere ragionevolmente ritenuto tale. Tantomeno Nick Haeffner.
Del suo disco, sin da subito calato in un’atmosfera di intrigante mistero (Chi era Haeffner? Da dove sbucava?), mi affascinava l’attitudine tipicamente inglese, quel dandismo un po’ demodè che esala da certe pagine di Oscar Wilde e che nella storia della “popular music” poteva già vantare un nobile albero genealogico (Syd Barrett→ Kevin Ayers→ Marc Bolan/ David Bowie→ Robyn Hitchcock/Julian Cope). Un gusto sinistro e quasi perverso per i contrasti di senso, una spiccata sensibilità per il grottesco, il docile tono del cantato, la sobrietà nel proporre un’immagine di sé quasi schiva in un’epoca caratterizzata dalle iperboli dell’estetica new-wave/post-punk.
Titoli (“Sai che odio la natura”, “Madri-serpenti”, “Torna in tempo per il tè”…) e copertina (uno splendido “frottages” di alla maniera di Max Ernst), inoltre, mi avevano catturato immediatamente…
La difficile, coraggiosa arte di far perdere le tracce nell’epoca dello star-system.
A Londra, l’anno dopo, recuperai un po’ casualmente (proprio nel negozietto-catacomba di Bernard White, il “più famoso fan di Syd Barrett”!) i due unici singoli in formato 12” tratti dal disco, augurandomi che il chitarrista decidesse prima o poi di tornare sulle scene con un nuovo lavoro…
Ma Nick Heaffner scomparve definitivamente e in pochi, da allora, si occuparono di lui.
Qui da noi, dopo l’appassionata recensione di Ugo Bacci su “Rockerilla” (“(…) Un gentile compendio di canzoni a vena psichedelica, di accenti folksy e frammenti musicali gonfi di tristezza e naivetè. Ascoltare la bucolica disposizione bluesy di “You Know I Hate Nature” da emozioni sottili, tra memorie floydiane e tocchi acustici alla Roy Harper. “Don’t Be Late” freme innocente nel ricordo di Drake e ha il brivido di una canzone indimenticabile”), non era uscito granché.
A mia memoria, la fanzine “progressive” “Melodie & Dissonanze” sarebbe stato tra i pochi a dedicare al musicista (sul numero 0 dell’ottobre 1992) un breve articolo dal titolo “Nick Haeffner: sulle tracce di un fantasma”, in cui sviluppavano alcune tesi interessanti:
“(…) Oggi che la tomba degli anni Sessanta è già alla seconda “scoperchiatura”, parlare di Haeffner pare archeologia per pochi. Per di più, la Bam Caruso/Strange Things è definitivamente fallita, dopo essere arrivata a “rubare” i soldi dei clienti in mail order per tamponare le falle economiche (cfr. “Ptolemaic Terrascope” vol. 3, n.1 pag. 3). Per quello che è trapelato nel corso degli anni, questa strana label deve essersi comportata molto male con i suoi “dipendenti” artisti. Si veda ad esempio la testimonianza di Paul Roland (in “The Haunting Pages”, Stampa Alternativa) circa i missaggi per il CD di “Dance Macabre”. Di qui a stabilire un nesso tra la sparizione di Haeffner e le presunte infamie della label c’è però un po’ di fantascienza di mezzo. E’ possibile che le cause emotive che avevano condotto alla stesura dell’opera abbiano (un po’ rimbaudianamente) contribuito a distruggere l’artista stesso nella sua essenza creativa. In realtà mancano gli elementi per poter stabilire alcunché, e sarebbe veramente ironico scoprire, fra due o tre mesi, un nuovo LP di Haeffner “redivivo” su cui spendere parole assai più divertite di quelle che ci è toccato usare per mezzo del presente articolo”.
Causa la fine di “Melodie & Dissonanze”, che ha avuto il merito di contribuire a suggerire percorsi realmente alternativi agli scontati clichè del giornalismo ufficiale, un’annunciata intervista esclusiva a Haeffner di Mick Dillingham, prevista per il n. 4, sarebbe rimasta inedita mantenendo inalterato il “mistero”…
Quanto a me, dopo aver abbandonato l’idea di stanare il fantasma, mi ritrovai a scriverne nel 1999 per una rivistaccia con cui ero stato convinto a collaborare (si chiamava “Tempi Dispari”: mi auguro sinceramente che non esista più!): dovendo proporre qualche disco in vinile ormai introvabile, tra rarità del tipo di “Oar” di Skip Spence, “The Purple Gang” dei Purple Gang e “Heavy Concept” di Nigel “the hippy” Planer, proposi un pezzo proprio su “The Great Indoors”.
Eccolo (in un remix del 9 aprile 2004):
“Nick Haeffner sfiora appena il music bizzz e scompare, come il più bello dei fantasmi. Nel solco della tradizione dei grandi desaparecidos del rock (Barrett, David Ackles, Fred Neil...), dopo qualche anno di praticantato, nel 1984 da alle stampe questo disco sbalorditivo e se ne va, per sempre.
Allattato dal manager-Bam Caruso Phil Smee a biberon di Beefheart, Barrett, Drake, Van Dyke Parks, Incredible String Band e Leonard Cohen, Haeffner è felice continuità con lo spirito folky dei Settanta, ma con l'inquietudine della decade Ottanta, dopo la tempesta ormonale delle utopie finita male.
C'è il gusto dell'orchestrazione barocca che sedusse il primo Drake, nel disco, l'amore per la ballata acustica folk, il nobile vezzo per certo songwriting d'elite, ma l'atmosfera che avvolge il lavoro è nebbiolina sinistra, ombra dietro l'angolo.
L'illusione che l'anima di Haeffner possa essere candida e rilassata è la sinuosa ballata in 3/4 d'apertura, lo strumentale "You know I hate nature", mini colonna sonora fintamente bucolica, con archi truffaldini da indigestioni notturne che al primo stop & go virano su tonalità inquiete, declinando il pezzo su un cantare di uccellini in gabbia.
"The sneaky mothers" ha il registro distratto del Barrett malato di mandrax; "The master" è un pezzo chitarristico dal riff incisivo che muta progressivamente in ballata elettro-acustica, mentre "The earth movers" è scalfita profondamente da una tastiera ritmica, in linea con la new wave inglese di quegli anni, che si perde nel vortice di una melodia da giostrina di paese alle sette di sera. Le chitarre, come nel brano precedente, svolazzano in sequenze di accordi da Fripp Gentiluomo. "Don't be late", il capolavoro del disco, è una ballata tranquilla cantata con tono soffuso e delicato. L'arpeggio ripetuto della chitarra e il violino che improvvisa nella sezione strumentale sono un saggio di inequivocabile sensibilità armonica degna del migliore Nick Drake. Poi, "Furious table" è insidioso mutante: la sezione ritmica sembra campionata dai dimenticati Dali's Car, la voce un'elaborazione elettronica di Lou Reed, la chitarra quella di Manzanera coi Roxy Music: la straordinarietà e il genio compositivo di Haeffner rendono l'impasto frankesteniano, già solo sulla carta improbabile, musicalmente avvincente.
"The Great Indoors", oggi introvabile, venne edito lo stesso anno anche in CD (come "The Great Outdoors"), arricchito dei due 12" che uscirono in quei mesi e di altre curiose rarità: "Song from a bottom of the well", ad esempio, remake del pezzo che Kevin Ayers aveva cantato nel '72 in "Whatevershebringswesing", merita la ricerca anche di chi il vinile ebbe l'intuito di acquistarlo all'epoca”.
Riascoltato oggi, è sorprendente come il disco mantenga tutta la sua integrità, un’omogeneità di climax che lo impone, in termini assoluti, come un vero e proprio “classico” (minore?) della “popular music”…
Riapparire per un attimo e sorprendersi di essere mancato…
Strane le vie di Internet. Incontri un tempo impossibili, oggi diventano un fatto “normale”. Prendi un motore di ricerca qualsiasi (io utilizzo Google, in genere) e digiti la parola “Nick Haeffner”: ti ritrovi parecchie pagine con quel nome e non è detto che tra queste si “nasconda” l’uomo che cerchi.
Ma se procedendo per tentativi ed errori ti imbatti in un Nick Haeffner fotografo (www.pbase.com/environment), che fotografa bene e ha un gusto davvero speciale per l’inquadratura e la scelta dei soggetti, allora puoi provare a lasciargli sul “guestbook” una breve nota del tipo: “Hey, ma sei tu l’uomo che ha pubblicato nel 1987 il leggendario album “The Great Indoors”?” e vederti rispondere che si, l’uomo che cerchi è proprio lui, che è sorpreso del fatto che ci sia ancora qualcuno interessato a quel suo vecchio disco…
A quel punto, tenuto conto della sua inattesa disponibilità, puoi evitare di sottoporgli alcune domande?
Sei ancora interessato all’idea di registrare musica?
“Non registro musica ormai da tanto e per la verità non ho molto tempo per pensarci. Il mio lavoro mi coinvolge parecchio. Forse se ne riparlerà un giorno!”
Cosa stai facendo in questo periodo?
“Sono docente universitario a tempo pieno a Londra. Ho la cattedra di Scienza della Comunicazione, il mio campo di studi è la cinematografia e recentemente ho pubblicato un libro su Alfred Hitchcock. Faccio fotografie per hobby e penso che alcune delle mie foto abbiano un’atmosfera simile a quella dell’album, anche se per la verità non mi considero ancora un grande fotografo!”.
Quando e perché decidesti di abbandonare le scene musicali?
“Me ne andai nel 1989, dopo un periodo di forte disillusione. Il mio disco non stava vendendo granché e mi ritrovavo ad aver lavorato per undici anni senza particolare successo. Dovevo pur guadagnarmi da vivere, in qualche modo!”.
Come nacque l’idea del disco?
“Prima di registrare il disco, ero stato in una band chiamata The Tea Set per qualche tempo. Dato che avevo composto un po’ di canzoni che agli altri del gruppo non interessavano, durante quel periodo le raccolsi, e quando la band si sciolse mi ritrovai con canzoni a sufficienza per farne un album solo. Phil Smee della Bam Caruso fu molto buono con me e dato che era convinto che potessi registrare un buon disco fu lui a finanziare le session e a realizzare il disco per la sua etichetta”.
Perché lo intitolasti “The Great Indoors”?
“Il titolo è un gioco di parole. In inglese, esiste l’espressione “the great outdoors” che ha a che vedere con l’aria fresca, la vita sana e l’attivismo. Mi piaceva l’idea di intitolare l’album “The Great Indoors” perché rifletteva bene quello che avevo vissuto durante l’infanzia – ho avuto una salute molto precaria e sono stato per molto tempo chiuso in casa a leggere e ad ascoltare musica. Inoltre, mi sembra che “the great indoors” si riferisca all’immaginazione, contrapposta alla realtà esterna”.
Come mai l’edizione in CD invece si intitola “The Great Outdoors”?
“Qualcuno sbagliò nel comunicare il titolo al momento di mandarlo in stampa. Nonostante questo, però, se si osserva attentamente, la copertina del CD riproduce la versione dell’artwork con il titolo corretto. L’edizione in CD ha una scaletta diversa dall’album. Mentre fu Phil Smee ha scegliere la sequenza della versione in vinile, fui io a decidere quella del CD. Adesso sono convinto che quella di Phil fosse la scelta migliore”.
Ti va di fare un commento ad ogni singolo pezzo?
“You Know I Hate Nature”: “Il titolo è ispirato alla battuta di un dialogo presente in un film di John Waters intitolato “Disperate Living” (uscito nel 1977, in Italia con il titolo “Nova Punk Story”, adattamento in italiano di Lidia Ravera, ndr.). Pensavo fosse divertente e perverso, così lo usai ironicamente come titolo del brano d’apertura. Per tutto il disco ci sono suoni molto naturali, acustici, missati a suoni molto artificiali, campionati, per cui emerge un totale equilibrio tra autenticità e falsità. Credo che questa ironia sia anche molto inglese, mi ricorda alcuni scritti di Oscar Wilde”.
“The Sneaky Mothers”: “E’ un pezzo di genere folk. E’ stato influenzato dalla chitarra ritmica di Buddy Holly (“Peggy Sue”), Richard Thompson (“Don’t renege on our love”) e Pete Townshend (“Magic Bus”). Il testo si riferisce a molte delle donne conservatrici di mezza età che vivono ad St. Albans, la città in cui abitavo quando registrai il disco”.
“The Master”: “Suonavo questo pezzo da un sacco di tempo, tanto che esistono versioni precedenti registrate con altri gruppi (Clive Pig and the Hopeful Chinamen e i Tea Set). Mi ispirai al programma televisivo inglese Doctor Who in cui il cattivo si chiama The Master. Le parti di chitarra derivano da varie fonti, tra cui la surf music, George Harrison (“Revolver”, l’”Album Bianco” e soprattutto “Abbey Road”) e Robert Fripp coi King Crimson. L’atmosfera del brano mi ricorda i primi Pink Floyd”.
“The Earth Movers”: “Il pezzo è basato su un paio di semplici riff di chitarra e basso, ma mi piace cosa ne è venuto fuori. Il batterista del disco (Gary Hawkins) fece un grande lavoro su questo pezzo, come su altri (“Furious Table”, ad esempio). E’ un pezzo piuttosto funky e mi piacciono molto le parti di tastiera che vennero aggiunte da Brian Marshall”.
“Furious Table”: “Questa canzone venne ispirata da qualcosa che lessi sulla tavola periodica degli elementi. Pensavo fosse un’idea carina, un po’ pazza per una canzone. Nei giorni in cui stavo registrando il disco ascoltavo alcuni dei primi dischi dei Talking Heads e penso che la loro influenza si senta in questo pezzo. Brian Marshall fece un grande lavoro di produzione – capì perfettamente il sentimento che volevo che avesse la canzone e mi aiutò a tirar fuori alcuni effetti molto belli”.
“Breaths“: “Questo pezzo era originariamente di un gruppo gospel nero chiamato
Sweet Honey in the Rock (dall’album “”Good News”, Flying Fish FF 245, 1977, ndr) – è proprio una grande canzone. La loro versione è probabilmente migliore ma credo che il testo calzi perfettamente con il mio album. Inoltre, Brian Marshall mi aiutò con l’arrangiamento, semplice ma efficace. La canzone ha un messaggio ecologico molto importante ancora oggi”.
“Back in time for tea”: “E’ un pezzo decisamente surreale e non so proprio dire da dove venga il testo. Lavorai un sacco alla produzione per ottenere i suoni che desideravo e fui piuttosto felice, alla fine, del risultato”.
“Steel Grey”: “E’ uno dei miei pezzi preferiti. Mi ricorda un po’ la musica di John Cale, quello degli album solisti, che mi piace molto, specialmente “Music for a New Society”. Ho sempre avuto in testa di registrare una cover di “Talking Your Life in Your Hands” che era su quell’album. Non è un grande cantante (come me, d’altronde) ma la sua voce può risultare molto commovente. Il mio amico Andy Pearce fece degli ottimi arrangiamenti d’archi”.
“The Great Indoors”: “Credo che la versione strumentale sia migliore da ascoltare (così evito di sentire la mia voce!) e sono molto contento di come è venuta fuori. Ha una bella atmosfera, un po’ come “Sunday” di Nick Drake, mi pare, anche se non volevo ispirarmi a quel pezzo”.
“Don’t Be Late”: “Credo che in fin dei conti sia la canzone migliore del disco. Gli archi (arrangiati anche stavolta da Andy) funzionano veramente bene. Dopo aver finito di registrarla, Brian (il produttore) fece girare le basi al contrario e mi piacque così tanto cosa ne uscì che decisi di includerne un estratto alla fine del pezzo nell’edizione in CD del disco”.
“Mean Guitar”: “E’ il mio tentativo di suonare del jazz. Per la verità non so suonare musica jazz ma pensavo di poterci riuscire. Nel pezzo c’è un chitarrista ospite, Jakko Jakszyk, che è un musicista eccezionale. Credo che registrò la sua parte in un solo take e senza neanche provarla prima”.
“The Master” e “Back In Time For Tea” (versioni del singolo): “Si tratta di remissaggi delle versioni originali del disco. Nonostante alcune recensioni esaltate del disco, nessuno dei pezzi venne trasmesso alla radio, il che fu abbastanza deprimente in quei giorni e contribuì alla mia decisione di lasciare il music business. Nonostante ciò, credo che negli ultimi tempi il disco sia stato mandato alla radio in America, il che mi rende felice. Penso addirittura che si conosca di più il disco oggi che all’epoca in cui venne realizzato”.
“Song from the Bottom of a Well”: “L’ho registrata come lato B del mio primo singolo. Ci divertimmo un casino con gli effetti, compresa la voce di William Burroughs, un’idea di Phil Smee”.
Hai mai suonato “The Great Indoors” dal vivo?
“L’ho suonato solo in rare occasioni in duo con Andy Pearce al violino e alla tuba! Fu molto divertente, ma dal momento che il disco praticamente non aveva venduto, nessuno sapeva chi fossi. Non è che fosse granché facile ottenere degli ingaggi”.
Ma quali erano state le reazioni al tuo disco?
“Beh, le recensioni del disco furono tutte ottime, ma non si trovò una radio in quei giorni disposta a trasmetterlo, tanto che principalmente vendette nella cerchia ristretta degli appassionati della Bam Caruso, l’etichetta – un numero esiguo di persone! Avevo registrato il disco con la speranza che suscitasse maggior interesse”.
Perché pensi che “The Great Indoors” oggi sia comunque ancora così intrigante per alcuni?
“In verità non lo so, è un po’ sorprendente per me che la gente sia ancora interessata al disco vent’anni dopo – non so chi lo ascolta e perché, ma non posso che essere contento che ci sia qualcuno interessato. C’ho messo così tanto tempo, fatica e passione nel farlo (più di ogni altra cosa che abbia mai registrato) che mi auguro si senta. Sono stato anche molto fortunato a poter godere di tanta disponibilità di tempo e libertà d’azione grazie a Phil Smee. L’album è veramente meglio di ogni altra cosa abbia mai registrato, devo proprio ammettere che mi è venuto davvero bene nonostante il grande sforzo per riuscire a ottenere quello che volevo. L’ho rimissato così tante volte, e sono stato fortunato che Phil era pronto a pagare tutti i costi dello studio. Si rivelò una cosa straziante che il disco vendesse così poco, soprattutto dopo tutte quelle recensioni eccezionali. Pensa che il “Guardian” sostenne che quella settimana il miglior disco non era la riedizione di “Sgt. Pepper’s” ma “l’album d’esordio di un tale Nick Haeffner”. Nonostante quella recensione, comunque, sono rimasto “sconosciuto” per molto tempo… Credo di esserlo ancora oggi (so che ad esempio il disco è ancora fuori catalogo), ma non mi faccio problemi. Forse un giorno “The Great Indoors” verrà ristampato. Mi piacerebbe che si pubblicasse un’edizione celebrativa dei vent’anni, anche se dubito che venderebbe bene – perché, vedi, in realtà non è un disco classificabile, il che lo rende difficile da commerciare”.
Qual era l’atmosfera a quel tempo alla Bam Caruso?
“Phil Smee, patron dell’etichetta, mi diede molto sostegno nel fare il disco ma vendette l’etichetta quasi subito dopo. Non credo che la nuova proprietà fosse molto interessata alla mia musica, per cui andai a parlare con qualcuno della EMI. Dato che mi resi conto che non avevo intenzione di lavorare per loro decisi di prendere tempo e entrai all’università”.
In quei giorni, quali erano le tue principali influenze musicali e artistiche?
“Ascoltavo così tanto in quel periodo che mi è difficile stilare una lista di tutte le mie influenze. Ho già parlato all’epoca dell’uscita del disco degli artisti che mi avevano influenzato, ma eccotene un nuovo elenco: Captain Beefheart, Love, Tim Buckley, Booker T and MGs, The Meters, Eddie Cochrane, Django Reinhardt, Sandy Denny, Judy Collins, Van Dyke Parks, Bach, John Dowland, Purcell, Ravel, Debussy, Chopin, Mahler, Kurt Weil, Harry Partch, Francoise Hardy, Nico, Laura Nyro, Augustus Pablo, The Mahotella Queens, Fela Kuti… Buona musica proveniente da tutte le parti del mondo! Tra le cose che mi sono piaciute di più di recente, Tom Waits, Beck, Sigur Ros, The Flaming Lips, Banzai Republic, Kruder Dorfmeister e una gruppo zingaro che si chiama Taraf de Haidouks”.
E cosa ricordi, più in generale, del clima che si respirava in Inghilterra?
“Registrai il mio album in pieno “thatcherismo”. Ero molto incazzato per il modo in cui la Thatcher vedeva l’Inghilterra e molto di quello che ho fatto nell’album e in seguito è una protesta alla sua idea di società. Purtroppo Tony Blair sembra condividere la stessa idea… Non mi piace neanche lui! Odio il conformismo della classe media e gli stili di vita arrendevoli. Penso che le persone che mi hanno influenzato fossero molto più folli, ma in un modo veramente positivo ed eccitante. Oggi la cultura sembra molto più conservatrice dell’epoca in cui registrai il disco, anche se la società inglese è molto più liberale sotto molti punti di vista. Oggi, da un punto di vista politico non esiste la Sinistra, in Inghilterra. L’unica possibilità di scelta è fra le due destre di partiti moderati. Mi auguro che ci sia una reazione contro lo spirito mite e commerciale che ha preso in scacco il mio Paese e che la gente prenda coscienza dell’inquinamento, del debito pubblico, dell’ineguaglianza sociale, del consumismo, dello spreco e di tutti gli altri gravi problemi oggi ignorati. Molti di questi problemi sembrano essere peggiorati da quando la Thatcher e Blair hanno deciso che la direzione in cui spingere la Gran Bretagna è quella di diventare sempre più come l’America. Mi piacciono molto i Paesi Scandinavi e sono convinto che abbiano un’attitudine più illuminata nei confronti di questi problemi. In Danimarca, ad esempio, tutti vanno in bicicletta e dovunque ci sono mulini che generano energia eolica. E’ una vergogna che qui siano così pochi a rendersi conto che è possibile un sistema di vita alternativo a quello che viviamo. Mi piacciono molte cose che provengono dall’America, ma credo che oggi ci stiamo muovendo nella direzione sbagliata – sembra proprio che la Gran Bretagna stia seguendo quel modello ignorando le cose migliori che esistono in Europa, cosa di cui non mi capacito. Non possiedo un’auto, vado in bici dovunque… ed è grandioso!”
Andando a ritroso: come hai iniziato a suonare?
“Sono nato il primo agosto 1959 ad Adelaide, nel sud dell’Australia. I miei genitori erano inglesi e quando avevo 4 anni decisero di ritornare in Inghilterra. Inizialmente ci trasferimmo a Plymouth e a Exeter, nel sud del paese, quindi andammo ad abitare a St. Albans, nell’Hertfordshire. E’ lì che ho iniziato a suonare. Avevo all’incirca 15 anni quando ho iniziato a suonare la chitarra. Mi sono cimentato con il songbook dei Beatles, imparando le canzoni che mi piacevano di più. Avevo anche il songbook di “Tommy” e di “Quadrophenia” degli Who, da cui ho imparato alcuni cambi di accordi veramente inconsueti. Suonai per un po’ con un musicista locale, Clive Pig, con cui realizzai alcuni dischi per la prima etichetta di Phil Smee, la Waldos. Grazie a Phil, in seguito entrai nei Tea Set, nel periodo in cui stavano realizzando il loro secondo singolo, “Keep on Running”. Il gruppo era molto valido dal vivo, tanto che andammo in tour con gli Stranglers e i Skids, ma ci mancava un produttore capace e i dischi non erano all’altezza del nostro live set. Fu subito dopo lo scioglimento dei Tea Set che registrai “The Great Indoors”. Quindi, dopo aver collaborato con Richard Norris nei Wild Kitchen, mi misi a suonare con i Huapango, una band che faceva world music… Dopo undici anni di attività senza aver ottenuto granché, andai all’università a studiare cinema e filosofia. Da allora, ho ottenuto un BA (è il Bachelor of Arts, il primo livello di laurea che si ottiene dopo 3 o 4 anni di studio, ndr.), un MA (Master of Arts, secondo livello di laurea, ndr.) e un PhD (Doctor of Philosophy, è il terzo livello di laurea, equivale alla libera docenza e conferisce il dottorato, ndr.) e adesso sono un docente a tempo pieno della London Metropolitan University. Insegno cinema e storia della cultura (cfr. il sito www.re-possessed.com). Vivo nell’East London con il mio compagno e un gatto. E’ davvero bello sapere che ci sono ancora persone interessate a “The Great Indoors”!””.
Discografia di Nick Haeffner
Clive Pig and the Hopeful Chinamen
“Happy Birthday Sweet 16”/”Our Movement” (7” – UK 1979)
“Sailor with a Telescope” (cassette – UK 1981)
“Visions” (cassette – UK 1982)
“Time to get Tough” (cassette – UK 1983)
“Clive Pig and the Hopeful Chinamen” (LP – UK 1983)
“A Sense of the Size of the World” (LP – UK 1987)
“One Night in Greece with an American” (12” – UK 1987)
“The Whale Zoo” (7” – UK 1987)
The Tea Set
“Keep on Running” (7” – UK 1980)
“South Pacific”/”The Preacher” (7” – UK 1981)
The Remayns
“Why?” (7” – UK 1985)
Black Atlas
“My Baby Walked Out (Of the Love In)” (flexy-disc – UK 1986)
Inclusa nella fanzine inglese “Strange Things”.
Nick Haeffner solo
“The Dali Parton Tapes” (cassette - UK 1986)
Nastro a tiratura limitata (definiti “legendary tapes”…) in vendita attraverso l’edizione in vinile di “The Great Indoors”. Raccoglie nove pezzi “demo” del disco e un inedito.
“The Master”/”Steel Grey”/”Song From The Bottom Of A Well”
(12” EP – Bam Caruso PABL 072, UK 1986)
“Back in time for Tea”/”Every Time We Say Goodbye” (12” EP – Bam Caruso PABL 073, UK 1986)
Attribuito a “Nick Haeffner and the Readymades”.
“Sneaky Mothers”/”World Spinning Sadly” (7” – Bam Caruso OPRA 060, UK 1986)
Primo brano di Haeffner tratto dall’album, lato B del gruppo The Parking Lot.
“The Great Indoors” (LP – Bam Caruso KIRI 071, UK 1986)
“The Great Outdoors” (CD – Bam Caruso KIRI 071, UK 1988)
Scaletta rivoluzionata per volontà di Nick. Il CD raccoglie inoltre i singoli “Back in time for Tea”, “The Master” e “Song from the Bottom of a Well”, oltre all’inedito strumentale “Don’t Be Late Reprise”.
Antologie, collaborazioni, altri progetti
AA.VV. – “From the House of Lords” (LP – Bam Caruso KIRI 065, UK 1986)
Raccolta di band fittizie costituite dagli stessi musicisti. Nick Haeffner suona la chitarra nei pezzi “Coliding Minds”, “I’m not your stepping stone”, “Workshop of my mind” (dei Black Atlas), “Living Colours”, “The Last Mile” e nella cover dei Beatles “Dear Prudence”.
“Ti faccio una rivelazione: gran parte delle band di questi album non è mai esistita. Le note di copertina erano truccate. Il disco “The House of Lords”, ad esempio, era una specie di gioco. Fu un’idea di Phil Smee e di Cally (Martin Calloman) della Bam Caruso, che volevano vedere se saremmo riusciti a inventare una serie di gruppi e registrare pezzi più o meno con gli stessi musicisti pur suonando in stili sempre differenti. Non mi ricordo chi suonò in quel disco, ma ricordo che io suonai la chitarra sulla maggior parte dei pezzi. Mi piacque molto fare “Dear Prudence”. Nell’album ci sono un paio di gruppi reali (The Doctor e Paul Roland & The Attractions) ma il resto dei gruppi è costituito da me, Phil, Cally, Richard Norris e qualche altro nostro amico. Credo che anche Brian Marshall e Gary Hawkins (che ha lavorato in “The Great Indoors”) suonarono in molti pezzi. Sono ritratto in due foto sia sulla busta interna dell’album (con i Time Machine e con i Glass Keys) che sul retro copertina!”.
AA.VV. – “Meanwhile back at the ranch” (LP – Bam Caruso MARX 075, UK 1987)
Nick Heaffner e Tracy suonano la cover di “Somebody to Love”. Nick suona anche la chitarra nel brano “The Wild Kitchen” del gruppo omonimo. Nella raccolta è contenuta anche la versione edita di “Don’t Be Late”.
“L’originale di “Somebody to Love” è grandiosa ma mi pare di non essere riuscito con la mia versione a raggiungere i risultati che avrei voluto. Dovetti registrare il pezzo molto in fretta e penso che la chitarra fosse addirittura stonata. Non avevo il tempo di rifarla. Non si può proprio dire che sia uno dei miei pezzi migliori…”
Psychic TV – “Love War Riot”/”Eve ov Destruction” (12” – Temple Records TOPY 048, UK 1989)
Nick suona l’assolo di chitarra sul lato B. La partecipazione, per quanto occasionale al progetto di Genesis P-Orridge è confermata anche dal volume “Psychic TV- Genesis P-Orridge: A Coumprehensive Collection of Lyrics 1981-1990” edito da Stampa Alternativa nel 1991 a cura di Vittore Baroni: Haeffner è elencato tra i collaboratori a pagina 109.
AA.VV. – “Head Sounds from the Bam Caruso Waxworks Vol. 1” (CD – Bam Caruso, UK 1990?)
Compilata e prodotta da Phil Smee, è un’antologia della Bam Caruso che raccoglie 22 pezzi dell’etichetta. Tra questi, la versione edita di “Don’t Be Late”.
Bibliografia di Nicholas Haeffner
Nicholas Haeffner, oltre ad aver scritto due saggi su Alfred Hitchcock, è direttore del periodico “Subject Matters: A Journal of Communications and Subjectivity”.
“Ushering in the ‘80s: Chariots of Fire”, in “British Cinema” (1993)
“Image and Identity in Metropolitan Sexual Subcultures”, in “Diatribe” n. 4 (Inverno 1994-1995)
“Alfred Hitchcock” (Longman Edition, Londra 2001)
“Introduction”, in “Subject Matters” Vol. 1 n. 1 (Inverno 2003)
“Enlightenment Subjectivity”, in “Subject Matters” Vol. 1 n. 1 (Inverno 2003)
“The Ethic of Truths”, in “Subject Matters” Vol. 1 n. 2 (Primavera 2005)
“On Directors: Hitchcock” (Pearson Education, Londra 2005)
Articoli in italiano su Nick Haeffner
Bacci Ugo, “Nick Haeffner, “The Great Indoors” (“Rockerilla”, 1987)
Ferrari Luca, “Nick Haeffner: “The Great Indoors” (“Tempi Dispari” n. 1, Autunno-Inverno 1999)
“Nick Haeffner: sulle tracce di un fantasma” (“Melodie & Dissonanze” n. 0, ottobre 1992)
Contatti con Nicholas Haeffner: nickhaeffner@hotmail.com
(20 gennaio-3 febbraio 2006 dal sito defunto La Dea Bicefala - www.lucaferrari.net)
Intervista con Giulia Coltri (Mondine di Novi)
L’occasione dell’incontro con il nuovo disco del Coro delle Mondine di Novi ci ha dato l’opportunità di porre qualche domanda a Giulia Coltri, coordinatrice e portavoce del coro, per indagare più in profondità il significato e alcuni aspetti di questa esperienza esclusiva.
Come nasce il Coro delle Mondine? Perché proprio a Novi?
“La storia del Coro Mondine di Novi inizia nel 1972 durante il ritorno da una gita in pullman. Un gruppo di amiche cominciò a cantare vecchie canzoni popolari, a più voci e senza tecnica, ma con passione e vigore. L’effetto era molto piacevole... Il maestro di musica, Tonino Gilioli, capì le potenzialità di quel canto e di quel gruppo di donne; ebbe così l’idea di organizzare una Corale Popolare. Questa fu all’inizio a voci miste e raccolse l’adesione di una sessantina di appassionati.
Una naturale selezione portò a ridurre notevolmente questo gruppo che divenne dapprima “Mondine e Cavallanti” (‘cavallanti’ erano braccianti che in risaia distribuivano alle mondine i mazzetti di piantine di riso da trapiantare) e poi “Coro Mondine di Novi”.
All’epoca erano tutte donne novesi, unite fin dalla prima giovinezza dall’esperienza del lavoro duro nei campi e della risaia, dalla faticosa lotta quotidiana per sfuggire alla miseria.
Il nostro piccolo paese, come altri della pianura Padana, viveva essenzialmente di agricoltura: molte e spesso numerose famiglie vivevano con il lavoro bracciantile nei campi e nelle stalle; quando cominciò la richiesta di manodopera per le grandi risaie del Piemonte, molte donne, giovani e vecchie, lasciavano le loro povere case per 40 giorni di monda, un lavoro davvero duro, faticoso e mal pagato, per portare qualche soldo in più in casa.
Un modo per sollevarsi dalla fatica e dimenticare la durezza della vita era il canto che a volte nasceva spontaneo, come stornelli che le donne si lanciavano da una squadra all’altra, ironici e provocatori; spesso richiesto dal padrone per costringerle a tenere un ritmo di lavoro più sostenuto, quando la fatica cominciava a farle rallentare…”.
Come si entra a farne parte? Può entrarvi chiunque?
“Il Coro è aperto a chiunque senta di appartenere alla storia delle mondine, di avere radici comuni con questo gruppo speciale di donne, a chi voglia condividere con noi il piacere del canto popolare, dello stare insieme anche quando non si è in concerto.
Per questi motivi chiunque può entrare nel Coro, ma il Coro non è per chiunque. Nel Corso degli anni diverse donne, anche ragazze, si sono avvicinate al gruppo e hanno chiesto di cantare con noi. Chi è rimasto è perché è entrato da subito in sintonia con le motivazioni, le emozioni e la forza del gruppo. Ora il Coro è formato da 25 donne la cui età va dai 40 agli 84 anni...”.
Dove vi incontrate per cantare?
“Ci incontriamo una volta alla settimana, di solito il mercoledì dopo cena, nella Scuola di Musica del nostro comune. Per circa un paio d’ore proviamo le nostre ‘cante’, discutiamo delle nostre questioni, ci raccontiamo impressioni, storielle…”.
Come coprite i costi dell’organizzazione?
“Per sostenere alcune manifestazioni musicali da noi stesse promosse chiediamo contributi da istituzioni ed enti locali, oltre che a privati. Inoltre il Comune offre spazi e infrastrutture a tale scopo. Quando ci esibiamo in concerto in giro per l’Italia e il mondo, oltre al rimborso delle spese, chiediamo un compenso. Quello che rimane alla fine viene utilizzato per le nuove iniziative del Coro e per sostenere associazioni locali di volontariato, così come è stabilito dal nostro statuto”.
Quale il ruolo della direttrice in un coro di canto popolare?
“Il nostro è un coro particolare, nel senso che nessuno di noi conosce la musica. Siamo canterine, come ci definiva il nostro maestro Tonino. Le più anziane, le vere mondine, avevano già un loro assetto e un modo tipico di cantare. Le altre non fanno altro che ascoltare e imparare direttamente dalle veterane, trovando un posto nel coro secondo la propria predisposizione o addirittura scoprendola a poco a poco. Il mio compito è di dare organicità al tutto, cioè di individuare la particolarità di ogni voce e collocarla nel punto giusto del gruppo, perché la struttura, la “fisicità” canora del coro è un elemento molto importante. Inoltre cerco di mantenere un clima di equilibrio e tranquillità, di entusiasmo e fiducia, necessari per affrontare piccole e grandi difficoltà e sempre nuovi impegni e sfide.
Tutto poi accade sempre come per magia: il gruppo trae energia e sicurezza da ogni singolo e ognuno trae forza e fiducia dal gruppo”.
Come selezionate il materiale da proporre in concerto?
“La maggior parte dei canti del nostro repertorio deriva direttamente dalle donne stesse che cantavano nelle risaie e quando si ritrovavano insieme, nelle pause o dopo una giornata di dura fatica. Sono canti di lavoro, di lotta, di protesta, canti d’amore e di dolore, canti che spesso avevano sentito e imparato dai loro genitori, dai vecchi.
Altre sono canzoni di cui ci innamoriamo ascoltandole da altri cori e gruppi musicali che incontriamo nel nostro cammino, che per qualche motivo sentiamo subito “nostre”, cantandole e interpretandole nel nostro modo, nel nostro stile”.
Quanti spettacoli fate mediamente in un anno?
“Attualmente facciamo in media 30/35 spettacoli all’anno. Siamo spesso invitate a tenere concerti nelle case di riposo, nei centri sociali, per anziani o polivalenti, nelle fiere e sagre, nelle piazze e nei teatri e nelle rassegne nazionali e internazionali di cori e gruppi musicali popolari. Più recentemente, avendo collaborato con gruppi musicali giovanili e in particolare portando avanti un progetto multimediale “Di Madre in Figlia” con i Fiamma Fumana (www.mondineduepunto0.org ), capita spesso di partecipare ad eventi musicali a grande partecipazione giovanile e a manifestazioni culturali/musicali di più vasto respiro
(collaborazione con l’attrice e autrice teatrale Ivana Monti nei suo spettacoli incentrati sulla storia d’Italia e dell’emancipazione femminile dalla fine dell’800 alla Seconda Guerra Mondiale)”.
Quali i contesti? E come reagisce il pubblico?
“Sia che cantiamo nelle case protette, nei centri sociali dove il pubblico è prevalentemente anziano, oppure davanti a grandi platee di giovani, spesso molto consapevoli della storia e della politica italiana; o ancora nei teatri in Italia, in America, in Inghilterra, davanti ad un pubblico di varia età, culturalmente più preparato, la reazione è sempre di grande partecipazione, entusiasmo e spesso anche di sincera commozione. Gli anziani cantano con noi le canzoni che hanno segnato la loro gioventù, faticosa e tribolata, rivivendo anche i bei momenti passati, mentre i giovani si entusiasmano alle canzoni che raccontano della storia passata e che nessun libro di scuola racconta e ritrovano le radici culturali e sociali che ci portano alla vita attuale”.
Perché avete pensato di registrare un CD? Che diffusione ha? È regolarmente distribuito?
“Dopo aver inciso negli anni passati 4 nastri, era tempo che preparassimo una nuova registrazione, dato che avevamo da proporre nuovo materiale. Quindi, poiché il nostro pubblico era costituito anche da giovani e richieste in questo senso arrivavano da tutte le parti, anche dall’estero, è stato naturale pensare anche alla versione su CD. Al momento viene distribuito direttamente da noi, durante i concerti e attraverso la rete con spedizioni postali. Ma naturalmente ci farebbe molto piacere trovare una via di distribuzione più vasta e regolare...”.
“Dopo il grande lavoro dei ricercatori e degli studiosi di musica e canto della tradizione e delle origini, fatto soprattutto negli anni ‘50/’60 e che ha permesso di scoprire, recuperare e far conoscere una gran parte della cultura popolare che andava scomparendo, si è visto negli anni successivi l’alternarsi di interesse e oblio verso questo materiale e verso coloro che lo riproponevano. Laddove la realtà è ancora legata alle tradizioni rurali e contadine, le sue manifestazioni musicali rivivono in un modo più autentico e partecipato. Ma più spesso si riducono ad esibizioni staccate dalla realtà, di qualche interesse culturale per pochi appassionati che da una parte hanno la pretesa della ‘purezza’ della riproposta musicale che deve essere aderente a modelli cristallizzati nel passato e dall’altra hanno una conoscenza superficiale della cultura alternativa che si ferma ad un generico fatto di costume e spettacolo.
Ritengo che questi due modi di vedere non abbiano molto senso, poiché decretano entrambi la morte della cultura popolare proprio quando ne vogliono fissare con precisione modelli e stereotipi fissi nel tempo. Infatti tutto ciò è in piena contraddizione con il concetto stesso di cultura popolare, cioè di tutte quelle espressioni e modi tipici che hanno sottolineato e accompagnato le diverse fasi della vita del popolo, sia nel mondo privato che sociale, continuamente mantenute vive dai continui contatti con modi espressivi vicini, con le diverse interpretazioni, con la fantasia e la passione di chi ogni volta le riproponeva, con la storia che cambiava e le lente ma significative trasformazioni della società e delle relazioni umane.
Gran parte delle musiche e dei canti di tradizione diventeranno materiale archiviato e catalogato, da ascoltare e magari studiare come si fa con la storia passata. Ma tutti coloro che con la stessa passione e fantasia portano queste radici espressive della tradizione nella realtà contemporanea, nei modi espressivi e di comunicazione attuali, danno con la loro musica e il loro canto, continuità al racconto della vita e della cultura popolare secondo i modelli di una cultura alternativa, di un modo diverso di essere comunità, di relazioni umane e sociali, di solidarietà.
Noi cantiamo per noi stesse, per il piacere di stare insieme cantando e raccontando storie; questo è parte essenziale della nostra vita, tanto è vero che, anche quando non abbiamo concerti, cerchiamo ogni occasione per ritrovarci e condividere piccoli momenti della vita quotidiana. E sempre ci mettiamo in cerchio tra di noi, per comunicarci meglio questo piacere. Così facciamo sul palco.
Naturalmente siamo consapevoli del ruolo e del significato della nostra esperienza: noi raccontiamo una piccola storia, la storia della mondina, con canti e parole che fanno parte delle nostre radici. E lo facciamo con naturalezza e passione, con la convinzione di trasmettere qualcosa e di essere vive ogni volta che parte il canto, sempre uguale e sempre diverso, perché ogni volta riprende energia, si rinnova, si rigenera. Noi non siamo mondine, nel senso che non cantiamo le loro ‘cante’ perché stiamo lavorando nelle risaie o stiamo facendo le loro stesse vite, ma siamo mondine quando raccontiamo la loro storia nel modo come alcune di loro ce l’hanno trasmessa. E lo facciamo insieme a loro cercando di andare avanti con la stessa passione e forza”.
(7 maggio 2008 - dal sito La Dea Bicefala - www.lucaferrari.net)
Intervista a Marco Pandin (Stella Nera)
Com’è nata l’idea di Stella Nera?
“E' una vecchia storia, un chiodo fisso. Nei primi anni Ottanta ho fondato una fanzine, “Rockgarage”, con alcuni compagni di radio, amici di quartiere etc. Avevamo pochissimi soldi e nessuna esperienza, però in breve siamo riusciti a mettere in piedi da soli un bel giro: qualche migliaio di copie vendute, dischi, cassette, concerti. Il tutto è finito improvvisamente quando da veri coglioni ci siamo fidati di un distributore che ci aveva assicurato una maggiore diffusione: ci ha preso tutto e non ci ha mai dato un cazzo. Io all'epoca avevo già un lavoro fisso, ma c'erano dei miei compagni ancora disoccupati e “Rockgarage” sarebbe potuta essere per loro una buona occasione di lavoro. S'è sempre fatta una fatica bestia a recuperare i soldi dei dischi venduti: i negozi alternativi più famosi, i distributori indipendenti più affermati, i compagni e i collettivi più rivoluzionari hanno sempre rubato tutto. Ho deciso di mettere in piedi un qualche cosa che fosse completamente estraneo a questi giri di merda: fare dischi che non si potessero trovare nei negozi o tramite un distributore (indipendente, alternativo o commerciale è assolutamente uguale) significa chiudere le porte in faccia agli speculatori e recuperare un minimo di rapporto umano. I materiali prodotti da stella*nera si possono richiedere solo per corrispondenza o per contatto diretto, e servono a sostenere A/Rivista Anarchica: ci ho messo del tempo, ma riesco a diffondere tuttora centinaia di copie facendo praticamente tutto da solo”.
Da dove viene il nome ‘stella nera’?
“Non ci ho mai pensato sopra, direi che non c'è una ragione particolare. Mi piace quell'asterisco incastrato a metà. Da “Rockgarage” ad oggi ho cambiato tante volte nome (ho pubblicato diversi libretti, dischi e cassette come Catfood Press, a/divergo, Art As Hammer, etc.) ma non idea. Potrei aver immaginato questo nome in sogno, faccio sempre sogni strani”.
Quali i rapporti con “A/Rivista anarchica”?
“Nei primi anni Ottanta ho cominciato a scrivere recensioni di dischi di punk anarchico su “Rockerilla”: a loro "serviva", a me "andava bene". La cosa ha incuriosito la redazione della “A/Rivista Anarchica”, mi hanno invitato alle loro riunioni e mi hanno proposto di collaborare. Da allora non ho mai smesso, curo con una certa regolarità un osservatorio sulla musica indipendente, poi ogni tanto faccio delle traduzioni. La “A/Rivista Anarchica” è un giornale che leggo da quando avevo vent'anni e che mi ha aiutato a crescere, alle riunioni generalmente ho incontrato tanta gente con cui mi sono trovato bene, siamo diventati amici, ci si vuol bene. Grazie alla “A/Rivista Anarchica” ho incontrato Alessio Lega, Mimmo Franzinelli, Roberto Bartoli… Nel 1986 ho curato e pubblicato "F/Ear this!", una compilation internazionale a sostegno della rivista, a cui hanno fatto seguito tre volumi di "Voix vulgaires": ho raccolto contributi di sconosciuti ma anche di numerosi musicisti affermati, tutta gente che non ha voluto niente in cambio, solo qualche copia. E' andata molto bene anche un'altra mia iniziativa, nel 2003 ho curato e pubblicato "Mille papaveri rossi", una raccolta di canzoni di Fabrizio De André. Mi fa sentire bene l'idea di fare qualcosa di concreto perché questo giornale possa andare avanti”.
Come si caratterizza l’anarchismo di Stella Nera nelle proposte del suo catalogo?
“Onestamente, non mi sono mai posto il problema. Direi che stella*nera non è per definizione un'etichetta discografica anarchica: l'anarchico, il bastardo, il cattivo, il blasfemo sono io. Magari stella*nera è percepita come anarchica perché dà di sé stessa un'immagine complessivamente controcorrente, perché per trovare i vari cd ci si deve sbattere, perché ai banchetti non c'è un prezzo fisso, perché per le confezioni viene deliberatamente evitata la plastica in favore di carta riciclata, perché ho sempre spedito libri giornali cd e cassette ai detenuti che me li hanno chiesti… Ma alla fine stella*nera è anarchica perché l'anarchico sono io. Non sono approdato all'anarchismo da studi storici e filosofici, né da situazioni di scontro ideologico familiare: provengo da una famiglia operaia e di scarse possibilità economiche, e dai miei genitori finché sono rimasti vivi ho sempre avuto un grande sostegno morale. Ho cominciato a leggere regolarmente la “A/Rivista Anarchica” all'università, passavo tutte le mattine davanti a Utopia 2, una libreria anarchica di Venezia, e lì dentro mi piaceva perdermi a parlare, leggere, ascoltare. Sono felicemente inciampato nel punk anarchico nel 1979, quando un amico mi ha portato in regalo da Londra "Stations" dei Crass: ho consumato il vocabolario perché volevo capire tutto, poi sono riuscito a incontrarli, siamo ancora molto amici”.
Come vengono selezionati i lavori da pubblicare?
“Quello dell'etichetta non è il mio lavoro, io faccio tutt'altro per mantenere me e la mia famiglia. Per questo motivo riesco a tenere completamente slegato il catalogo da implicazioni di ritorno economico. Poi, riesco a dedicare a stella*nera solo i ritagli di tempo: lavoro, ho moglie e due figlie che occupano stabilmente i primi posti delle classifiche del mio impegno quotidiano. Una delle mie figlie è gravemente disabile e ha continuo bisogno d'assistenza, è anche per questo che faccio fatica a muovermi. Riesco a star dietro a uno, due lavori all'anno. Conta molto il rapporto di amicizia e conoscenza con i musicisti: ho curato e pubblicato i cd dei Franti perché ci si conosce da venticinque anni e si sanno molte cose l'uno degli altri. Tramite i vecchi Franti ho incontrato la Joel Orchestra, con cui s'è collaborato qualche tempo fa, così come c'è anche un bel progetto di collaborazione con i Kina che dovrebbe andare in porto l'anno prossimo. Lo stesso, mi fa enormemente piacere essere intortato nella ristampa dell'album dei Detriti, che esce tra breve, perché siamo amici da tanti anni, sono persone care a cui tengo. Buona parte dei titoli di stella*nera sono ristampe di vecchie cose scomparse, perché allora nessuno dei vari musicisti e gruppi come quelli del giro di Franti, e poi Detriti, Detonazione etc. avrebbe mai immaginato che ci potesse essere un qualche futuro, si viveva con orizzonti piccoli, ci si accontentava del qui ed ora. Ci si sbagliava, ma lo abbiamo saputo solo dopo”.
Come i progetti da lanciare?
“Va ricordato che stella*nera non ha grandi possibilità economiche: come ho detto prima tolte le spese vive va tutto, ripeto tutto alla “A/Rivista Anarchica”. Ciò nonostante, qualche risparmio, qualche ritaglio qua e là riesco a trovarlo. Ad esempio, s'è collaborato con il Centro Stabile di Cultura di Schio (Vicenza) per pubblicare assieme il cd di Erik Friedlander e Roberto Dani; ci siamo trovati bene e l'esperienza si ripeterà a breve per il cd della Pangolin Orchestra. Ancora, sono da anni in grande amicizia con Alessandro Monti, assieme abbiamo lavorato lo scorso anno al suo "Unfolk" e prima ancora per l'album "Wind collector" con Gigi Masin, tra qualche tempo ci metteremo nuovamente a lavorare assieme. Vorrei far notare che per questi progetti non è stato necessario disporre di grosse somme di denaro, quanto piuttosto di una grande voglia di collaborare, di intrecciarsi, di darsi una mano”.
Quali sono i rapporti di Stella Nera con il mercato culturale italiano?
“Molto scarsi e mi auguro rimangano tali, proprio perché faccio fatica a immaginare vicine le idee di "mercato" e di "cultura". Come dicevo prima sono piuttosto preso tra casa, lavoro e famiglia e ho difficoltà a partecipare a fiere, raduni etc. Un po' perché davvero non mi interessa, un po' perché al MEI a Faenza o alle fiere dell'editoria indipendente davvero mi sentirei un pesce fuor d'acqua. Non ho della merce da promuovere: ho solo della musica da offrire, delle parole da scambiare, dei sogni da condividere. Coi giornali ed i giornalisti è un po' diverso, non ci si frequenta molto ma con alcuni vecchi compagni come Nicola Catalano, Vittore Baroni, Alessandro Achilli e Alberto Campo c'è una grande stima. Non compro spazi pubblicitari nelle riviste specializzate perché non posso permettermelo, l'unica volta che l'ho fatto è stato su “Blow Up” per la ristampa di "Non classificato" dei Franti; Stefano I. Bianchi mi aveva chiesto una cifra davvero minima e, va detto, c'è stato un feedback tutt'altro che trascurabile”.
E i rapporti con l’estero?
“Un rapporto di collaborazione e scambio con distributori indipendenti e alternativi stranieri è un po' un salto nel buio: un paio (ReR Megacorp in Gran Bretagna, Wayside Music negli USA) si sono dimostrati affidabili e onesti, altri hanno richiesto e ottenuto materiale che non è poi stato mai pagato. Non dimentichiamo che stella*nera non è un'etichetta discografica stabile né regolare, non ho davvero mai provato a offrire il catalogo a un distributore all'estero, è successo che invece siano stati loro a chiedermi rifornimenti. Più di qualcuno, appena ho spiegato le modalità di pagamento, s'è rifiutato di contribuire al sostegno di un giornale anarchico. Per altri non è stato un problema. Da un anno ho organizzato alcune pagine web, niente di pretenzioso, ospitate sul server degli anarchici svizzeri: ricevo richieste di informazioni e di materiale quasi ogni giorno, dal Giappone alla Finlandia, faccio fatica a crederci”.
Che seguito reale ha Stella Nera?
“Non ne ho idea, certo è che la roba gira. Negli ultimi dieci anni ho curato e pubblicato una quindicina di cd, ho sempre giacenze minime, qualcuno l'ho esaurito e per qualche altro ho organizzato più d'una ristampa. Il problema è che ho poco tempo libero e faccio una fatica bestia a star dietro a tutto, alla posta e alle spedizioni: è che non mi va di fare dei prestampati, ci tengo a rispondere personalmente, a scrivere, a fare i pacchetti. Per me è importante”.
Qual è la struttura di Stella Nera?
“Semplice: ci sono io e basta. Faccio tutto, dalle telefonate all'appiccicare i bollini SIAE, alle spedizioni, alle traduzioni dei testi, alla grafica delle copertine. Non firmo né faccio firmare dei contratti: come dicevo prima, preferisco che il meccanismo venga mantenuto in moto dall'amicizia, dalla solidarietà, dalla fiducia, dalla condivisione”.
Quante copie pubblichi mediamente di un lavoro?
“Una prima tiratura di 800, mille copie. Poi quand'è finita si valuta se ristampare”.
Qual è il bilancio di questi primi anni di attività?
“Sono complessivamente sorpreso: continua a spiazzarmi l'accoglienza che le varie uscite ricevono, mi disorienta la gente che mi "assale" ai banchetti sommergendomi di richieste e di complimenti, mi mette a disagio leggere il mio nome nelle recensioni dei giornali, provo un tuffo al cuore nel sentire un "mio" disco che passa alla radio”.
(dal sito La Dea Bicefala - www.lucaferrari.net)
Quattro chiacchiere via mail con Daniele Sepe.
All’uscita del suo bellissimo “Jurnateri”, da poco pubblicato per le edizioni “Il Manifesto”, abbiamo scambiato quattro chiacchiere via mail (!) con Daniele Sepe, il funambolico musicista napoletano.
Come è nato "Jurnateri"?
“Jurnateri è nato, come tutti i miei dischi, dopo che per molti concerti proponevamo quel tipo di repertorio. In generale la legge del pop dice
proprio il contrario - fai il disco e poi promuovi i brani nuovi -, ma nel jazz, per esempio, è sempre stato il contrario: andavi in sala dopo che dal vivo avevi maturato il repertorio.”
Nei tuoi lavori (penso in particolare a "Totòsketches"...) esibisci una conoscenza e una competenza di generi e stili musicali davvero
impressionante, con un eclettismo che potremmo definire "zappiano"... Come riesci a non perdere la tua identità di musicista popolare?
“Beh, questo siete voi giornalisti a doverlo dire. Per me è tutta una cosa molto seria, che come tutte le cose molto serie ha sempre il suo lato comico (pensa alla tragedia di questa guerra e alla faccia del ministro Ruggiero...). In realtà, anche Zappa era uno che faceva apparire tutto quello che faceva un semplice gioco - erano le origini sudiste?”
Quanto credi sia attuale un approccio "politico" all'espressione?
“Non esiste un approccio non politico all' arte, consapevoli o inconsapevoli si è comunque coinvolti. L' arte è politica, perché è fatta di scelte e di visioni.”
Come vedi la musica oggi?
“Tragicamente lo specchio dei tempi, non nel senso che è peggiore di 20 anni fa. Ad esempio, i musicisti che lamentano che ai loro tempi tutto era meglio
sono come quei vecchietti che dicono che al tempo del Duce si viveva meglio. Ma questi sono anni di grande confusione e cambiamenti, non avrei mai
pensato a degli sviluppi così tragici del capitalismo occidentale: guerra, tragedie ecologiche, una scienza nemica che ci farà mangiare cose schifose,
povertà e malattie. La quasi totalità degli artisti continua a cantare delle loro fidanzate, e non si accorgono di niente.”
Questa sorta di "rinascimento" della musica popolare italiana (Rosapaeda, B.E.V., Uarragniaum, Tesi...) mi pare un forte segnale in controtendenza rispetto alle politiche culturali (se così possiamo definirle) imperanti, che tendono per antonomasia a massificare e indifferenziare l'offerta invertendo radicalmente i processo stesso della creazione/produzione: è il disco, nel mercato di massa, ha lanciare il concerto e non viceversa, com'era e come dovrebbe essere nella logica delle cose. Qual è la tua esperienza in merito?
“Al di là del merito dei musicisti che nomini, la word music non è altro che parte di un aspetto del mercato discografico, nel suo insieme non produce
niente di nuovo. Penso che spesso è solo il bisogno di sentire le proprie radici, una sorta di nostalgia per le cose del nonno, e in questo a volte è
estremamente reazionaria. Come il sogno del buon selvaggio che suona la tammorra. Il proletariato urbano o rurale italiano, ma anche quello
pakistano, ascolta tutt’altro che Sepe o Tesi.”
Nei tuoi lavori utilizzi frequentemente iconografie che suggeriscono una visione dal basso dell'umile e dello sfruttato (jurnateri), dei diritti civili e la libertà d'espressione (il grande Victor Jara, "perché i vivi non ricordano"...). Nell'epoca della globalizzazione dei mercati, quanto credi sia realistica una lotta per la globalizzazione dei diritti?
“Corsi e ricorsi, a volte la rivoluzione perde e a volte vince. Dopo Robespierre è venuto Metternich, ma dopo Mussolini è venuta la Brigata
Garibaldi. Non so se parlare di diritti o di comunismo sia realista, ma l'uomo è capace di immaginare, e immaginare un mondo migliore è proprio di un artista.”
Perché, secondo te, "i vivi non ricordano"?
“Bella domanda. La guerra ritorna per due motivi, per esempio. Per i soliti motivi economici e politici (recessione, necessità di zittire l' opposizione sociale interna, neocolonialismo...) ma anche perché si perde il ricordo generazionale della grande paura…”
Come giudichi la sinistra italiana (supposto ce ne sia una)? E questa rinata destra "a-sociale"...?!
“D' Alema ci portò alla guerra in Jugoslavia, Rutelli ha votato con Berlusconi per quest' ultima farsa. Sono contento di non averli votati. Dopo Genova hanno fatto a gara nel difendere il comportamento vergognoso delle Forze dell'Ordine. Veramente non so cos’abbiano di sinistra. Si sono suicidati. La destra fa quello che ha sempre storicamente fatto: difendere i ricchi e bastonare i miserabili. Ma le cose possono sempre cambiare, e ci sarà sempre uno Spartaco o un Guevara a non fargli dormire sonni tranquilli.”
(dal sito La Dea Bicefala - www.lucaferrari.net)