...classici per resistere alle radiazioni del mainstream...
BOB DYLAN - "Highway '61 Revisited" (Columbia, USA 1965)
“Like a rolling stones”, allora. Il folk americano cancellato da una voce profetica, febbrile, a insistere sprezzante: “Come ci si sente, come ci si sente a starsene da soli, senza un posto dove andare, come una pietra che rotola?”, a indicare una nuova prospettiva lontana che squarcia il buonsenso e l'ipocrisia del purismo in musica, i buoni sentimenti, l'amore da fotoromanzo, la famigliola in chiesa...
Uno dei sei pezzi di Highway 61 Revisited, registrato in sei giorni, tra giugno e agosto del '65. E' lui il traditore, in effetti, lui che ha lasciato il festival di Newport a bocca aperta, tra indignazione e risentimento, dopo un set con chitarra elettrica basso, batteria e tastiere che ha fatto a fette la noia bucolica della sconfinata America rurale tra surrealismi e blues rivisitati. Uno spettacolo irriconoscibile, blasfemo per quasi tutti.
La voce di Dylan, nasale, nei 6 minuti di “Ballad of a thin man”, il climax qui drammatico, grave, insidioso, dove Mr Jones (fantoccio del perbenismo puritano a stelle e strisce) non sa effettivamente cosa stia succedendo. “Vero Mr. Jones?”. Forse un rapporto omosessuale, forse una minaccia incombente, un errore fatale. Dylan ci lascerà nel dubbio. Il disco è un'inondazione di parole prese dalla poesia, dalla Bibbia, dalla cronaca dei quotidiani e più di tutto da quanto è stato pubblicato/cantato/suonato fino ad allora: sono blues cialtroni aggrediti con l'irriverente noncuranza del veterano (ma qui Dylan ha solo 24 anni!), come “Tom Thumb's blues” e “It takes a lot to laugh, it takes a train to cry”, o rock'n'roll sfacciati come “From a Buick 6”, o ballate ispirate da una sensibilità inarrivabile - “Desolation Row”, capolavoro del rock: “Ho ricevuto la tua lettera ieri (a proposito di quella volta che si è rotta la maniglia), quando mi hai chiesto come me la passavo era una battuta? Tutta la gente di cui mi parli - sì, li conosco, sono abbastanza anonimi - ho dovuto mettere insieme le loro facce e dar loro un altro nome... Adesso non riesco a leggere bene, non mandarmi altre lettere, a meno che tu non le spedisca dal Vicolo della Desolazione”. Imitato da molti, alcuni (Springsteen, ad esempio, o il 'nostro' De Gregori...) sul disco costruiranno la carriera...
(8 aprile 2013)
JOHN COLTRANE - "Ascension" (Impulse, USA 1965)
Descritto da Down Beat nel 1966 come “il più potente suono umano mai pubblicato”, “Ascension” portò il jazz ai limiti di un territorio rimasto ad oggi inesplorato. John Coltrane era approdato alla Impulse solo da qualche anno, dopo esperienze decisive nel quartetto di Davis (culminate in "Kind of Blue") e Thelonious Monk, e una straordinaria sequenza di album solisti per la Prestige e l'Atlantic (tra questi l'epocale "Giant Steps" del '60) che avevano contribuito a sbriciolare l'hard bop anticipando la new thing.
Certo, con “Free Jazz” (Atlantic 1960) Ornette Coleman aveva polverizzato qualche mese prima la struttura armonica che era resistita cinquant'anni, liberando definitivamente il suono con un ensemble di otto musicisti, ma Coltrane era riuscito ad andare oltre, liquidando le difese residue con un'improvvisazione totale affidata a dieci musicisti guidati dal suo tenore: due trombettisti (Freddie Hubbard e Dewey Johnson), due contralti (Marion Brown e John Tchical), due tenori (Archie Shepp e Pharaoh Sanders), un pianista (McCoy Tyner), due contrabbassisti (Art Davis e Jimmy Garrison) e un batterista (Elvin Jones).
Registrati nel giugno 1965, i 40 minuti e 23 secondi della suite pubblicata (“Ascension”) riscrivono i codici conosciuti urlando un linguaggio mai sentito prima, straripante di glissandi, crescendi e diminuendi, assoli di singole note prolungate in acuti lancinanti, con una forza espressiva, una potenza di fuoco inedita, quasi insopportabile all'ascolto.
Come in un rito sabbatico, dalla materia magmatica di suoni, gli assoli dei fiati ribollono, alternandosi, sostenuti da una sezione ritmica fuori controllo, in un climax incandescente, estremo.
Nelle interviste del periodo (incluse nel recente splendido “Coltrane secondo Coltrane” curato da Chris Devito e tradotto in Italia dalla Edt) Coltrane non riserverà che qualche parola ad “Ascension”, quasi come a voler prendere le distanze da un'esperienza tanto definitiva. E se il precedente “A love supreme”, altro capolavoro assoluto, aveva introdotto l'ascoltatore in una dimensione di intima raccolta preghiera al Dio smarrito e ritrovato, il senso dell'ascensione immaginata da Coltrane attraverso la sua musica era racchiusa nello sguardo intenso della foto di copertina del disco: seduto su uno sgabello, sassofono tra le mani, il musicista era concentrato verso un orizzonte lontano, un luogo da raggiungere con la volontà della fede, la fatica, forse. Impresa tutt'altro facile, sembra suggerirci la musica. Uno slancio scomposto, una tensione assoluta, verso l'Amore Supremo cantato in quegli ultimi suoi mesi di vita...
(1 aprile 2013)
NIRVANA - "Smells Like Teen Spirit" (Geffen Records, USA 1991)
1991, “Puzza di spirito giovane” canta Kurt Cobain in “Smells Like Teen Spirit”. “Nevermind”, il secondo disco dei Nirvana, da voce al nichilismo della generazione post-Punk, facendo a pezzi le retoriche del vuoto yuppismo capitalista di quegli anni. Non può che diventare il simbolo di un'epoca, il manifesto involontario del movimento 'grunge', giovani diseredati della periferia americana figli di un mondo che non li vuole, allora come oggi d'altronde, e che vestono e vivono come capita, senza cura, fregandosene. Disoccupati, poveri, senza speranza.
Sono dodici brani a loro modo perfetti, un'arte bruta che sfregia nel profondo il conformismo rock rimodulandone gli stilemi conosciuti: ritornello pop, chitarra-basso-batteria in stile hard rock, voce che graffia le parole, roca, inquieta, insofferente. E' musica essenziale, senza fronzoli, antica e moderna insieme, tanto ultimativa da assumere da subito l'aura dell'opera definitiva, sincretica.
E se la copertina è un capolavoro di comunicazione contemporanea (un neonato, nudo, che nuota sott'acqua attratto da un dollaro appeso a un amo - come dire: si comprerebbero anche la nostra anima), sono i testi a urlare il disagio di un destino segnato, nato male, finito peggio (Cobain morirà qualche anno dopo, nel pieno della popolarità, in circostanze mai chiarite, forzando ancora una volta il perverso rapporto tra Vita e Arte...): “Vieni come sei, com'eri. Come voglio che tu sia”, canta in “Come as you are”. “Come un amico, come un vecchio nemico. Prenditi tempo. Fai una pausa. Datti una mossa. La scelta è tua. Non fare tardi. Come un amico. Come un vecchio ricordo, ricordo, ricordo. E ti giuro che non ho un fucile”. Amicizia, solitudine, smarrimento, profonda mancanza di senso, confusione, violenza diventano lo spleen aggiornato dei sentimenti di un tempo in cui le vite, svuotate della loro ragion d'essere, sembrano sul punto di collassare. E in “Breed” (Procreare) è la lucida, terribile consapevolezza dell'assurdo progetto di dare significato all'esistenza: “Non mi importa se sono vecchio, non mi importa se non ho cervello. Devo andarmene da casa tua, ho paura di un fantasma. Anche se hai bisogno, non vuol dire che debba aprire gli occhi. Non dobbiamo procreare. Possiamo mettere su casa, costruire una pianta. Potremmo fare tutte e tre le cose, ha detto lei”.
Pubblicato dalla Geffen Records, una major del disco, “Nevermind” diventerà uno dei più grandi successi discografici dell'underground proiettando Kurt Cobain (voce, chitarra), Dave Grohl (batteria, voce) e Chris Novoselic (basso e voce) sulla scena mondiale. Un paradosso, certo, per un'opera così dura e disperata.
(25 marzo 2013)
SEX PISTOLS - Never Mind The Bollocks. Here’s The Sex Pistols (Virgin Records, UK 1977)
1977, Never Mind The Bollocks è la rasoiata che marchia il volto bello del rock progressivo. La musica giovane, da quel momento, non potrà più essere la stessa. E' la Londra della suburbia ad urlare, i disoccupati della workin' class a vomitare sopra e sotto il palco. Il nichilismo senza speranza di una musica che musica non è. Suoni scarni, l'elettricità ai limiti, i testi uno sputo al perbenismo e alle ipocrisie dei più. Persino la Regina è irrisa nell'anti-inno God Save The Queen. "Non è un essere umano", canta Johnny Rotten (il "marcio") con la scritta "Odio i Pink Floyd" sulla maglietta sgualcita. "Non c'è futuro per l'Inghilterra." Sono spille da balia conficcate nella carne, catene, lucchetti, giubbotti, svastiche. I volti affogati nel trucco volgare. La decadenza punk avrebbe affascinato anche Baudelaire.