Polemiche
Non comprate “XL”, costa “solo 1 euro in più” (di “Repubblica”)!
Non che lo stessimo aspettando trepidanti, ci mancherebbe altro. E’ che l’insistente promozione delle ultime settimane, confessiamo, ci aveva incuriositi almeno un po’. Scomparsa dalle edicole all’inizio del 2005, ci auguravamo per la verità che il consiglio di amministrazione de “La Repubblica” avesse opportunamente deciso di archiviare l’esperienza di “Musica”, dopo oltre 150 numeri, sotto la voce “ravvedimento”. Cominciavamo a sentirla come una piccola vittoria morale, dopo molte parole spese a criticarne la filosofia, le ragioni stesse del suo esistere. Dopo che eravamo arrivati, addirittura, a inviare (era il 2004) una biliosa lettera alla redazione in cui scrivevamo, accecati da un’indignazione furente:
“Ho resistito 105 numeri, caro Castaldo. 105 numeri di retoriche, vuote, inconcludenti ‘tiritere’ sulla musica scritte con un tono complessivo di irritante saccenza e spavalda presunzione, rara a trovarsi anche nelle peggiori riviste del settore.
Poi, l’ennesimo editoriale ipocrita (quello del n. 106), mi ha offerto l’occasione di scrivere quello che penso su un’operazione – “Musica! Rock & Altro” – che non mi ha mai convinto sin dal primo numero.
Con quale faccia tosta è mai possibile constatare bellamente che la cultura musicale nel nostro Paese viaggia a due velocità, se si sta proprio dalla parte i chi la monopolizza, la strumentalizza – quindi la brutalizza – a suo uso e consumo?
Anche il più sprovveduto dei lettori/appassionati di musiche si renderebbe conto che la “patinata e grottesca cultura del vuoto”, come la definisci tu, riempie proprio le 40 pagine del vostro settimanale…
… Ma con quale volgare spregiudicatezza è mai possibile – cari Castaldo, Assante, Bertoncelli, Pellicciotti e compagnia bella (il nuovo della critica che avanza…!) parlare di “libero mercato”, quando soltanto alcune voci hanno ospitalità tra le vostre pagine e le più vengono sistematicamente ignorate?
Perché saturare pagine e pagine con i “prodotti” di “Repubblica” (sul cui spessore culturale è a dir poco lecito dubitare), con imbarazzanti apologie di quegli stessi artisti “potenti” che ci straziano incessantemente le orecchie alla radio (i Dalla, i De Gregari, i Pino Daniele, i Jovanotti… a proposito: meschino e un po’ patetico il dibattito liquidatorio sui diritti d’autore…!), con le recensioni/articoli di libri di confratelli Giunti/Castelvecchi/L’Unità sul cui valore critico (in genere raccolte di testi acquistate da editori stranieri e tradotte neppure troppo bene) – di metodo della ricerca storiografica – è spesso altrettanto inevitabile dubitare?
Quale necessità vi ha spinto, 106 numeri fa, a lanciare l’ennesimo inutile giornale di musica, se non quella di vendere ancora una volta dei “prodotti” (scarpe, radio, profumi, alcolici…) come quasi tutti, per altro, ma con l’aggravante, tragica responsabilità di strumentalizzare proprio la musica per veicolare nuovi consumi massificati presso quei giovani che tanto “amate” e a cui non risparmiate ogni numero la morale (ah, povera Dandini…)?
E’ persino stucchevole il coro polifonico di letterine, diari, dissertazioni pseudo filosofiche dei vari Jovanotti, Piero Pelù, Michele Serra… e di tutto il Barnum della giovane (si fa per dire) intellighenzia di sinistra al potere – in realtà efficaci testimonial di quella grande impresa commerciale che è “La Repubblica”!
Complimenti, Castaldo, complimenti ancora!”.
Invece, benché in ritardo sulla programmazione editoriale (era annunciato per giugno), ecco comparire stamattina con “La Repubblica” il primo numero di “XL”, a “solo un euro in più” (offerta lancio). Rivista patinata di 290 (!) pagine, impaginata sul modello di “Rolling Stones” edizione italiana.
Diretto da Laura Gnocchi, a cura di Luca Valtorta (redazione: Eugenio Cirese, Flavio Brighenti, Andrea Silenzi, Gianni Santoro), “XL” si presenta con un primo piano in bianco e nero di Johnny Depp in copertina (motivazione a pag. 13: “Johnny Depp batte tutti. Sempre. Piace alla critica e anche al pubblico. Perché? Merito di Tim Burton che l’ha diretto e lo dirige ancora nel nuovo film La fabbrica di cioccolato? Merito di quella faccia che piace tanto alle donne? O di quell’anello col teschio che dice “Odio Hollywood”? Un ritratto firmato Wu Ming, i pareri di attori e artisti”).
Delle 14 pagine iniziali, prima del sommario, 13 sono occupate da pubblicità varia (nell’ordine: Honda, Versace, Replay Blue Jeans, Guess Jeans, Calvin Klein Jeans, Mini Cooper, Black Prince), ma a sfogliarlo tutto, dall’inizio alla fine, le pubblicità sono 105 (a pagina piena + una decina a un quarto di pagina), il 32,7% del totale, assimilabili prevalentemente alle categorie standard del (presunto) vivere&sognare nell’Occidente giovanile: abbigliamento, automobili, profumi, cellulari, accessori vari, alimentazione fitness… Mentre 48 sono le immagini a pagina piena inserite in articoli, le rimanenti 137 contengono testi, per lo più brevi, come “redazionali”.
Quanto ai contenuti, “XL” è strutturato tradizionalmente in articoli e rubriche, al solito amene, trattando in prevalenza ciò che si presume debba interessare e riguardare il giovane italiano contemporaneo (età del target: 16-25?): oltre ad alcuni “approfondimenti” sul tipo di quello dedicato a Johnny Depp, idolo delle masse (9 pagine in cui, tra l’altro, si raccolgono opinioni “autorevoli” sull’attore tra Eva Henger, Morgan, Linus, Jovanotti, Fabio Canino, Dolce & Gabbana…), nella rivista si trova un pezzo dell’onnipresente Lucarelli su Charles Manson (rubrica “La Nera”); un breve apologo di Bruce Sterling (“rubrica “Futurama”); “Kate & Pete”, dedicato alla love story tra la modella Moss e l’ex cantante dei Libertines (“sono i nuovi Sid & Nancy’”, si chiede l’autrice Simona Siri…); un reportage sul wrestling messicano; le confessioni di Ligabue raccolte da Flavio Brighenti; “Una visita sul pianeta White Stripes”, sul gruppo più sopravvalutato (e inutile) degli ultimi tre anni; un estratto dal prossimo, incombente “hot dog” letterario di Chuck Palahniuk e poco altro.
Le rubriche riguardano, al solito, classifiche, le “trenta canzoni da scaricare”, la “playlist musica” (“consigli per fare una compilation a tema”), videogiochi, i-pod, impianti HI-FI, informatica (“I vecchi LP? Ascoltali col cellulare”), motori, fumetti e, naturalmente, moda (“XL Style”, 16 pagine di vestiti, collane, scarpe, bracciali, occhiali, borsette, orologi… con primi piani su polsi, gambe, capelli…).
Nella conclusiva sezione “XL Feedback”, dopo l’irrinunciabile rubrica “su e giù” (tra i “su”, il “globish”, l’inglese “sgangherato ma funzionale usato da milioni di persone per comunicare on line” e “il cravattino rosso”; tra i “giù”, “i braccialetti manifesto”, l’aperitivo, “i profumi delle popstar”…), tre rubrichette-forum per parlare coi ggiovvani su temi di ‘scottante attualità’: “A qualcuno piace porno. E a voi?”, “Meglio il posto fisso, oppure no?”, “Musica e beneficenza: a che prezzo?”…
E la musica, vi chiederete?
La musica occupa 15 pagine (“XL self service”), quasi a conclusione del mensile, e ricalca la vecchia impaginazione di “Musica”: recensioni telegrafiche affidate a vecchi e nuovi giornalisti (tra questi, gli immancabili Castaldo, Bertoncelli, Castelli, affiancati da Vivaldi, Angese, Brighenti…), nessun approfondimento, stellette per valutarne la qualità, suggerimenti-diktat del tipo “da avere assolutamente”, “quasi fondamentali”, “se vi piace ascoltate anche”…
Come già in “Musica”, il linguaggio di “XL” è giovanilista, tra slang e parlato; sintetico, sloganistico (la pubblicità urla “Be young. Be free”), veloce. Più immagini da guardare (e prodotti da comprare) che cose da leggere, su cui riflettere. Vademecum per ‘essere al passo coi tempi’ di un consumo spensierato privo di etica, tutto svago e divertimento, propugna il disimpegno totale, persegue la lobotomizzazione del pensiero.
Tra settimanale “femminile” (“Io Donna”, “Donna Moderna”…) e mensile di moda (“Vogue”, “Cosmopolitan”…), “XL” trasmette un’idea di cultura come dimensione del superficiale, dell’effimero, in cui il “discorso” è pretesto, fine ultimo la pubblicità (= la vendita).
Senza nemmeno più la retorica e l’ipocrisia di certa comunicazione “sinistroide”, che pure ammorbava “Musica”, “XL” è un mutante spaventoso, che rasenta quasi la perfezione nel riflettere il vuoto assoluto dei palinsesti televisivi “in chiaro”… Un extra-extra large di nulla, bulimica freakeria, uno zapping di 290 pagine patinate che sono un involontario e illuminante trattato di sociologia della devianza contemporanea…
(25 agosto 2005)
L’ALLEGATO OBBLIGATORIO, ULTIMO DEI MUTANTI EDITORIALI: nuovi tentativi della neocolonizzazione culturale...
L’allegato obbligatorio (nuovo mutante editoriale) a “Repubblica” in edicola in questi giorni, è il n. 12 del famigerato mensile “XL”, numero speciale che è un invito salmodiante del Mercato a buttare tutti i dischi e CD che avete ancora in casa, con relativi lettori, e affidarsi definitivamente a I-Pod e cellulari, preda del raptus del download.
Solo a sfogliarle, queste 194 pagine vomitanti pubblicità di finti giovani, profumi-vestiti-scarpe-orologi, sembra di non vivere in un Paese che ha avuto una Storia, una cultura, delle tradizioni: è un tripudio irritante di vocaboli anglofoni che, si immagina, debbano riempire la conversazioni dei ragazzi di oggi, quelli che vivono nella performance (ma a Vignola piuttosto che a Piadena o a Cortemaggiore…): downloading, file-sharing, ultra hi-tech, music store, playlist…
A guardarci dentro più a fondo, questo subdolo catalogo merceologico di vacuità contemporanee, è l’apoteosi della frammentazione del linguaggio, il culto pagano dell’elisione del “discorso”, la messa cantata della parcellizzazione della cultura: cento “liste” che ordinano una dozzina di singole canzoni da scaricare (a pagamento, naturalmente) sull’ultima delle scatolette in commercio che alimentano i sogni dei più: scatolette con cui è già possibile ascoltare file audio (fino a 30 Gb di memoria), fotografare, girare video, registrare, immagazzinare dati… Per il momento, una operazione alla volta, ma presto…
La stolta illusione di contenere il mondo evitando opportunamente di conoscerlo, quindi di comprenderlo: una raccolta di brani di provenienza disparata (per epoche, autori, generi, stili espressivi…) legati da un presunto elemento “logico”: il mare, lo sport (“we are the champions!”), l’amore (“Mi ami? Ma quanto mi ami?”), la radio, l’alba, la strada e altre banalità elencando…
Ogni brano commentato da fulminee battute che fanno il verso, involontario, al linguaggio giovanile, con incredibili, banali errori che, in più, contribuiscono alla disinformazione dilagante (tanto che serve sapere, no?).
Esempio: a pagina 135, nella sezione “Dedicata a te: da star a star” (“ovvero quando i big le cantano ai colleghi. Omaggio o no?”), tra i quattordici pezzi elencati da scaricare anche “Bob Dylan Blues” di Syd Barrett, inedito “riemerso” nel 2003 sulla raccolta “Wouldn’t you miss me?” della EMI-Harvest. Commento: “Non la trovate in nessun disco ufficiale dell’ex Pink Floyd. Ma basta procurarsi uno dei tanti bootleg per ascoltare il suo tributo “a un re libero di volare””.
Altro esempio: a pagina 52, tra brani ispirati/dedicati alla luna (“Le mille facce del satellite dell’amore”), anche “Pink Moon” di Nick Drake, folker inglese sulle cause della cui morte da sempre permangono profondi ombre. Il curatore scrive: “Prima di morire, Nick Drake ci consegnò la sua luna. Era rosa, magnifica e vibrante. Come la voglia di andare a volarci sopra. Purtroppo per sempre”.
Sarà come scrivono, ma questa “rivoluzione nella musica”, apparentemente ineluttabile, ha il sapore della resa: riuscirà mio figlio a collegare Nick Drake al folk inglese della fine degli anni Sessanta, alle influenze culturali dell’epoca, alla sua straordinaria, coerente opera musicale, ed evitare di convincersi che si tratta soltanto di un cantante che come Ozzie Osborne, Loredana Bertè, Gianluca Grignani, Van Morrison, Frank Sinatra e Cat Stevens ha composto una canzone ispirata alla luna?
(29 luglio 2006)
LUNGA VITA AI VIVI. Breve esegesi di Matilde Politi.
Esce in questi giorni l’ennesimo libro di Massimo Cotto (definitivamente ‘il Vespa del giornalismo musicale italiano’) dedicato – pensate un po’! – a Fabrizio De Andrè (in realtà si tratta di un’intervista-fiume a Massimo Bubola che racconta della sua esperienza di collaborazione con De Andrè), dopo che nelle settimane scorse era apparso sugli scaffali un ‘libro-verità’ su Zucchero Fornaciari, bluesman al vin brulè.
Dalla sua morte, com’è d’uso, sono usciti in Italia almeno venticinque libri sul cantautore genovese (e per non correre il rischio di essere fraintesi affermiamo subito che è stato uno dei maggiori artisti del nostro Dopoguerra): più di venticinque libri su un cantautore suonano comunque un’esagerazione, un’iperbole, in termini assoluti. Addirittura un paradosso, considerata la scarsa fortuna mediatica del De Andrè in vita. Ma queste sono le “leggi del mercato” e a un prodotto di potenziale successo commerciale (ipotizzato a partire dal numero di fan presunti in circolazione) l’editoria ha risposto immediatamente con una messe di volumi di qualità varia e ispirazione per lo più dubbia (tra i più belli letti, a questo proposito, “Belin, sei sicuro?” di Riccardo Bertoncelli, Giunti 2003, e “Vita di Fabrizio De André” di Luigi Viva, Feltrinelli 2000): De Andrè è un soggetto che tira, insomma. Andrea Parodi (per inciso un altro grande artista recentemente scomparso), un po’ meno. E che chance potrà mai avere un Sergio Endrigo nel borsino delle morti eccellenti? E un Bruno Lauzi? Scarse, a giudicare dai volumi in circolazione... (a Cotto, se non li sta già scrivendo in questi giorni, suggeriamo alcuni altri soggetti: Jovanotti, Piero Pelù, i Negromaro, Laura Pausini, Andrea Bocelli...).
Ma concentriamoci sui vivi, per una volta, e rivolgiamo l’attenzione a chi, pur in attività, non può contare neanche su un trafiletto in ventitreesima pagina su un quotidiano nazionale o su una, anche fugace, apparizione televisiva o radiofonica (filosofia più volte affermata in queste pagine).
Matilde Politi non ha ancora un contratto discografico, ed è un’autentica bestemmia. È in circolazione da qualche mese solo una registrazione live autoprodotta (da un concerto a Palermo del 13 dicembre 2003) dal titolo “Cantami quantu voi, ca t’arrispunnu d’amuri, gilusia, spartenza e sdegnu” con dieci brani, quasi tutti tradizionali.
Matilde Politi, palermitana, ha solo 30 anni, è ricercatrice e ‘cantatrice’, laureata alla Sapienza di Roma in Antropologia Culturale; incarna, cosa rara, la competenza dello studioso (che fa ricerca sul campo e analizza fonti) e la sensibilità dell’interprete straordinaria. I pochi che ne scrivono la paragonano in genere a Rosa Balistreri...
“Interprete straordinaria” non suoni come un’iperbole: abbiamo avuto la fortuna, davvero casuale, di ascoltarla in concerto lo scorso luglio, nella Pieve di S. Clemente di Pelago (Firenze), dove ci trovavamo per partecipare a “On the road festival”, una delle più importanti rassegne di artisti di strada. Matilde Politi si accompagnava soltanto con la fisarmonica.
Beh, si trattò di un’assoluta folgorazione, erano anni che non ci capitava di ascoltare una voce tanto potente, espressiva, commovente, capace di melismi dalle mani sporche e la terra in bocca, come uno sputo in faccia, una carezza e un cazzotto insieme. Una voce libera, dalla grana spessa, ruvida, versatile, che mette soggezione…
Su “La Repubblica” di oggi Tom Waits, intervistato da Giuseppe Videtti, tra molte cose intelligenti ne afferma una semplice semplice: “Ogni cosa ha il suo prezzo. Sin dall’inizio sapevo che non volevo arrivare a 24 anni e odiare la musica, sapevo che c’erano meccanismi che non mi piacevano e un certo tipo di pop che non avrei mai voluto fare. La mia longevità ha a che fare con una sorta di integrità che, ovviamente, ha richiesto sacrifici economici. Sa come va la storia, no? La tua foto sui giornali diventa sempre più piccola, le recensioni dei tuoi dischi sempre più brevi. Ma è ok, non ho mai pensato di diventare come i Beatles e i Rolling Stones” (“Povera musica, uccisa dall’iPod” in “La Repubblica” del 10 novembre 2006).
Matilde Politi canta musica folk ed è destinata a una lunga vita di sacrifici, probabilmente all’ombra delle scene che fanno tendenza. Poche foto sui giornali, recensioni brevi. Sono quelli come Massimo Cotto, assidui paladini dell’omologazione al servizio dell’establishment, che ammazzano la diversità, l’Arte, il genio.
(10 novembre 2006)
Omicidio di settimanale.
Egr. Direttore Generale,
nel registrare con amarezza la chiusura del settimanale “Mondo Padano” e l’assoluta mancanza di sensibilità mostrata dai responsabili della testata nei confronti dei collaboratori (il sottoscritto ha appreso solo dalla stampa il destino deciso dal Consiglio d’Amministrazione!), liquidati come volgare carne da macello, desidero rivendicare con orgoglio l’esperienza di collaborazione vissuta negli ultimi tre anni con le giornaliste Gigliola Reboani e Carla Parmigiani, cui va tutta la mia solidarietà per il trattamento riservato loro, a fronte dell’apparente assordante indifferenza dei lettori e della città. “Mondo Padano” ha rappresentato un’esperienza unica, un laboratorio di informazione, analisi, ricerca che Cremona non ha mai avuto. Un’esperienza con inevitabili luci ed ombre, certamente perfettibile, ma che né il grottesco “Più” (più pubblicità?) né tanto meno il “nuovo” (?) Mondo Padano – insulso aborto-fotocopia del pessimo quotidiano – riusciranno mai a rimpiazzare. D’altronde, l’epilogo della vicenda mi pare confermi l’idea che “La Provincia” è lo specchio di questa città e della sua cultura: un imbarazzante provincialismo tronfio e arrogante, accecato dal presunto consenso di un lettore medio borghese perbenista e un po’ xenofobo, refrattario ad ogni pur minimo cambiamento, tutto proteso a rappresentare una realtà (politica, culturale, sociale…) dal buco della serratura della Storia, tra scandalismi volgari (i morti sulle strade, i “drogati”, gli extracomunitari che invadono questa nostra ridente città…) e disgustosi baciamano ai presunti vip nostrani (che pena veder tornare tra le pagine, periodicamente, le imprese della “nostra” modesta Roberta Lanfranchi o del golden boy Vialli alle prese con la nuova fidanzata o l’aneddoto d’effetto sulla nuova parrucca di Elton John… per non dire delle “interessanti attività” dei Rotary & Lions Club locali).
Un quotidiano che più popolare non si può, insomma, ma che del popolare ha adottato cinicamente le parvenze più deteriori – il gattino salvato dal valoroso pompiere padre-di-famiglia; l’anziana che ha compiuto 237 anni e sorride felice dalla sua umile dimora; la tragedia del ragazzo schiantatosi ai 400 all’ora dopo la discoteca (“ma era un bravo ragazzo, dicono tutti, sul sagrato della chiesa”…); la lettera quotidiana della signora Alma Brambati che riflette/s’indigna/strepita/solidarizza/accusa su un tema (a caso) all’ordine del giorno; i fiori rubati su una tomba al cimitero; la saga dei piccioni che imbrattano i monumenti e minacciano la nostra salute; la strada con le buche, il marciapiede pieno di siringhe, il cornicione caduto in una via del centro; i soliti venti immigrati stipati in un monolocale che i vicini di casa hanno denunciato alle solerti forze dell’ordine (ma il padrone di casa?)… Un grottesto, cinico Barnum dell’informazione, appunto, che attraversa il presente autocompiacendosi nella sua assoluta insignificanza, incurante della realtà di un territorio che non è più (e da tempo!) soltanto quote-latte e imprenditoria, che non è più solo (se mai lo è stato…) Stradivari e liuteria (ah, il mito frusto della “Città della Musica”!), Mina (che se ne è andata, e da tempo!, a gambe levate…) e la Cremonese (che triste operetta…!).
Certo, l’oziosa questione sulle responsabilità dell’informazione, sul chi condiziona chi e che cosa, rischia ogni volta di confondere i contorni, ingenerando il dubbio che sia la realtà a condizionare fatalmente il “nostro” “glorioso” quotidiano locale, a cui non resterebbe quindi che descrivere quel poco che gli si presenta davanti. Ma è pur vero che rinunciare, come si è voluto fare, a offrire con “Mondo Padano” un contributo critico e indipendente (forse troppo?) a “leggere” i fenomeni del territorio cremonese è stata una responsabilità grave che non incrinerà certamente le logiche di un sistema dell’informazione locale ormai sclerotizzato su miopi schematismi ma che mi auguro incida in qualche modo sulla coscienza di chi così ha deciso.
(Lettera inviata al quotidiano "La Provincia" dopo la chiusura del settimanale "Mondo Padano". Nella foto: Medhy Kavaousi, immigrato algerino che nel 2003 si è cucito la bocca per contestare la decisione del governo olandese di espellere i clandestini dal paese)
"FESTA DEL TORRONE": TORRONI E TRADIZIONI AL RITMO DI SCHOENBERG.
Qual è la musica al cui ritmo la cultura a Cremona si sta inesorabilmente inabissando? Una bossa nova? Una mazurca? Una sonata bachiana? Una sinfonia mozartiana? Un'ouverture verdiana? Mah. A me sembra piuttosto il Pierrot Lunaire di Schoenberg (www.youtube.com/watch?v=KsIATAaR-X0), un crollo caotico, verticale, in ordine sparso. Tutt'altro che armonico.
Adesso, tanto per gradire, arriva la tradizionale Festa del Torrone, d'accordo. Ma 'tradizionale' per chi?
Tradizione è termine abusato di questi tempi. Sembra si evochi per dare l'idea, in genere, di un evento che ricorre, che si ripete nel tempo, consolidandosi. Che si è radicato profondamente nella cultura di un luogo, nel patrimonio culturale di un popolo.
Ma nel caso della festa torronica è proprio così?
A Cremona vengono organizzate tante cose, è indubbio, ispirate quasi esclusivamente all'idea di spettacolo, di evento per intrattenere le folle, un tempo 'classi subalterne', oggi 'massa di consumatori'. Un paradosso, di questi tempi, si converrà.
Perché la nostra è un'epoca di eccessi, di comunicazione ipertrofica. I social network, ultimi arrivati tra i media, hanno rivelato opportunità potenzialmente illimitate e intrattenersi, lo riconoscerebbe anche un turista venusiano sbarcato per un week-end sulla Terra, non è certo un problema, tra centinaia di canali televisivi, programmi radio, concerti, cinema, Internet, e-book, libri, giornali, fumetti, eventi sportivi, feste di piazza... appunto.
Altro, certamente più complesso da realizzare, è offrire spazi e opportunità concrete per costruire cultura, rinnovare la tradizione locale, affrancarsi dalla passività catodica e dalla compulsione all'acquisto nei centri commerciali e diventare (o ritornare ad essere) protagonisti nella propria comunità.
Comunque, Bianca Maria Visconti permettendo, nel caso del torrone di cui sopra le domande sono:
Lo mangiate abitualmente? Lo sapete cucinare? Ne conoscete la storia? Lo portate come vanto della vostra 'cremonesità'? Lo considerate rappresentativo della città?
Se risponderete sì almeno a tre delle cinque domande, la festa del torrone avrà certo un senso per voi. Sennò...
(Inedito, scritto per "Il Piccolo", settimanale di Cremona, prima di essere 'silurato' senza neanche una parola... Ma funziona così, no?!)
CULTURA E SPETTACOLO SONO LA STESSA COSA?
Vi sembra significativo che sul portale dell'ANSA le sezioni “Cultura” e “Spettacolo” praticamente si equivalgano? In questi giorni, stesse notizie, quasi tutte su Sanremo e gli Oscar, quasi tutte riguardanti TV o cinema, quando non gossip (i fan di Freddie Mercury 'scoprono' tomba a Londra, Tom Hanks debutta a Broadway, Tiziana ha vinto Masterchef... cose così, insomma).
E' possibile che la cosa non significhi nulla, ma è anche possibile che qualcosa voglia dire se la maggiore agenzia di stampa del Paese (per non dire dell'Adnkronos che ha la sezione “Spettacolo e Cultura”...) sembra non aver chiara la distinzione fra “cultura” e “spettacolo”: lo spettacolo è anche cultura? La cultura è anche spettacolo? Spettacolo e cultura sono la stessa cosa?
In attesa che l'ANSA e l'Adnkronos si chiariscano le idee, tento di fare un po' d'ordine.
Apro la Treccani, ad esempio. Spettacolo significa “Rappresentazione di opere teatrali, liriche, cinematografiche, d’arte varia; in senso ampio, qualsiasi esibizione artistica che si svolge davanti a un pubblico di spettatori appositamente convenuto (…), le rappresentazioni e le manifestazioni varie che si svolgono in luogo pubblico, soggette a particolari norme amministrative e imposizioni erariali”. Cultura, invece, “L’insieme delle cognizioni intellettuali che una persona ha acquisito attraverso lo studio e l’esperienza, rielaborandole peraltro con un personale e profondo ripensamento così da convertire le nozioni da semplice erudizione in elemento costitutivo della sua personalità morale, della sua spiritualità e del suo gusto estetico, e, in breve, nella consapevolezza di sé e del proprio mondo. Complesso delle istituzioni sociali, politiche ed economiche, delle attività artistiche e scientifiche, delle manifestazioni spirituali e religiose che caratterizzano la vita di una determinata società in un dato momento storico”.
Beh, la differenza sembrerebbe chiara, no? L'uno (lo spettacolo) si realizza nel rapporto tra pubblico e artista; l'altra (la cultura) prescinde dallo spettacolo, lo precede addirittura. Senza cultura non c'è spettacolo, insomma o, per lo meno, lo spettacolo è quello che è. Trent'anni di TV commerciale e di berlusconismo l'hanno ampiamente dimostrato. Mischiare l'uno e l'altra, come fa l'ANSA, facendone una macedonia di notizie serve senz'altro all'informazione ma non aiuta la cultura a diffondersi e ad accrescersi.
Ad esempio: se Cremona, come si dice Urbe et Orbi, è “città della musica” e patria del violino, musica e violino devono essere patrimonio culturale della città, prima ancora che economia (liuteria) e spettacolo (teatro/museo)... Ma è davvero così?
("Il Piccolo", 27 febbraio 2013)
PATRIMONIO DELL'UMANITA' !?
Da qualche settimana, concomitante all'inaugurazione del Museo del Violino, i pronipoti di Stradivari esultano alla notizia dell'inclusione dello strumento da parte dell'Unesco nel patrimonio culturale dell'umanità.
Tra i cinque criteri che hanno convinto la commissione, quattro sono tanto generici da potersi riferire a qualsiasi attività artigianale in qualunque parte del pianeta. Il primo invece recita: “L'artigianato tradizionale del violino è stato trasmesso di generazione in generazione, sia attraverso l'apprendistato che l'educazione formale, giocando un ruolo importante nel quotidiano dei cremonesi e dando loro un senso di identità”.
Chiedo: a) vi sentite cremonesi grazie al violino? b) Quale ruolo importante gioca il violino nella vostra vita quotidiana?
Intanto che ci pensate e decidete cosa rispondere, leggete cos'hanno da dire alcuni cremonesi doc (che cioè sono nati e vivono in città) che ho intervistato per la strada:
a) “ci mancherebbe altro” (Luigi); “non mi sento cremonese” (Michela); “violino? Quale violino?” (Omar); “no, anche se ho grande rispetto per la tradizione liutaria cremonese” (Federico); “in che senso cremonese...?” (Jenny); “sono nata a Cremona... non è già sufficiente?” (Elisa); “l'identità è qualcosa di complesso... bastasse un violino!” (Andrea); “quando vado all'estero, tutti sanno che Cremona è la città del violino e mi fa piacere” (Ettore); “no, per me Cremona equivale al fascino della campagna, piatta e con la nebbia...” (Ivana);
b) “nessuno, ci sono le botteghe liutarie ma sono un mondo a parte” (Antonio); “quando imbocco la rotonda di via Mantova per andare a lavorare l'unico violino con cui ho a che fare è quello della statua nell'aiuola che mi trovo davanti...” (Michele); “mi spiace, nessun ruolo...” (Cesare); “ogni volta che passo sotto il tabellone elettronico e leggo “Cremona città dell'arte e del violino” mi chiedo: quale arte? Quale violino? Ci sparerei contro!” (Cristina); “lo stesso ruolo che nel mio quotidiano rivestono la Torre di Pisa o la cassata siciliana” (Lucia).
Qualcuno mi ha suggerito di intervistare i giapponesi che vivono qui, che probabilmente avrei maggiori possibilità di ottenere risposte più incoraggianti.
Possibile che un giapponese a Cremona si senta più cremonese di un cremonese...?
(“Il Piccolo”, 19 dicembre 2012)
TALENTI... MOSTRUOSI A "XFACTOR" .
Nel palinsesto TV prossimo venturo pensato a misura di mutanti, XFactor avrà senz'altro un posto di primo piano. Ma con alcune lievi, sostanziali varianti, s'intende. Cos'è il "fattore X" se non la capacità di adattarsi al gioco manipolatorio dei quattro giudici/coach? Come pupazzi nelle mani del ventriloquo, gli sfidanti della trasmissione devono adattarsi alle proposte di Elio (cantante/musicista), Ventura (?), Arisa (cantante?) e Morgan (cantante?/musicista), demiurghi sadici di un gioco di ruolo che vorrebbe creare la futura star e sottoporsi al giudizio del pubblico di casa. Una star modellata sull'idea di artista duttile che sappia cantare, ovviamente, ma che si dimostri capace di tenere il palco, adattandosi alle coreografie, pronto a registrare un disco su indicazione del produttore (perché lui sa benissimo qual è il gusto del pubblico!) e sfondare sul mercato (anche se quello discografico non esiste ormai quasi più...). Le carte scoperte del 'talent show', a saperle leggere, dicono che non è tanto importante il risultato finale quanto lo spettacolo in sé, perché il meccanismo della sfida/eliminazione prevede tautologicamente che la futura star sia scelta da quello stesso pubblico che si immagina comprerà i suoi dischi. Niente a che vedere con la musica vera, con il talento autentico, con la sfida reale, insomma. Con l'innovazione e la provocazione. Con il rischio del flop e la fatica di costruirsi - perdendo - una propria identità, come nella biografia reale di ognuno... Così, non è poi tanto difficile immaginare un "XFactor" del futuro in cui i concorrenti per vincere dovranno corrispondere all'immagine estetica dei giudici e del pubblico, intervenendo di volta in volta, a suon di operazioni chirurgiche, direttamente sul proprio corpo. Fino al punto di aderire al gusto medio del pubblico che eleggerà il Concorrente Ideale a cui assegnare il contratto milionario: un talento... mostruoso.
("Il Piccolo", 28 novembre 2012)