Recensioni libri musiciali (e non)

Ospito una recensione dell'amica Maria Riger su un inatteso 'caso letterario' locale che ha l'ambizione di parlare al mondo. Le opinioni qui espresse, per uscire una volta di più dalla retorica di rito delle testate giornalistiche, coincidono in gran parte con le mie...

 

UNA SCRITTURA 'SENZA MISURA'... APPUNTO.

 

Un paio di giorni fa un amico mi ha consigliato l'acquisto di un libriccino di Emma Varlin intitolato “Senza misure. Quel giorno che Cremona bruciò di gentilezza”. Edizioni S-edizioni, tre euro.

Un pamphlet, forse, o un saggio breve, tra analisi politica e memorialistica, dei fatti 'tragici' che infiammarono una delle città più dormienti del pianeta lasciandola sgomenta.

Un'occasione, dunque, per rileggere, interpretare, “chiamare alle armi” l'antagonismo militante sullo stimolo di una vicenda controversa e psicologicamente angosciante che ha coinvolto istituzioni, associazionismo, centri sociali, casa Pound e cittadini in un dibattito giustamente non ancora scemato per le gravi implicazioni sociali e politiche che racchiude.

Tentativo coevo di altri contributi circolati nell'editoria socio-politica 'antagonista' italiana (“L'insurrezione che viene”, “Ai ferri corti con l'esistente”, “Barbari”...), questo “Senza Misure” si segnala più per la diffusa inintelligibilità della forma, approssimativa e confusa, che per la novità dei contenuti.

D'accordo, le principali tesi dell'autrice si colgono abbastanza agevolmente, ma sul fondo di una torbida, limacciosa, per lunghi tratti imperscrutabile scrittura smarritasi tra tentativi di linguaggio colto visionario (sullo stile di un Nietzsche o di un Vaneigem) e scrittura militante (tipo slogan, volantino, sprayata sul muro...) con l'effetto di lasciarmi dopo poche pagine interdetta e annoiata.

Pagine dense di parole indubbiamente appassionate, ma che trasudano retorica e autocompiacimento e, soprattutto, non rispondono in modo convincente a un paio di questioni fondamentali in termini di azione politica rivoluzionaria: se lo status quo è inaccettabile, frustrante e oppressivo, cosa fare concretamente per sovvertire l'esistente? A quale “mondo nuovo” tendere?

La risposta dell'anarchica Emma Varlin è l'antico, puerile dispositivo del 'gioco di guardie e ladri': piccole azioni di disturbo, individuali e collettive, per incrinare le certezze, inceppare gli ingranaggi del potere, disturbare il manovratore di un mondo “che ci fa talmente schifo che l'unica posizione che prendiamo è quella del suo possibile sconvolgimento”. E chissà che da pochi o tanti fuocherelli che si accenderanno (e a questo proposito Varlin cita alcuni focolai di dissidenza nel mondo, per altro disomogenei tra loro...) non ne scaturisca un movimento insurrezionale globale.

Per realizzare cosa non è dato di sapere, si può solo dedurne che debba essere meglio del presente...

”Non vogliamo aggiustare nessun ingranaggio, anzi cerchiamo a volte sassi, a volte sabbia, per incepparlo”, scrive l'autrice. “Non abbiamo nulla da salvare tranne le nostre relazioni appassionanti di reciprocità”.

E' davvero curioso come apparenti opposti a volte sembrino incontrarsi in una nemesi surreale: la Chiesa Cattolica, con la sua penosa retorica dell'amore, il suo nauseante umanitarismo, la sua pelosa idea di solidarietà, e l'antagonismo anarchico militante di chi confida ancora – davvero ingenuamente! - in un'umanità possibile.

L'anarchismo, paradossalmente, ha funzionato più che altro quando è stato affermazione di volontà individuali, quando andando oltre la retorica collettivistica dei grandi movimenti di pensiero a matrice marxiana, ha affermato nei fatti la sfiducia totale, irrecuperabile, nel rapporto tra individuo e socialità.

Non è possibile sovvertire l'esistente da soli, come è impossibile, in questa contemporaneità ormai 'squaqquerata' (ben oltre il liquido baumaniano), immaginare un'efficace cosciente azione collettiva rivoluzionaria tanto è stata radicata profondamente nelle democrazie occidentali la disumanizzante, egoistica, insensibile “passione del benessere” (Tocqueville, 1840; Pulcini, 2001). E in questa contrapposizione di istanze, non esistono necessariamente solo gli “idealisti, sognatori e bambini” (come Varlin definisce gli anarchici) da una parte e il resto del mondo degli sciocchi automi asserviti all'ideologia globalizzata dall'altra. Una visione tanto semplicistica e manichea della realtà da tradire soltanto lo spirito narcisistico barricadero che la ispira...

A parte l'idealismo, la propensione al sogno, la pascoliana dimensione infantile dello spirito... come si guadagna il pane quotidiano Emma Varlin? Quante volte anche lei come noi è costretta a scendere a patti con questo mostruoso sistema cancerogeno che ci ripugna?

E' duro doverlo ammettere, dopo decenni di ideologismo utopico e filosofie politiche falliti miseramente (cfr. lo Starobinski de “L'ordine del giorno”), ma probabilmente la lezione anarchica più profonda, la rivoluzione delle rivoluzioni, il possibile sovvertimento dell'esistente, li si può ritrovare oggi solo in quello che lo psicologo Sheldon B. Kopp ha suggerito nel suo illuminante “Se incontri il Buddha per la strada uccidilo” del '67: “Tutte le battaglie significative vengono combattute all'interno del sé”.

E a culo tutto il resto... (Guccini docet).

 

Maria Riger,  1 ottobre 2016

 

Bibliografia di riferimento:

Z. Bauman, "Vita Liquida" (Laterza, 2006)

Z. Bauman, "Homo consumens" (Erickson, 2007)

Z. Bauman, "Modernità Liquida" (Laterza, 2011)

S. B. Kopp, "Se incontri il Buddha per la strada uccidilo" (L'Astrolabio, 1975)

E. Pulcini, "L'individuo senza passioni. Individualismo moderno e perdita del legame sociale" (Bollati Boringhieri, 2001)

J. Starobinski, "L'ordine del giorno" (Melangolo, 1990)

A. de Tocqueville, "La democrazia Americana" (1870)

R. Vaneigem, "Lo stato non è più niente. Sta a noi essere tutto" (Nautilus, 2010)

 

 

Le pantofole e l’arte di vivere oziando.

 

Un manuale fai da te per coltivare l’ozio. Aforismi filosofici, semplici suggerimenti per trascorrere serenamente il tempo crogiolandosi nella pigrizia.

Tom Hodgkinson, il geniale ideatore di “The Idler” (“L’ozioso”), già autore di “L’ozio come stile di vita” (Rizzoli, ) è tornato con una nuova provocazione.

“I piccoli piaceri dell’ozio” (DeAgostini € 15,00) scritto a quattro mani con Dan Kieran, è una raccolta di brevi situazioni illustrate da Ged Wells che perseguono lo scopo di “provare che le cose migliori della vita sono gratis”. “Negli ultimi due secoli, l’Occidente ha vissuto nell’errata convinzione che per divertirsi bisognasse pagare”, scrive Hodgkinson nell’introduzione. “Lavoriamo sodo facendo cose che non ci piacciono per guadagnare denaro da spendere per quel che ci piace. Beh, l’idea del piacere ozioso ci aiuta a sfuggire elegantemente alla costosa confusione, alle delusioni, al trambusto e allo stress del produrre-per-spendere, per entrare in un mondo di gioia e libertà”.

 

L’idea è semplice quanto rivoluzionaria: si tratta di recuperare dalla memoria quelle occupazioni che la cultura del profitto e del lavoro irride e rimuove dai nostri vissuti quotidiani in quanto improduttive e riprendere a viverle con un consapevole abbandono.

Per gli autori, il vero senso dell’esistenza risiede nel rallentamento programmatico dell’azione, nel diradamento degli impegni, nella progressiva riduzione della dipendenza dalla tecnologia per recuperare un sano rapporto con la natura.

Gli esempi (ne abbiamo contati 100), i più solo apparentemente eccentrici, si sprecano: farsi un bagno caldo, ad esempio; o stravaccarsi sull’autobus, prepararsi il tè, rincorrere le farfalle, pescare, far saltare i sassi nell’acqua, dormire vestiti, indugiare nel capanno del giardino, raccontare storie, stendere il bucato, leggere le lapidi in un cimitero, dedicarsi alla toeletta… O rivalutare oggetti/indumenti ingiustamente considerati ‘vecchi’, ‘superati’, ‘inutili’ come la sdraio, l’amaca, la vestaglia, la carta, le pantofole:

 

“Nell’era della dinamica scarpa da tennis, l’umile pantofola è un piacere dimenticato. Un tempo, dopo un giorno di fatica, tornavamo a casa e ci toglievamo gli stivali, gettando via simbolicamente la vita lavorativa, per indossare invece le pantofole, simbolo della calda comodità domestica.

Le pantofole sono dei veri piumoni per i piedi, basta infilarle e risulta impossibile dedicarsi a qualsiasi lavoro. Ora lo stivale e la pantofola si sono fusi in un solo oggetto, la scarpa da tennis, e il piacere del contrasto è ormai dimenticato”.

 

In mancanza di precise strategie per eludere il lavoro (neppure il visionario Jean Starobinski era riuscito ad immaginare un’alternativa nel suo stimolante “L’ordine del giorno” del 199), il volume suggerisce che una via d’uscita (parziale) allo stress di questa civiltà può essere quella di raggiungere una dimensione psicologica raccolta, di assoluto ‘basso profilo’, aliena al caos e alla frenesia dell’aderire agli standard esistenziali imposti dal Mercato.

 

“Dobbiamo tornare a comportarci come una volta”, scrive ancora Hodgkinson. “Troppo spesso chi guarda alla storia passata per cercare idee sul modo in cui vivere oggi viene etichettato come un romantico o un nostalgico. Ma io controbatto che fare l’opposto, ovvero credere nel futuro, è completamente irrazionale. Il futuro non è ancora arrivato, e quindi è una mera astrazione. (…) In un mondo di duro lavoro, stress e preoccupazioni, il piacere ozioso può aiutarci a vivere, a divertirci, a lasciare spazio al nostro innato amore per la natura, la convivialità e la sensualità, senza romperci la schiena e prosciugare il conto in banca. Liberiamoci delle complicazioni della vita moderna, diamoci al piacere. È ciò per cui vale la pensa di vivere”.

 

(29 giugno 2008)

 

 

Tom Hodgkinson-Dan Kieran – “I piccoli piaceri dell’ozio”

Istituto Geografico De Agostini , Novara 2008

Illustrazioni di Ged Wells

Titolo originale: “The Book of Idle Pleasures”

Traduzione di Matteo e Paola Maraone

 

Carola de Scipio - “L’avanguardia è nei sentimenti. Vita, morte, musica di Massimo Urbani” (Stampa Alternativa, Roma 1999)

Scrissero che “un musicista jazz” era morto per overdose e poco altro, quel 24 giugno di sei anni fa. Massimo Urbani, 36 anni, era considerato il Charlie Parker italiano per l’attacco irruento del suo contralto, l’aggressività ritmica, l’anarchica anima be-bop che si agitava nella sua musica. Da autodidatta prodigio, a soli 16 anni, era stato scoperto da Giorgio Gaslini che ne aveva perfezionato lo stile e l’aveva voluto in due dei suoi dischi del 1973 (“Message” e “Favola pop”). Poi, la collaborazione in tour con gli Area di Demetrio Stratos, quella con Enrico Rava, Mario Schiano e i maggiori jazzisti della scena italiana ’70 e ’80 – anche Chet Baker, con il quale registrò una session dal vivo immortalata nel disco “Chet Baker in Italy”.
Stregato dalle leggende del jazz nero – Ornette Coleman, Dexter Gordon, Charlie Parker, appunto, ma soprattutto John Coltrane – Massimo Urbani era un istintivo della musica, refrattario alle accademie. Un irregolare. Diceva che per suonare il sax bisognasse allontanarsi dallo strumento – un paradosso, in un certo senso, perché con il contralto Urbani aveva stabilito un rapporto medianico, impresso anche nelle numerose produzioni soliste (l’ultima, pubblicata nel ’93, “The blessing”, in quintetto con Roberto Gatto e Giovanni Tommaso).
L’eroina, proprio come molti dei suoi miti giovanili, lo catturò sui 30 anni e se lo portò via nel solco di un’iconografia jazz sin troppo logora, descritta abilmente in pur ottimi film quali “Round Midnight” o “Bird”. Un cinema, questo, che continuando a enfatizzare la dimensione della sofferenza e della solitudine dell’artista, generalmente omette di raccontare la gioia dell’esperienza del suonare, la libertà del lavoro, l’arcana magia della creazione che si respira anche nella musica del sassofonista romano.
“L’avanguardia è nei sentimenti” di Carola de Scipio (Stampa Alternativa, pagg. 142, lire 28.000), da qualche giorno nelle librerie, ne racconta finalmente la breve, folgorante parabola con l’apporto corale di chi Urbani l’ha conosciuto e frequentato.
Ne escono, con buona approssimazione alla realtà, una serie di istantanee frammentarie, isteriche, come gli assoli di Urbani del CD allegato al volume – l’integrale di un concerto inedito registrato al Larry’s Club di Torino il 14 ottobre del 1988. 12 minuti e 35 di “Cherokee”, esplosiva e dirompente, per rimpiangere uno dei più autentici musicisti italiani che il jazz abbia avuto. “Non ha capito che c’erano musicisti che lo invidiavano, a partire da me”, dice l’amico pianista Luigi Bonafede. “Per i musicisti era un mito, per lui era normale. Non si rendeva conto della sua posizione e non si sentiva nessuno”. Proprio come gli artisti più grandi e più veri.
(“Mondo Padano” , 24 giugno 1999)

 

Roberto Menabò - "John Fahey. La storia, la discografia consigliata" (Lapis Lapsus Edizioni, 2002)

Per chi come noi ha inseguito appassionatamente per anni John Fahey, rabdomante della chitarra acustica ad aver inaugurato un'inedita, inimitabile prassi compositiva ed esecutiva dello strumento, questo tributo alla sua opera non poteva che apparire da subito quantomeno dovuto.
Scarse le pagine "intelligenti" dedicate al chitarrista negli anni: ricordiamo in particolare quelle "gloriose" (ante litteram, si potrebbe dire) di Riccardo Bertoncelli, decano del giornalismo rock: rutilanti e psichedeliche quelle dedicategli nel lontano 1978 nel fondamentale "La musica pop. Istruzioni per l'uso" (Arcana Editrice); affettuosamente riflessive quelle più recenti di "Paesaggi immaginari" (Giunti 1999), ottima introduzione critica all'esperienza di ricerca di Fahey, finito in trappola delle sue stesse idiosincrasie prima ancora della malattia che ne minerà la salute psicofisica negli ultimi anni.
Purtroppo, quindi, tanto erano avvolgenti, intriganti quelle pagine, con cui ci siamo accompagnati in questi anni, quanto queste 83 scritte da Menabò, giornalista e chitarrista di estrazione blues, risultano insipide, incerte, alla fine inutili.
"Atto d'amore" è stato scritto di questo libro con buona dose di indulgenza e di atto d'amore indubbiamente si tratta. Ma la scrittura debole, farraginosa, involuta del testo poco aiuta il lettore a calarsi nella straordinaria storia di Fahey, riducendosi spesso a semplice annotazione anedottica, superficiale analisi della tecnica chitarristica, veloce carellata dei dischi registrati. Progetto editoriale irrisolto, tra biografia e saggio critico, la lettura non decolla mai, irretendo l'appassionato nelle numerose citazioni di titoli e dischi e poco altro.
Fahey, che tanto ha fatto fuorché annoiare il suo devoto pubblico, crediamo meritasse molto di più.
(24 maggio 2004)

 

Chet Baker – “Come se avessi le ali. Le memorie perdute” (Minimum Fax, 1999)

Nel tradizionalmente asfittico e poco fantasioso panorama dell’editoria musicale italiana, la pubblicazione del “diario ritrovato” di Chet Baker (Edizioni Minimum Fax, via della Farnesina, 13 – 00194 Roma – www.minimumfax.com), ha l’effetto di un cono gelato a ferragosto. Sono 115 le pagine di “Come se avessi le ali. Le memorie perdute”, a cura di Carol Baker, ultima moglie di Chet, il trombettista bianco più struggente della storia del jazz, e sono pagine di intenso, commovente dispiegarsi di un’anima che certa critica oleografica non ha saputo rappresentare altrimenti che maledetta e disperata.
Era morto cadendo dalla finestra di un albergo di Amsterdam il 13 maggio 1988, Baker, durante l’ennesima tourneè in Europa.
Una vita da girovago, la sua, trascorsa a soffiare nella tromba al fianco di alcuni di dei più importanti musicisti jazz del Dopoguerra.
Aveva esordito con la band di Charlie Parker, con il sassofonista Gerry Mulligan nel corso degli anni Cinquanta si era inventato un’accattivante alternativa al “cool” pigliatutto di Miles Davis con un fraseggio duttile e un attacco dolce ma al tempo stesso incisivo. Nel ’52, addirittura, un suo assolo sul tema di “My Funny Valentine” gli era valso la vittoria nel referendum indetto dal prestigioso “Down Beat”.
Lo chiamavano “faccia d’angelo”, in quegli anni, per i bei lineamenti del viso acqua e sapone e il sorriso seduttivo. Un James Dean di Los Angeles, seguito e imitato dai fan proprio come un divo del cinema. Poi, la caduta nei rovi dell’eroina, la sregolatezze con l’alcol, l’esperienza del carcere. Il viso d’angelo che, nel volgere rapido degli anni, si incide di rughe profonde. Gli occhi umidi, l’espressione melanconica e dolente ritratta in “Let’s Get Lost”, il film che Bruce Weber gli dedicherà nell’’87, involontario testamento.
La sua musica, nel progressivo disfacimento psicofisico, sarebbe rimasta miracolosamente in volo fino all’ultimo, tracciando una rotta luminosa di coerente ed energica forza ispirativa attraverso venticinque anni di registrazioni – da “Chet Baker sings” (1954) a “Chet Baker in Milan” (1958), fino a “Cool Burnin’” del ’65 e “The touch of your lips” (1979).
“La decisione di pubblicare queste memorie è stata presa nel ricordo dell’energia vibrante e dell’immediatezza che erano proprie di Chet” - sono le commosse parole introduttive della moglie – “doti meravigliose che non volevo vedere perdute tra le citazioni accademiche nelle pagine polverose della storia del jazz, o dimenticate in qualche inadeguata biografia didascalica. I resoconti diluiti e i “si dice” di seconda mano non sono sufficienti a cogliere ciò che Chet veramente era – e probabilmente neanche questo libro ci riesce. Ma ci si va vicino. Queste sono le sue parole, le sue memorie, le sue prospettive. Questa è la sua storia”. Quella straordinaria di una autentica leggenda del jazz, cui inspiegabilmente gli esperti più accreditati (Berendt, Polillo) hanno dedicato scampoli di righe.
Questo diario, riemerso improvvisamente dal nulla quando i pensieri di Baker sembravano destinati a rimanere custoditi dai languori della sua tromba, uno spiraglio per carpirne le briciole dell’anima.
Sì, quando Chet Baker suonava “My Funny Valentine” aveva le ali.
(“Mondo Padano”, 27 marzo 1999)

 

Laurent de Wilde – “Thelonious Monk himself” (Minimun Fax, 1999)

Dopo il diario spirituale di Chet Baker, strappato alle intimità della moglie, ormai giunto alla terza ristampa, la Minimun Fax torna in libreria con un’altra inattesa boutade. Le 215 pagine di “Thelonious Monk himself”, traduzione dell’omonima biografia del franco-americano Laurent de Wilde già edita in Francia nel ’96, coprono così una grave lacuna nell’editoria jazz italiana.
Monk, nato a Rock Mountain (North Carolina) il 10 ottobre 1912, trasferitosi all’età di 4 anni a New York, dove avrebbe vissuto per il resto della sua vita, ha attraversato da cometa il ‘900 a fianco dei maggiori jazzisti americani – da Art Blakey a Charlie Parker, da John Coltrane a Miles Davis – inaugurando uno stile pianistico scarno e intenso, irregolare e inimitabile. “Una passione sonora a getto continuo”, l’ha definito con un’affettuosa immagine il nostro Giorgio Gaslini , nell’altro ottimo saggio-tributo disponibile nelle librerie italiane (“Thelonious Monk. La logica del genio, la solitudine dell’eroe”, Stampa Alternativa 1994, pagine 60). Un pianismo istintivo e sgraziato, quello di Monk, ruvido e impacciato, come doveva apparire il musicista al pubblico e ai critici che nel ’54 gli dedicarono addirittura la copertina di “Time”, eleggendolo artista dell’anno, nonostante i suoi imbarazzanti balletti da grizzly intorno al piano, durante gli assolo di contrabbasso e batteria, gli stravaganti cappelli, gli occhialacci scuri, l’ostentato misterioso mutismo per il quale gli era stato affibbiato nell’ambiente l’appellativo di “gran sacerdote del bop”.
Dei suoi innumerevoli album, “Monk’s Music” (Riverside, 1957) e “Underground” (CBS, 1963), soprattutto, possono accompagnarci nel laboratorio creativo di un autentico genio della musica contemporanea – l’estro di Mozart, l’ingegneria armonica di Bach, la straordinaria comunicativa di Gershwin – in brani di cinque-minuti-cinque quali “Ruby my dear”, “Crepuscole for Nellie” e “Thelonious”.
“La musica di Monk è inclassificabile, inassimilabile”, scrive de Wilde. “Non perché sia rivoluzionaria, che di per sé non è una ragione, ma perché è un sasso in uno stagno che, una volta gettato, cola a picco e scompare. Lo guardiamo affondare, e non sappiamo se dobbiamo seguire con gli occhi questa massa che si inabissa, o contemplare l’onda irregolare del suo risucchio...”.
De Wilde, nella sua piacevole biografia, tenta l’ardua scalata alla vetta Monk approfondendone aspetti tecnici e dimensione umana, contesto storico e musicologia jazz, abbandonandosi anche, da giovane pianista qual è, alla dolce deriva della riflessione autobiografica. Ne esce un ritratto che ha il merito raro di offrire anche al neofita l’impagabile opportunità di sbirciare lo straordinario universo del jazz americano.
(“Mondo Padano”, 10 luglio 1999)

 

Carlo Boccadoro (a cura di) - "Musica Caelestis" (Einaudi, 1999)

Esiste un territorio della musica ancora poco esplorato, tra i luoghi comuni chitarra-basso-batteria del Rock e il sincopato del Jazz, tra le sonnolenze ammuffite della sinfonia ottocentesca e il velleitarismo della dodecafonia, tra le isterie metronomiche dell'Hip-Hop e le promesse di redenzione della New Age.
Non è detto possa definirsi "celestiale", ma è per lo meno quanto suggerisce Carlo Boccadoro nel suo "Musica Caelestis", pubblicato questo mese da Einaudi (pag. 170 a lire 29.500 in cofanetto con allegato un CD di 74 minuti) nella collana Stile Libero/Suoni.
Una ricognizione aerea, giusto en-passant, su zone periferiche quasi mai sfiorate dalle classifiche di vendita, attraverso interviste confidenziali ("portano il lettore in casa loro", garantisce la quarta di copertina) a undici dei maggiori compositori contemporanei, tra l’Inghilterra e l’America.
Una “terra di mezzo”, quella in cui operano Philip Glass, Michael Nyman, Steve Reich, Laurie Anderson, John Adams, un universo parallelo che ha avuto il merito di liberare la musica “colta” dai vicoli stretti dell’accademia e della sala da concerto, per inaugurare un linguaggio ibrido nuovo, forse inclassificabile (Minimalismo? Avanguardia? Ambient music?...) ma certamente più aderente ai tempi che viviamo della pedissequa rivisitazione del passato che imbeve il 90 per cento dei programmi di sala.
Undici brevi autoritratti, curati magistralmente da Boccadoro, che testimoniano dell’idea nobile di un’arte che sopravvive al Mercato e alle mode culturali, tesa a farsi espressione del proprio tempo storico attraverso la continua “contaminazione” multidisciplinare (con il teatro, la pittura, il cinema...). Musica che eludendo eredità scomode (Schonberg, Boulez, Stockhausen) non esita a riconoscere il suo antecedente nella filosofia e nella prassi compositiva di John Cage, mitigate da un linguaggio che, radicato nella tonalità, possa offrirsi all’ascolto di un pubblico più vasto, che tenti coraggiosamente di descrivere il presente. Come, si ricorderà, il Philip Glass di “Koyannisquatsi”, capolavoro del regista americano Godfrey Reggio, in cui la compenetrazione di musica e immagini risulta più efficace di molta letteratura sociologica in tema di rapporti spazio-tempo.
Anche sotto questo profilo, nel compact di riarrangiamenti dell’ensemble Sentieri Selvaggi, diretto dallo stesso Boccadoro, “Musica Caelestis” offre un delizioso campionario di suoni e rumori dell’Anno Duemila. Un prezioso invito a spegnere la radio e la televisione per immergersi, anima e corpo, nelle contraddizioni del nostro tempo.
(“Mondo Padano”, 22 maggio 1999)

 

In quest’era di “suoni in scatola”...

Quando Glen Gould prima (1964) e i Beatles poi (1966) decisero di abbandonare i palcoscenici per dedicarsi alla sala di registrazione in pochi compresero si trattasse di una brillante intuizione dalle conseguenze rivoluzionarie. I più, piuttosto, la considerarono una bizzarra provocazione snob.
Oggi, che la musica che ascoltiamo è prevalentemente musica registrata, riprodotta da sofisticate “scatole sonore”, suscita minor impressione che Prince venda il suo ultimo disco attraverso Internet, decidendo di stamparlo solo se le prenotazioni raggiungeranno le 100.000 copie.
Benché l’esperienza quotidiana renda la musica “inscatolata” un fatto naturale, è solo di questi ultimi anni l’interesse della sociologia per la musica registrata e per l’incidenza dei supporti sulle pratiche della produzione e dell’ascolto (cfr. Evan Eisenberg, “L’angelo con il fonografo”, Instar Libri, Torino 1997).
Paolo Prato, sociologo e critico musicale, affronta il tema in “Suoni in scatola. Sociologia della musica registrata: dal fonografo a Internet” (Costa & Nolan, Genova 1999, pagg. 103), in libreria proprio in questi giorni, analizzando i significati di un ascolto che è sempre meno del “qui ed ora” (festival, manifestazioni di piazza, sale da concerto…) e sempre più differito e differibile nel tempo. Grammofoni, juke-box, dischi, musicassette, CD – materializzando la musica e rendendola sempre disponibile nel tempo e nello spazio, attraverso un appassionante corpo a corpo tra innovazione tecnologica e mercato – hanno modificato l’esperienza dell’ascolto e della memoria, modellando le identità soprattutto dei più giovani. Scrive Prato: “Celebrazioni di piazza, feste casalinghe, week-end in discoteca, meditazioni in solitudine nella propria camera, dove l’unico interlocutore è un cantante sul piatto… la gioventù, dagli anni Quaranta in poi, si è formata sui dischi, ha forgiato la propria socializzazione nello scambio di musica congelata, danzando al ritmo di 45 giri azionati dal braccio meccanico dei juke-box, sgommando ai semafori al fragore dell’autoradio, lanciando la propria sfida al mondo protetti dalle cuffie stereo o ostentando gigantesche radio portatili. Non solo la musica è sempre il mezzo di espressione privilegiato dalla cultura giovanile… ma la sua mobilizzazione è uno dei rituali per eccellenza della più vasta cultura di massa”.
Che effetto fece ai diecimila fans assiepati davanti a Graceland, in occasione del ventennale della morte di Elvis Presley (luglio ’97), assistere su un megaschermo al duetto canoro dell’idolo con la figlia Lisa – la voce rimasterizzata e depurata dalle basi originali per poter essere accompagnata dal vivo dai reduci del suo gruppo di allora? Si trattò, certo, di kitsch all’americana, ma anche dell’attestazione del potere della musica riprodotta di suscitare forti emozioni alterando gli effetti del tempo ed eludendo, addirittura, la morte. E che effetto fa riascoltare, ogni volta che lo desideriamo, John Lennon cantare “Free as a bird” (1997) ancora coi Beatles, a diciassette anni dal suo assassinio, pur sapendo che si tratta di una comune tecnica di missaggiio della voce (registrata nel 1980) con basi musicali confezionate su misura per l’occasione?
Approfondire le implicazioni relative all’uso del walk-man (“comfort della mobilità”, sintetizza Prato), del ghetto blaster (“l’ostentazione dell’identità”), dell’autoradio; interrogarsi sui significati del karaoke, pronipote del juke-box nei locali pubblici, o della diffusione in larga scala della “muzak”, quella musica cioè che accompagna la pratica dei consumi e del lavoro, - non limitandosi a subirne gli effetti e a godere dei vantaggi della funzione d’uso – può consentire di interpretare i tempi che viviamo con maggiore consapevolezza.
Rappresenta un’occasione per gli adulti, anche, per attrezzarsi al dialogo con chi oggi ha vent’anni, evitando le logore logiche del “quando ero giovane io…”.
("Mondo Padano", 24 aprile 1999. Lievi interventi correttivi del 15 maggio 2004)

 

Vittorio Giacopini – “Al posto della libertà. Breve storia di John Coltrane” ( Edizioni e/o, Roma 2005)

Novantuno le pagine (prezzo di copertina €8) con cui Vittorio Giacopini, direttore della rivista “Lo Straniero” e autore di numerosi saggi, ritrae la straordinaria storia di John Coltrane, concentrando l’attenzione sugli ultimi, miracolosi lavori (“A Love Supreme”, “Ascension”, “Meditations”, “Expression”) che fecero definitivamente deflagrare le dimensioni del jazz e, per esteso, della stessa musica.

“Al posto della libertà”, titolo tratto da una riflessione di Ralph Ellison (“L’arte – il blues, gli spiritual, il jazz, la danza – era quello che gli schiavi avevano al posto della libertà”), è un sentito, appassionato omaggio a uno dei più determinanti musicisti del secolo scorso che con la sua arte, appunto, ha rincorso l’idea di una espressività libera, intima, spirituale, eppur così profondamente umanistica, addirittura “popolare”.

La sua, una musica per il popolo che trascendeva gli stereotipi omologanti della cultura di massa (e degli stessi codici della creazione artistica), e aspirava a una forma-medium che potesse condurre l’uomo alla sua ascesi, al dialogo con Dio.
“Usare la musica per fare del bene”, scrive Giacobini, "usare la musica comunque per fare qualcosa. Dopo questo estenuante viaggio dentro sé stesso, dopo questi anni di ascesi o di scavo interiore, Coltrane non resta a guardarsi dentro uno specchio offuscato e preferisce invischiarsi nel mondo, recuperare un rapporto con gli altri, con le cose”.

Un libro breve, particolare, dal taglio personale, scritto con stile semplice e diretto. Poco adatto a chi – ed è una delle ossessioni di questi tempi – va cercando una guida all’ascolto, “album by album” (per questo, nel desolante vuoto “critico” su Coltrane, sufficiente leggere l’ottimo “Coltrane” di Roberto Valentino, edito dagli Editori Riuniti nel 2002, l’unico libro disponibile in italiano!).

(10 luglio 2005)

 

Matteo Salvatore - “La luna aggira il mondo e voi dormite. Autobiografia raccontata ad Angelo Cavallo” (Stampa Alternativa – Nuovi Equilibri, marzo 2002)

“Apricena, 1940 o giù di lì. Siamo tutti credenti, ma li prevete hanno astuzia e furbizia più del lupo. Non so come mai, tutti i preti del mondo devono fregare il popolo. L’arcivescovo aveva due serve e ogni giorno dava ordini su cosa e come dovessero cucinare. Il giorno prima della Processione della Madonna di Maria Santissima Incoronata, tutta la popolazione si inginocchiava per terra. Lui stava sul bancone a dire messa. Al mattino presto di quel giorno, una donna aveva regalato all’arcivescovo due galline vive. L’arcivescovo aveva dimenticato di dire alla serva come doveva cucinarle. Ormai la messa era avviata. La serva con le due galline in mano, dietro alle spalle nostre e di tutta la popolazione, non poteva parlare e gesticolava con una mano, mentre coll’altra reggeva le galline. Gesticolava per far capire: “Come le devo cucinare?”. L’imbarazzo dell’arcivescovo era enorme. Continuava a dire: “Santa Maria, madre di Dio, siamo tutti peccatori, orete frete! Requiem e materne, mezza arrosto e mezzo leeeessssooooo!”. Tutta la popolazione, come fessi: “Ameeen!”.
Questo, Matteo Salvatore, cantautore foggiano vissuto in giovinezza nell’analfabetismo e nell’assoluta povertà, prima di riscattarsi con la forza prorompente della sua poetica musicale che ha anticipato, sin dagli anni Cinquanta, il fenomeno dei cantautori, che ancora riconoscono in lui un vero e proprio iniziatore (Guccini: “Matteo Salvatore è un artista assolutamente straordinario”). Da una sequenza disordinata di ricordi e testi di canzoni, raccolti dal curatore Angelo Cavallo e adattati in italiano da Raffaele Vescera, emerge la storia rocambolesca di un musicista che ha saputo precorrere i tempi raccontando con la chitarra e la voce la sua terra e le vicende di un’Italia provinciale uscita a fatica dalla guerra, senza mai rinunciare alla propria integrità e alla propria coerenza. Sufficiente l’ascolto delle dodici tracce contenute nel CD allegato, registrate in presa diretta nell’agosto dell’anno scorso in collaborazione di Ziringaglia e Leo Mansueto: canzoni interpretate con rara intensità che parlano d’amore, povertà, vecchiaia, piccoli fatti del quotidiano. Un Murolo o un Carosone pugliese assolutamente da (ri)scoprire. Non a caso, di lui, Italo Calvino ebbe a scrivere: “(…) E’ l’unica fonte di cultura popolare, in Italia e nel mondo, nel suo genere. Noi dobbiamo ancora inventare le parole che dice Matteo Salvatore”.

 

Benjamin Nugent - "Elliott Smith e il grande nulla" (Arcana Editrice, Roma 2005)

Elliott Smith è stato uno dei compositori pop di maggior talento degli ultimi quindici anni. Nugent, collaboratore di "Time" e del "New York Magazine", ne racconta la breve parabola con equilibrio, evitando facili speculazioni e sensazionalismi, certo deludendo chi (e in Rete i sedicenti "fan" non hanno fatto mancare la loro consueta stupidità...) avrebbe voluto rivelato il "mistero" della morte improvvisa, cruenta, avvenuta in circostanze ambigue, apparentemente senza ragioni.

Sei dischi in tutto, l'ultimo uscito postumo nel 2004 per volere della famiglia, testimoniano il valore di una mente brillante, dalla sensibilità impressionante, capace di reinventare letteralmente la più nobile canzone pop di matrice beatlesiana (altro che "Brit Pop"!...).

La registrazione quasi casuale del primo disco, in lo-fi; il passaggio a un'importante indie (la Dreamworks); il Grammy Award mancato per un soffio (con "Miss Misery", nella colonna sonora di "Genio Ribelle", film di Gus Van Sant); la progressiva, ineluttabile perdita dei vecchi amici, anticamera della solitudine e dell'abuso di sostanze; l'acquisto di uno studio di registrazione con l'idea di ricominciare; la morte che lo coglie mentre sta ultimando le registrazioni di "From a basement on the hill", ultimo capolavoro: il libro (269 pagine per 17.50 euro) racconta bene gli strappi di questa storia scomoda, amara, del cui epilogo il mondo rock faticherà a riprendersi. Dopo la morte di Jeff Buckley e di Kurt Cobain, meteore così capitano poche volte nella vita...

(26 luglio 2005)

 

Tim Willis - "Madcap. The half life of Syd Barrett, Pink Floyd's lost genius" (Short Books, UK 2002)

Benché riviste e quotidiani come il Sunday Times, l’Evening Standard o l’Observer si siano premurati di segnalarlo come testo “intrigante”, “eccellente” - addirittura “definitivo” - l'ultimo dei volumi dedicati alla leggenda vivente di Cambridge non aggiunge granché alla già poderosa e approfondita bibliografia disponibile.

Ci sono alcune foto inedite, d’accordo, e qualche aneddoto sconosciuto, nel libro; alcune testimonianze che in precedenza non erano state consultate o s’erano rese indisponibili (tra queste, Gala Pinion e Lindsay Corner, fidanzate di Barrett, David Gilmour, Mary e Roger Waters). Ma tutto sommato le fonti, il livello di approfondimento e la stessa trattazione del soggetto sono ben lontani dall’integrare (se non addirittura dal rendere datate) le precedenti biografie – in particolare quelle di Watkinson-Anderson (“Crazy Diamond and the dawn of the Pink Floyd”, 1991) e Palacios (“Lost in the Woods” , 1998), oltre all’indispensabile, maniacale “Random Precision” (Cherry Red Books, 2001) di David Parker, che documenta tutte le sedute di registrazione di Barrett da solo e con i Pink Floyd. Libri fondamentali - e non solo per il "barrettiano DOC" - per quanto Willis si sbilanci a considerare il primo “scritto confusamente e con alcuni errori elementari” e il secondo “assolutamente impreciso”…

Quanto al suo, un libro inutile, in sostanza, le cui 170 pagine (£ 7.99 il prezzo di copertina) ricostruiscono solo sommariamente la storia già ben raccontata altrove, sacrificando la narrazione a profonde elissi temporali.

Curioso per quanto consueto il resoconto dell’incontro fugace dell’autore con Barrett sulla porta di casa, consumatosi, al solito, tra monosillabi e infastidite risolutezze (accomiatandosi, lo stralunato giornalista chiede all'ex chitarrista se gli può lasciare un biglietto nella cassetta della posta e il Pifferaio lo liquida seccamente con un: “Non ha niente a che fare con me”…).
Se è vero che per definizione non può esistere "la biografia definitiva”, questa di Willis appare quantomeno pretestuosa, costruita com'è intorno all'ultimo ennesimo "ritrovamento dell'eroe". In troppi, prima di lui, hanno adottato lo stesso criterio...

(5 luglio 2005)

 

La "world music" non esiste. Lo dice David Byrne.
Effetti della globalizzazione. Nel villaggio globale planetario le musiche risuonano e si confondono, si mischiano generando nuove forme, rinverdendo stili, cambiando temi e contenuti. "Contaminazione" è il termine che racchiude i significati di "incrocio di genere", "incontro fra culture", "meticciato sonoro". Oggi è anche diffuso l'uso dell'espressione "world music" per definire tutte quelle musiche che non appartengono alla tradizione occidentale, che nascono e si diffondono dagli angoli più remoti del pianeta: "world music", allora, è la salsa caraibica, il tango argentino, il merengue o la rumba, il soka, il soukous congolese.

Un libricino edito di recente in Italia ("Tutti Frutti", Indice Internazionale, pagg. 90, lire 10.000), raccolta di articoli pubblicati all'estero da prestigiose testate ("Rolling Stones", "New York Times", "Songlines"), propone un'intelligente confutazione di quest'abitudine ormai consolidata anche tra gli addetti ai lavori. Affidandosi a uno stile spigoloso e polemico, David Byrne, compositore americano cui si deve l'esperienza fondamentale dei Talking Heads oltre che la riscoperta in ambito pop della "salsa brasilera", nell'articolo intitolato "la world music non esiste" (fonte: "New York Times") scrive: "Odio la world music... Il termine è uno stereotipo che rimanda a qualsiasi genere di musica di tradizione non occidentale: musica popolare, musica tradizionale e persino musica classica. E' allo stesso tempo un'etichetta commerciale e un termine pseudomusicale - e il nome di una sezione dei negozi di dischi dove viene messo tutto il materiale discografico che non ha una collocazione precisa." Byrne, nella sua appassionata requisitoria, si spinge ben oltre le considerazioni di carattere etimologico e musicologico, che rendono l'espressione "world music" un'araba fenice di scarsa intelligibilità, andando a sfiorare questioni più decisive in termini di rapporti socio-politici tra il nord e il sud del mondo: "C'è un bisogno perverso di vedere gli artisti stranieri con gli abiti tradizionali del loro paese anziché con la maglietta e i calzoncini che di solito indossano quando non sono sul palco", scrive. "Non vogliamo che somiglino troppo a noi, e quando succede, presumiamo che la loro musica sia calcolata, studiata a tavolino, impura." La riflessione del musicista newyorkese chiama in causa concetti storicamente indagati dall'etnologia: "... Appioppare l'etichetta di "esotico" a qualcosa è una buona idea solo quando si tratta di tua sorella...: a volte fa bene dare una valenza esotica a ciò che è diventato troppo familiare. Ma in altre circostanze giudicare persone e culture come esotiche è un meccanismo che crea distanza e troppo spesso apre la via allo sfruttamento e al razzismo."
Esemplari, a questo proposito, gli altri articoli del libro: la storia del movimento "Tropicalia" (Caetano Veloso, Gilberto Gil) che da vent'anni almeno appassiona il Brasile e il sud America, ispirandosi all'opera geniale di Tom Zè; un ritratto a tutto tondo della scena pop giapponese, pronta all'assalto dei mercati occidentali attraverso un'involontaria parafrasi stilistica delle forme in uso in Europa ed America; la ricostruzione appassionante del "soukous" congolese, lanciato dalla figura carismatica di Franco, eroe nazionale tra le classi subalterne a dieci anni dalla sua morte e, in particolare, l'incredibile storia del successo della nota "The Lion Sleeps Tonight", una canzone nata per caso in Sudafrica nel '39 grazie alle intuizioni di tal Solomon Linda e diventata un "evergreen" che vanta innumerevoli interpretazioni - prima fra queste quella lanciata in Americana da Pete Seeger con gli Weavers. Emblematica vicenda che obbliga a riflettere sui caratteri troppo spesso semplicisticamente stereotipati di certo giornalismo "popolare": qual è il confine del "diritto d'autore" applicato in ambito tradizionale? Quali meccanismi psico-percettivi modificano la considerazione di una canzone, nata come espressione del "basso", facendone un hit planetario? Indispensabile un aggiornamento del termine "world music", buttato lì nelle recensioni con la leggerezza di chi, da eurocentrico, osserva con supponenza le "altre musiche", come se appartenessero a un altro pianeta.
("Folk Bulletin" n. 179, gennaio 2002)

 

Bob Marley. Una vita di fuoco (Feltrinelli, 2002)

Una biografia ben scritta e notevolmente documentata, opera del giornalista americano Timothy White, tratteggia la vicenda umana e artistica di Bob Marley, leggendario vate del reggae.
In "Bob Marley. Una Vita di Fuoco" (Feltrinelli, pagg. 356, €12), l'autore ricostruisce il clima socio-culturale in cui il musicista di "Woman No Cry" strutturò la sua "coscienza di classe", alimentò la sua urgenza empatica verso i neri, le popolazioni più umili, cantando per il mondo il culto millenaristico del "tafarismo".
Un'inossidabile figura simbolica per gli afroamericani, più banalmente una star internazionale per i luccicanti scenari del rock europeo, dove era stato catapultato alla fine degli anni settanta grazie all'intraprendenza del discografico, talent scout Chris Blackwell, fondatore dell'Island Records. Forse, più verosimilmente, uno sciamano contemporaneo, orgoglioso mistico con la chitarra e la voce capace di aggregare milioni di giovani intorno a un'idea nostalgica di "destino" - il ritorno in Africa, in Etiopia, Terra Madre del "re dei re" Hailé Selassiè I. Una tensione morale, intellettuale, emozionale, quella di Marley, che si sarebbe interrotta tragicamente nel 1981, a soli 46 anni, a causa dall'implacabile tumore al cervello che aveva rinunciato a curare, coerente coi dettami della sua religione ("I rasta non ammettono l'amputazione. Non ammettiamo che un uomo venga smontato"). Con una decina di dischi bellissimi - in particolare "Natty Dread" (1974), "Exodus" (1977) e "Kaya" (1978) -, Marley contribuì, tra i primi, a rompere l'ottusa resistenza dell'Occidente nei confronti delle musiche tradizionali: un tre tempi sincopato, lieve, godibile per suggestivi versi di poesia dell'anima. "... Aprite gli occhi e guardatevi dentro/Siete soddisfatti della vostra vita?/Sappiamo dove andiamo, sappiamo da dove veniamo/Stiamo lasciando Babilonia/Stiamo andando nella terra di Padre Nostro...".
("Mondo Padano", 30 marzo 2002)

 

Richard Middleton - "Studiare la popular music" (Feltrinelli, 2001)

"Happy new ear", ironizzava anni fa John Cage, augurandosi una nuova epoca di ascolti più intelligenti della musica (e del rumore) che ci circonda.
Una mappa di ricognizione sulle origini e i significati della "popular music" è da poco nuovamente disponibile nelle librerie italiane grazie alla ristampa Feltrinelli del classico di Richard Middleton "Studiare la popular music" (pagg. 414, L. 22.000), edito per la prima volta in Inghilterra nel '90.
A Middleton, docente della Open University di Newcastle, dobbiamo lo studio probabilmente più lucido e significativo apparso negli ultimi trent'anni sull'argomento, da quando cioè, uscendo dalle aule ammuffite delle università, alcuni studiosi hanno cominciato a interrogarsi sulle musiche variamente definite come "popolari", "leggere", "non colte", "di massa".
Middleton, nel secondo capitolo del libro, confuta una volte per tutte - e con colte argomentazioni convincenti - le tesi di chi ha voluto vedere (il più celebre è stato T.W.Adorno) nelle musiche "popular" una manifestazione deteriore della comunicazione di massa, venuta "dal basso" al solo scopo di edulcorare, inquinare, svendere la cultura "alta".
L'ozioso dibattito sulla legittimità e la dignità culturale della "popular music", mentre le musiche (com'è ovvio) continuano ad essere prodotte e ascoltate dalla gente, non è certamente chiuso, tutt'altro. Dietro ad ogni angolo di rivista e di quotidiano di provincia è sempre in agguato il critico di turno che, metronomo alla mano, si preoccupa ancora di dimostrare che un gruppo come i Beatles, in fondo, non aveva conoscenze sufficienti dello spartito o che espressioni quali il "minimalismo" non avrebbero ragion d'essere se il compositore di turno, alla "fatidica prova dei fatti", sembra a digiuno di lezioni di piano...
Consigliamo questo libro soprattutto a loro, i "critici colti". Potranno forse trovare più di una risposta ai loro amletici dubbi sulla natura di certe sospette, oblique musiche contemporanee.
("Mondo Padano", 16 giugno 2001)

 

Don Delillo - "Contrappunto. Tre film, un libro e una vecchia fotografia" (Einaudi, Italia 2008)

Trentaquattro pagine di scrittura piana, diretta, ispirata a tre film ("Atanarjuat", "Trentadue piccoli film su Glenn Gould" e "Thelonious Monk: Straight No Chaser"), un libro ("Il soccombente" di Thomas Bernhard) e una vecchia fotografia (che ritrae Monk, Mingus, Haynes e Parker in concerto a New York) per efferrare alcuni topoi della dimensione psicologica dell'artista - la solitudine dell'ispirazione, l'ossessione della creazione, la casualità del suo farsi.

Vite ed esperienze che si intrecciano e confondono nelle coincidenze dell'esistenza (Gould che si ritira dalle scene a 31 anni per dedicarsi anima e corpo alla registrazione in studio; Monk che lascia il jazz e vive in un quasi assoluto mutismo gli ultimi anni della sua vita...) scandagliate con lo stile che è di Delillo (cult writer, tra gli altri, di "Underworld") per verificare una tesi che è consapevolezza d'artista:

"Nelle culture antiche", scrive, "il solitario è una figura maligna. Minaccia il benessere del gruppo. Noi però lo conosciamo perché lo incontriamo, in noi stessi e negli altri. Vive in contrappunto, una sagoma in sbiadita lontananza. Ecco ciò che è: persistentemente solo".

Tra saggio breve e divertissement, una lettura lieve, accompagnata da foto in bianco e nero suggestive. Unica pecca, oltre l'eccessiva brevità, l'inspiegabile assenza della famosa foto di Monk, Parker e Mingus sul palco dell'Open Door di New York.
(29 dicembre 2008)

 

Glauco Cartocci - "Il caso del doppio Beatles. Il dossier completo sulla "morte" di Paul McCartney" (libro - Robin Edizioni, ITA 2005)

"Il caso del doppio Beatles" è una maniacale, appassionante, a tratti un po' pedante, ricostruzione del mistero della presunta morte di Paul McCartney che monopolizzò le cronache pop e disturbò il sonno dei fans alla fine del 1967.
Cartocci, nelle 309 pagine del libro (€ 14 il prezzo di copertina), accumula indizi, documenti, illazioni come nella più classica investigazione poliziesca; scruta le copertine dei dischi del gruppo (in particolare il capolavoro di Peter Blake per "Sgt. Pepper's"), approfondisce i doppi sensi, le allusioni di articoli di stampa, le dichiarazioni dei musicisti, confuta storici luoghi comuni...

Ne esce un congegno ai limiti del patologico, certo, ma davvero intrigante, che esalta come non mai il valore aggiunto di molte leggende dell'epopea Rock, che sembrano nate per far sognare.
(22 novembre 2005)

 

Greil Marcus - "Like A Rolling Stones" (Donzelli Editore, ITA 2005)

Greil Marcus, uno dei pochi giornalisti/scrittori rock a poter vantare la sfida (stra)vinta con le strettoie di genere (chi non ricorda il suo, epocale, "Mistery Train" o il più recente "La repubblica invisibile"?), scrive il racconto appassionante di "Like A Rolling Stones", il brano forse più conosciuto di Bob Dylan, intrecciando biografia del musicista, anedottica, Storia d'America, psicologia sociale, filosofia della canzone (altro che Sgalambro!).
Intervistato da "Il Manifesto" (edizione del 9 novembre 2005), spiega: "(...) Per me non si tratta di una vecchia canzone. Ogni volta che la sento la trovo diversa. E proprio questo è diventato il soggetto del libro: perché è una canzone sempre diversa, che non invecchia".

E ancora: "E' come se né Dylan né i musicisti sapessero cosa sta succedendo nella canzone. Nella maggior parte dei dischi, la registrazione è semplicemente la copia di qualcosa: di come la canzone è stata scritta, o di un arrangiamento. Ognuno sa già tutto quello che deve fare. I musicisti si possono riferire a qualcosa. "Like a Rolling Stones", invece, suona sempre come un evento: una battaglia di guerra, o un incidente stradale. Quando ti trovi nel mezzo di un evento, non sai mai cosa succederà. Non sai mai come andrà a finire. E un evento non può essere ripetuto. Non lo puoi suonare di nuovo, e quando lo ascolti suona sempre come se stesse succedendo in quel momento".

Il libro (181 pagine per 13,50 euro), scritto con uno stile avvincente ed erratico, stimola molteplici riflessioni sulla funzione e il destino dell'arte contemporanea, le motivazioni dell'artista, la componente aleatoria del suo farsi, i significati multipli che può assumere nel tempo.
Raccontando la storia di "Like A Rolling Stones", rivelandone la sua forza iconografica, Marcus offre una testimonianza paradigmatica di scrittura creativa "intorno alla musica". Scrittura transgenica, digressiva, precaria, nobilmente sprofondata nel nostro tempo di classifiche, "guide a", "non puoi non averlo ascoltato"...
(16 novembre 2005) 

 

Enzo di Mauro - "Fenomenologia di Battiato" (Auditorium Edizioni, Milano 2004)

Finalmente un libro coraggioso, nell'asfittica editoria italiana satura di tributi a presunti geni, esegesi di nani e ballerine, iperboliche aggettivazioni, biografie in serie dopo l'ultimo dei lutti pop (chi sarà il prossimo?).
Nel caso specifico, poi, non si è letto negli anni che di positivo, presentando Battiato come una sorta di guru, di saggio della montagna, di asceta delle sette note. In realtà, più verosimilmente, talento beffardo capace di vendere milioni di dischi con perfette amenità camuffate e di riempire contemporaneamente teatri con opere liriche pretestuose e ambiziose.
Con una prosa tagliente e aforistica l'autore di questo libro (127 le pagine per 12.50 euro) disvela l'arcano bluff e ci restituisce (era ora!) l'immagine di uno scaltro manager di sè stesso, abile uomo-immagine perfettamente introdotto nel music bizz contemporaneo. Illuminante a questo proposito la bruciante riflessione para-filosofica n. 17 ("Convergenze parallele"): "L'opera di Battiato si mostra inguaribilmente ottimista. Anche per questa ragione, è l'opera più ideologica di questi anni, anzi la più politica. In quanto a conseguenze pratiche, infatti, è la più dirompente". O la n. 13 ("Curzio Malaparte"): "Battiato ha capito come va il mondo. Allora usa il bastone del moralismo e la carota del nichilismo. Nulla va bene, tutto va bene".
Oltre alla sintetica introduzione di Claudio Chianura, che ricostruisce l'avvento sulle scene del musicista catanese, esclusivo e di notevole interesse il compendio fotografico di Roberto Masotti, tra i più importanti fotografi italiani d'ambito musicale: il suo ricco "saggio fotografico" di scatti in bianco e nero, che copre tutta la carriera di Battiato, è più eloquente di ogni ulteriore analisi delle fortune immeritate del più sopravvalutato dei musicisti italiani.
(15 ottobre 2004) 

 

(a cura di) Claudio Chianura – “Area International Popular Group” (Auditorium Edizioni, Milano 2004)

Dopo l’ottimo contributo critico all’opera di Demetrio Stratos, a firma Janete El Haouli (“Demetrio Stratos. Alla ricerca della voce-musica”, 1999), Auditorium Edizioni si ripresenta con un libro dedicato agli Area, in una nuova collana dal formato “sonic book” (CD-sized, testo italiano/inglese con CD allegato) a cura di Claudio Chianura.
Nucleo del lavoro un’intervista a Patrizio Fariselli, tastierista del gruppo, che opportunamente stimolato ricostruisce l’esperienza degli Area dagli esordi di “Arbeit Macht Frei” (1973) a “Tic Tac” (1980), pubblicato dopo la morte di Stratos e l’uscita di Paolo Tofani, seguendo il filo delle produzioni discografiche.
Se l’allegato audio è decisamente interessante (un’antologia di tredici “classici” dal repertorio del gruppo), meno incisiva ci è parsa l’introduzione di Chianura, certo affettuosa e sentita, ma forse proprio per questo poco “tecnica” ed eccessivamente indulgente nell’incrociare i fatti della Storia con il dato autobiografico e sentimentale.
Considerato che non si ricordano altri contributi critici in volume alla gloriosa storia di uno dei gruppi più determinati della scena italiana (e non) degli anni Settanta e che i periodici articoli giornalistici appaiono in genere poco approfonditi e inadeguati per chi voglia penetrare l’unicità della ricerca degli Area (eccezione, mi pare, un “glorioso” provocatorio articolo a firma Giaime Pintor dal titolo “La musica rende schiavi” su un “Muzak” del 1974...), il libro è comunque consigliato, a patto di accettare l’idea di accostarvisi da una prospettiva “interna” e parziale, per quanto competente e ricca di aneddoti e curiosità.

 

Giovanni Straniero-Mauro Barletta - “La rivolta in musica. Michele L. Straniero e il Cantacronache nella storia della musica italiana” (Lindau, Torino 2003)

Un libro breve (solo 163 pagine) per tributare l’opera e l’azione di un grande intellettuale della cultura popolare italiana, Michele L. Straniero. A curarlo i giornalisti Mauro Barletta e Giovanni Straniero, nipote di Michele, che hanno raccolto e sintetizzato molteplici materiali e fonti dirette di personalità della cultura (dai fondatori di Cantacronache ai cantautori degli anni Settanta) per offrirne un ritratto a tutto tondo, ricco di provocazioni e spunti di riflessione sul contemporaneo: perché miglior tributo a Straniero non poteva essere che quello di renderlo ancora “attuale”, per certi aspetti precursore, piuttosto che ridurlo a mito impagliato da esporre sotto teca.
Straniero (Milano, 1936-Torino, 2000) ha attraversato la storia del secondo Dopoguerra italiano con l’intelligenza e l’irruenza dei grandi anticipatori, con un'incisività inversamente proporzionale all’ignoranza che ha dovuto combattere: sua l’intuizione di Cantacronache, movimento di provocazione nato per contrastare la cultura popolare “bassa” della canzonetta sanremese (ma sviluppatosi molto oltre e con obiettivi che si sarebbe capito dopo ben maggiori...); sue le numerose ricerche multidisciplinari a carattere etnografico e musicologico (tra i saggi, fondamentale “Le canzoni della cattiva coscienza”, scritto con Liberovici e De Maria, pubblicato da Bompiani nel ’64); suoi i tanti dischi e le cassette cantate e curate per i Dischi del Sole e le edizioni Albatros (“Con i comforts della religione”, del 1974, e “Quando ero monaca”, del 1971, quelli a cui sono più affezionato...), che risolvevano efficacemente la storica problematicità del rapporto tra intellettualità e pragmatica offrendosi come possibile modello di ricerca.
Con questo bel libro, gli autori si propongono di stimolare nel lettore una lettura personale della storia di Michele L. Straniero attraverso l’appaiamento "neutrale" delle testimonianze di suoi amici e collaboratori (Amodei, Virgilio Savona, Liberovici...) - e di coloro che in qualche modo ne hanno raccolto la pesante eredità (dai cantautori Guccini, Vecchioni, Lolli, Bertoli ai protagonisti della scena folk Giovanna Marini, Teresa de Sio, per giungere ai più giovani Zulu Persico dei 99Posse e Luca Morino dei Mau Mau) - e la fedele ricostruzione storiografica dei contesti, anche se la mole di citazioni e il “peso” dei fatti documentati non può non indurre a considerare in tutta la sua evidenza la straordinarietà della figura di intellettuale infaticabile e colto, la passione profusa nello studio e nella ricerca, il vezzo della provocazione e del divertissement dadaista, la prorompente contagiosa idea di libertà sottesa nelle sue opere...
E la vera scommessa dell’oggi, per mantener viva veramente la “lezione” di Straniero, appare sempre più quella di approfondire i fenomeni, documentarli, impegnarsi nella circolazione delle conoscenze senza perdere il piacere per le cose della vita... Proprio il contrario di quanto, purtroppo, sembrano fare coloro che tentano di accreditarsi come i diretti continuatori della sua fondamentale esperienza e che, al contrario, lavorano per realizzare una cultura museale il cui unico scopo rimane quello di vendere merce per esercitare potere.

(7 gennaio 2005)

 

Silvia Zambini - “La città concerto. Eterofonia e conflitto nella metropoli contemporanea” (Auditorium Edizioni, Milano 2004)

Eterofonia come malattia del Contemporaneo, in cui pervasivo e martellante nel nostro quotidiano è lo spot volgare che abbrutisce corpo (ipoacusicità come effetto a medio-lungo termine) e lo spirito.
Silvia Zambrini, una laurea in Sociologia e numerose ricerche sulla diffusione della musica negli spazi pubblici, scrive un bel saggio sul tema, erede di trascorse intuizioni lasciate a metà (quelle del Pierre Shaffer de “Il paesaggio sonoro”, del Marc Augé di “Nonluoghi”…), prendendo le mosse dall’articolo 32 della Costituzione che recita:
“La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività”.

Con uno stile espositivo semplice ma efficace, l’uso di una metafora calzante (il “concerto” e tutte le sue dimensioni come analogia del continuum di suoni e rumori invadenti che ci attanaglia), la studiosa espone per quadri tesi intuitive, a tratti addirittura elementari: il “concerto eterofonico” è dovunque, continuo, tanto presente da rendersi addirittura inavvertibile; ci avvolge nelle sue multiformi espressioni timbriche, stordendoci con frequenze prevalentemente acute; i suoi “strumenti” sono cellulari, radio, sirene, altoparlanti, televisioni - tutta la tecnologia al servizio del nostro tempo, tra lavoro e “shopping”.
Gli effetti di questo mostruoso “sottofondo”, facilmente deducibili: disturbi dell’attenzione, deficit nella concentrazione, perdita di senso dell’”altro da sé”, riduzione delle capacità uditive.
Colpisco alcune citazioni inserite nel testo, davvero significative:

“Una delle cose che non sopporto è appunto il sottofondo. Entrare in casa di qualcuno che fa il ricevimentino con sottofondo di musica classica lo considero un affronto a Mozart e Beethoven, senza tralasciare che disturba il colloquio. Ritengo il sottofondo una delle colpe e delle perversioni della nostra età, a meno che non si tratti di una sala da ballo ecc. Il sottofondo ha inciso sul modo di comportarsi e di parlare” .
(G. Dorfles, in un incontro con l’autrice del dicembre 2002).

“Non il suono, bensì il rumore rompe il silenzio e l’offende. La nostra epoca rumorosa è senza armonie, senza silenzi, senza suoni. Povera di “parole”, ricca di voci… Viviamo dispersi nella dispersione di mille cose inessenziali”
(M.F. Sciacca, “Come si vince a Waterloo”, Marzorati, Milano, 1961)

“L’essere umano continua a vivere i conflitti dell’incomunicabilità e le amarezze della solitudine ma un mondo di squilli, di canzoncine e di voci robotizzate lo accompagna e lo rassicura di cose e di persone che restano ugualmente distanti” (l’autrice, pagina 77).

“Quando la parola non è più unita al silenzio, non può rigenerarsi e perde sostanza. Oggi il discorso è una specie di soliloquio e, così disperso e svuotato sembra correre alla rovina. Il linguaggio odierno ha qualcosa di duro, di tenace, come se si sforzasse di sussistere nonostante la sua vacuità, e c’è anche un senso di disperazione, come se attendesse di essere condotto alla fine della sua vacuità. Questa instabilità tra tenacia e disperazione lo rende inquieto” .
(M. Picard, “Il mondo del silenzio”, Edizioni di Comunità, Milano 1951)

L’autrice, quanto alla possibilità di invertire la tendenza e tornare a un mondo abitato dal silenzio in cui l’uomo possa ancora scegliere, è perentoriamente pessimista: “Indipendentemente da Internet, il “concerto” che avvolge la metropoli rimane però a senso unico e senza molte prospettive di cambiamento. Dal momento che esso tende a manifestarsi invadendo spazi fisici di comune passaggio, sarà difficile che in futuro la sua presenza possa dipendere dalle scelte di ognuno, se non attraverso qualche sofisticato meccanismo di isolamento percettivo da ogni suono dell’ambiente (cosa che è già praticabile attraverso l’utilizzo del walkman).
La scelta del silenzio, ossia la possibilità di essere esonerati dal concerto, qualsiasi sia il suo contenuto, nonché poter ascoltare i suoni che esso prevarica, rimane per il momento pura utopia” (pag. 90).
E ancora (pag. 106): “Fino a quando non si imparerà a riconoscere le colpe dei suoni, soltanto il rumore delle macchine verrà considerato disagio. Intanto il “concerto” di suoni “carini”, “melodici” e “allegri” prosegue e dilaga assieme al moltiplicarsi di attività e persone in movimento, coinvolte in uno stesso stato di torpore: un sonno senza silenzio, in cui parole e pensieri si confondono tra intrusioni invasive e conversazioni tra sconosciuti. Un sonno che non lascia riposare. Ed è curioso che questo avvenga in una società che sempre più vorrebbe indurre gli individui a rimanere svegli, pronti ad affrontare nuove sfide, scelte diverse e impreviste competizioni”.

Bisogna ripartire dal silenzio, insomma. Contro il rimbambimento mediatico di chi ci vuole programmati allo shopping spensierato e al cieco (sordo) assenso.
(28 febbraio 2005)

 

Guido Michelone - "Mi ricordo il jazz" (Marcos y Marcos, 1999)

E' possibile che il jazz sia morto, qualche anno fa (una data? 1970, Miles Davis soffiava il suo electric jazz in "Bitches Brew"...), e non ce ne siamo accorti. Nel frattempo, però, sono continuati i concerti, le rassegne, le pubblicazioni di storie e saggi, la ristampa dei amggiori cataloghi.
"Mi ricordo il jazz. Guida bibliografica per 'sfogliare' la musica afroamericana", il volume che Guido Michelone ha curato di recente per la Marcos y Marcos (203 pagine, 16.000 lire), è una riflessione stimolante sul potere della memoria che affronta, attraverso le felici intuizioni di un George Perec intervistato nel 1979 dal noto "Jazz Magazine", la caducità del ricordo, l'importanza della catalogazione, le implicazioni dell'esperienza diretta. "Quando ho iniziato ad amare il jazz" - è Perec a ricordare - "la prima cosa che ho studiato è stato il New Orleans... Non ascoltavo neppure Louis Armstrong. Ciò che mi interessava, lo trovavo in Lester Young, Charlie Parker, Bud Powell, Thelonious Monk, in quello che si chiamava il bop... Avevo un po' più soldi, e sono andato ad ascoltare più spesso quello che passava nelle cantine , il Caméléon, lo Chat qui Peche, il Blue Note, il Mars Club. Non conoscevo ancora La Cigale, che ho scoperto alcuni anni dopo - era tutta un'altra cosa...".
"Mi ricordo il jazz" è un libro sui libri jazz editi in Italia, affascinante, spericolato volo bibliografico in mongolfiera attraverso settant'anni di musica e parole - da "Le memorie di Josephine Baker" di Marcel Sauvage, un Mondadori del 1928 (!), ai più recenti "Duke Ellington" di Giampiero Cane (Clueb Bologna) e "Umbria Jazz" di Paolo Occhiuto (Editore Silvana) pubblicati nel 1998.
E' stato scrito molto sul jazz, anche nel nostro paese che il jazz l'ha vissuto più che altro da spettatore. Capolavori della sociologia quali "La musica del diavolo" (Gilles Oakley, Mazzotta 1978), "Il popolo del blues" (Leroi Jones, ristampato nel '94 da Shake), "Canto nero" (Giampiero Cane, Clueb 1982), "Il jazz classico" (Gunther Shuller, Mondadori 1979); le cronistorie del jazz e dei suoi protagonisti di Paul Oliver ("La grande storia del blues", Anthropos, 1989), Berendt ("Il libro del jazz. Dal ragtime al rock", Vallardi 1986), Polillo ("Jazz", Mondadori 1983); le dolorose, intense confessioni autobiografiche di Mingus ("Peggio di un bastardo", Marcos y Marcos 1986), Billie Holiday ("La signora canta i blues", Feltrinelli 1996), Duke Ellington ("Autobiografia", Emme Edizioni 1981); le suggestioni narrative in chiave jazz di Kerouac, Boris Vian, Cortazar (suo lo straordinario "Il persecutore", Einaudi 1989) hanno reso l'esperienza dell'ascolto di dischi e CD più vera, avvicinati universi irrimediabilmente perduti, gesta altrimenti velate dal capriccio della leggenda - la misteriosa scomparsa di Chet Baker, l'imperscrutabile mutismo di Thelonious Monk, la conversione mistica di John Coltrane...
Quello propostoci da Michelone è però anche un piacevole invito a lasciarsi sedurre dalla nostalgia di un mondo e di un tempo che non sono più. Il libro dei libri su una stagione ormai tramontata, che sopravvive a se stessa, vittima di un incantesimo che ne ha congelato gli attimi fuggenti nella ritualità domestica color seppia dell'ascolto dei compact disc, nelle immagini bianco e nero dei video, nelle rielaborazioni poetico-letterarie (una recente, decisamente riuscita, "Natura morta con custodia di sax" di Geoff Dyer, Instar Libri 1997), nel cinema.
Destino fatale, temiamo, dello stesso concerto jazz, in cui si continuano a evocare - più per una elite di romantici intransigenti del sincopato e dell'assolo - le gesta che furono.
("Mondo Padano", 8 maggio 1999)

 

David Margolick - "Strange fruit" (Arcana Editrice, 2002)

David Margolick ha scritto forse il libro più intenso su Billie Holiday disponibile in Italia. Lo pubblica Arcana, in un'edizione pocket di 175 pagine dal titolo "Strange Fruit. La storia e il mito di una canzone all'origine del Movimento per i Diritti Civili". Meglio dell'autobiografia-culto "La signora canta i blues" (Feltrinelli, 1979), sulla cui attendibilità da sempre si sono sollevati dubbi; meglio del breve tributo di Paola Boncompagni pubblicato da Stampa Alternativa nel 1990. Meglio dell'indagine di Giorgio Campanaro data alle stampe qualche anno fa da Mondadori ("Il caso Billie Holiday"), in cui la spasmodica ricerca delle prove sulla misteriosa morte della grande cantante rendeva faticosa la lettura.
Margolick, giornalista di Vanity Fair, più volte candidato al Pulitzer, con stile sobrio e buon ritmo racconta l'appassionante storia della canzone simbolo del jazz, intrecciando aneddoti per lo più inediti della biografia della Holiday con l'origine e il destino del pezzo, composto nel 1939 dallo sconosciuto Abel Meeropol, alla memoria dei posteri con lo pseudonimo di Lewis Allan.
E' della popular music congelare momenti della storia individuale e collettiva in una canzone di tre-quattro minuti. Ognuno potrebbe stilarne un elenco. Ma "Strange Fruit" rappresentò, sin dalla sua uscita, uno strappo culturale e civile profondo con quella maggioranza di americani bianchi fieramente insensibili ai principi dell'uguaglianza e della tolleranza sociale. Furono in particolare le prime esibizioni della Holiday al Cafè Society di New York a sconvolgere il pubblico: la canzone non solo presentava una melodia dolente, lamentosa, che con una voce di rassegnata amarezza e disprezzo rifondava gli standard in uso della musica popolare, ma infliggeva una rasoiata alle coscienze del tempo con parole dirette, esplicitamente "politiche", in repertori solitamente affogati nella retorica dell'amore e dei buoni sentimenti. Con un uso semplice della metafora, Allan descriveva il tragico destino di un nero impiccato a un albero, dopo essere stato linciato, "strano frutto" pendente dai rami che perdeva "sangue sulle foglie e sangue sulle radici". "Il testo, che si prestava a una lettura ovvia e lacrimevole", ha scritto il vate jazz Gunther Schuller, "viene trattato con un freddo rispetto per gli orribili eventi descritti. Il dolore c'è, ma non viene messo in mostra. Il tono non è mai sopra le righe, la voce di Billie, toccante e finemente strutturata, raggiunge un miracoloso equilibrio che le permette di sfuggire alle insidie di un pretenzioso dramma sociale espresso in forma di ballata popolare goffamente 'seriosa'". Quindici anni prima che Rosa Parks si rifiutasse di sedere sui sedili destinati alle persone di colore su un autobus dell'Alabana. Venticinque anni prima che Martin Luther King fosse protagonista della marcia su Washington, "Strange Fruit" lottò la sua battaglia impossibile per i diritti civili dei neri d'America. Era "solo" una canzone di tre minuti che la CBS si era rifiutata di far registrare in studio e che sarebbe uscita solo grazie alla piccola "etichetta di sinistra" Commodore (oggi disponibile nel cofanetto edito nel '97). Da quel giorno l'avrebbero cantata in molti, da Nina Simone a Abbey Lincoln; da Sting a Diana Ross; da Siouxie & The Banshees a Robert Wyatt (un'interpretazione strepitosa che si trova su "Nothing Can Stop Us" del 1988).
"Solo" una canzone, in fondo. Che ancora oggi, soprattutto nell'interpretazione di Billie Holiday, sa mettere i brividi per la sua inquietante, "spaventosa" attualità.
("Mondo Padano", 8 settembre 2001)

 

Edith Piaf. Una donna esile dalla voce sfrontata.

Edith Piaf, "usignolo di Francia", strappata dalla strada e da una vita segnata duramente dal destino. L'aveva scoperta un piccolo impresario di provincia, Louis Leplée, convinta a salire sul piccolo palco del Gerny's, infimo locale della Parigi del '35, dietro gli Champs-Elysées. Lui le aveva trovato il nome suggestivo che la consegnerà alla leggenda della cultura popolare europea, facendole dimenticare quell'ingombrante, improbabile cognome da salumiere, Gassion. L'aveva persuasa a vestirsi di nero, non un gioiello alle mani, non un colore, e le aveva ritagliato addosso un repertorio di chansons popolari di quart'ordine, cantate soltanto nelle bettole tra ubriaconi. "A vent'anni, lei aveva conservato la gracilità di un'adolescente" - scrive Silvain Reiner, che ne ha da poco pubblicato la biografia ("Viva Edith!", Arcana Editrice, 322 pagine, L. 32.000) - "ma con occhi afflitti, tristi come quelli di una persona giunta alla fine della vita, alla fine delle curiosità per le cose. Un'adolescente misera e dai sogni rattrappiti." Una sublime dannazione che avrebbe "obbligato" la Piaf al suo straordinario repertorio - a "La Vie en Rose" del successo, all'ironica "Milord", alla drammatica "La foule", all'autobiografica "Je Ne Regrette Rien" - spingendola brutalmente a confondere l'arte con la vita, nell'appassionante intrecciarsi di amori desiderati e finiti, crisi depressive, droghe, psicofarmaci che avrebbero alimentato ricorrenti piccoli scandali, mezze verità morbose. Dal '63, l'anno della sua morte a soli 48 anni, una Francia sgomenta ne avrebbe mantenuto il culto: sarebbero usciti libri (il primo edito in Italia risale al 1970), prodotti dischi, film (tra gli altri, il mediocre "Piaf", in cui il regista ritenne di non inserire neppure la voce della cantante!), addirittura un museo - aperto nel '77, si visita solo su appuntamento al numero 5 di rue Crespindu-Gast, a Parigi. Ingente atto d'amore, cui il recente bel libro di Reiner si aggiunge con uno stile letterario e rispettoso rigore biografico: favola drammatica di uno star-system agli albori, di un corpo esile fattosi immagine, di un'immagine via via dissolta dalla voce, sgraziata e sfrontata, ma intensa, commovente, vera. La voce dei grandi artisti senza età, bruciati prematuramente da un'esistenza troppo dolorosa.
("Mondo Padano", 10 novembre 2001)

 

Bruno Casini - Ernesto De Pascale - "Anni di Musica. Itinerari Musicali in Toscana dal 1960" (libro - Sonora, ITA 2004)

Bruno Casini e Ernesto De Pascale ricostruiscono in due volumi la storia della musica in Toscana dagli anni Sessanta ad oggi attraverso interviste ai protagonisti della scena, immagini, discografie, schede monografiche. Il secondo dei due volumi, dedicato agli ultimi vent'anni di esperienze, offre un ricco apparato di riflessioni attraversando vari generi musicali nelle parole, tra gli altri, di Bandabardò, Maroccolo, Ginevra di Marco, Stefano Bollani, Riccardo Tesi, Giancarlo Cardini.
In allegato un doppio CD di musica intelligente.

 

 

Bill Evans. Ritratto di artista con pianoforte.

La collana "Jazz People" di Stampa Alternativa si arricchisce in queste ultime settimane di ben due volumi dedicati ad altrettanti grandi della scena jazz - John Scofield, scritto da Claudio Donà sulla base di un riuscito articolo già pubblicato da "Musica Jazz", e Bill Evans, curato da uno dei maggiori pianisti jazz italiani contemporanei, Enrico Pieranunzi.
"Ritratto di artista con pianoforte" (pagg. 157, L. 28.000), in particolare, suscita interesse per l'acuta analisi che il pianista offre della parabola artistica di Evans, incrociando biografia e tecnica pianistica, aneddotica e discografia, con un linguaggio piano, depurato da complessi tecnicismi, destinato a un pubblico non necessariamente specialista.
Evans, scrive Pieranunzi, "era un bell'uomo, alto un metro e novanta, dal fisico slanciato e atletico; ottimo nuotatore, forte nel football e abile nel golf; una persona di acuta intelligenza. Eppure non accettò mai se stesso: e questo rifiuto della propria realtà umana pervade molte delle sue più intense interpretazioni. L'autodistruzione, il fallimento umano, furono i prezzi che egli sentì di dover pagare per la sua realizzazione artistica". Nato nel New Jersey nel 1929, Evans aveva esordito negli ambienti jazz quasi in sordina, suscitando da subito grande interesse nella critica specializzata per l'approccio innovativo al piano, risultato di una profonda conoscenza e pratica di autori classici (Bach, Debussy, Brahms) e della lucida coscienza di voler rimanere radicato nella tradizione popolare, nella canzone e il canto.
Sarà l'incontro con Davis, dapprima nel '58, poi per le due sessions dell'epocale "Kind Of Blue" (1959), a segnare la svolta definitiva nella sua ricerca: un pianismo per sottrazione, essenziale, il suo, in cui è il silenzio a prevalere sul rumore, la pausa sulla continuità, che conferirà a quel disco, una delle vette più alte raggiunte dalla musica nel Novecento, l'irripetibile climax di notturno, di intimo ripiegamento nel sé, in anni in cui il bop era estroversione, solarità, immediatezza. Ammetterà lo stesso Davis, nella sua autobiografia (recentemente ristampata da Minimum Fax): "Suonando con Bill ti accorgevi che era un musicista capace di portare la musica sempre un po' più avanti rispetto a quando aveva cominciato a suonarla." Poi, da quell'anno, la definizione in trio di un approccio paritetico nella composizione e l'interpretazione (definito "interplay"), in cui è azzerata la funzione tradizionale dello strumento leader e ai musicisti è offerta l'inedita opportunità di dialogare liberamente senza gerarchie: rivoluzione che Evans fisserà nei suoi dischi forse più riusciti - "Waltz For Debby", "Sunday At The Village Vanguard" e "The Interplay Sessions", appunto. A 51 anni, dopo una vita di dura dipendenza dalle droghe, la morte improvvisa, per epatite. Questo volume, in edizione bilingue italiano-inglese, lo ricorda anche con un CD allegato di brani inediti registrati dallo stesso Pieranunzi in solo, trio e quartetto.

(""Mondo Padano", 14 luglio 2001)

 

 Georg Diez - "Beatles contro Rolling Stones" (Feltrinelli, 2002)

Un libro che si limitasse a evocare semplicemente il corpo a corpo tra Beatles e Rolling Stones, nell'epopea mitica degli anni sessanta, riducendo l'insieme a una gara ciclistica, sarebbe un'imperdonabile banalità. Ma il giornalista tedesco Georg Diez, nelle agili 158 pagine del suo "Beatles contro Rolling Stones" (Feltrinelli Editore), partendo proprio dalla contrapposizione che infiammò gli animi del mondo giovanile per almeno sei anni (1963-1969), ritrae i prodromi di una contemporaneità ancora in gran parte da decifrare.
Sono innumerevoli i contributi dedicati ai due storici gruppi, anche in lingua italiana, d'altronde: dalle pagine di Mark Lewisohn, rigoroso e un po' pedante filologo beatlesiano "day by day" (imperdibile il suo "Otto anni ad Abbey Road", edito da Arcana nel 1990), alle autorevoli biografie di Philip Norman ("Shout! La vera storia dei Beatles", Mondadori 1981); dalla purtroppo dimenticata indagine investigativa sulla morte di Brian Jones scritta da Mandy Aftel (Gammalibri, 1983)al recente monumentale "The Beatles Anthology" (Rizzoli, 2000). Ma un sintetico saggio generazionale che, accostando alternativamente le vicende dei due gruppi sulla struttura del Dos Passos di "49° Parallelo", allargasse la prospettiva sull'epoca, sconfinano argutamente sul presente che viviamo, mancava in un panorama editoriale saturo di esegesi spesso inopportune.
Comparando molteplici punti di vista di testimoni di quei giorni, in un flusso stimolante di informazioni essenziali offerte con uno stile mai retorico, Diez conclude l'apparente contesta con un "pari e patta", ammettendo che mentre i Beatles, "responsabili di una rivoluzione planetaria delle modalità di composizione, confezione ed esibizione", avrebbero finito per diventare vere e proprie icone per la capacità di rappresentare un ponte fra la generazione dei padri e quella dei figli, disinnescando la miccia contestataria, i "maledetti Stones" sarebbero risultati "più memorabili per trasgressioni, ossessioni ma anche continuità del loro modo di fare musica - più "nera", più aggressiva, più dura".
Ma, proprio al di là dell'eterna, sterile contrapposizione tra stili, culture, immaginari - frutto di un'attenta, per quanto ingenua, opera di marketing - Diez conclude l'avvincente resoconto di quegli anni con alcune deduzioni illuminanti, ben oltre la stereotipata, logora agiografia giovanilistica cui l'editoria ci ha purtroppo abituati.
Scrive: "Gioventù e ribellione. Una grande leggenda da un lato. Una vecchia menzogna dall'altro. E nel mezzo si trova una piccola verità: i giovani non si sentono mai così giovani e ribelli come quando non sono più giovani. E le persone che si vantano maggiormente di quanto fossero sovversivi allora e di quanto oggi sia tutto all'acqua di rose, proprio loro non hanno capito che il fenomeno che partiva in quegli anni era proprio la commercializzazione, la fama istantanea, la società televisiva, il mondo come specchio e superficie, il regno delle star nella democrazia, la vittoria dell'immagine sulla parola. Il ceto medio che si pensava di combattere? Il ceto medio siamo noi."
E ancora: "Ovviamente i tempi sono cambiati, è naturale che per esempio l'inno dei Beatles "Revolution" venga usato dalla Nike per uno spot. E' solo singolare che questo aspetto crei tanti problemi a certa gente. Perché furono proprio quegli anni e quelle persone (...) che avrebbero dovuto chiarire definitivamente che il mondo commerciale del pop in molti casi ha la meglio sul mondo reale."
Allora come oggi, d'altronde. Con buona pace di chi, millantando contenuti sovversivi o antagonisti "in nomine rock", non fa che rendere un servizio al Mercato e ai suoi ignavi adepti. Realizzando uno degli assunti della presente postmodernità provocatoriamente intuita da Andy Warhol: "Negli anni sessanta contavano le persone non quello che facevano. Era importante il cantante, non la canzone".
("Mondo Padano", 1 settembre 2001)

 

Un viaggio nel "son" dell'isola dei sogni.

L'interno di un appartamento dell'Avana, muri scalcinati, sporchi, aria di densa umidità. C'è una televisione spenta sullo sfondo, un modello vecchio, anni sessanta. Sono in quattro, forse cinque, il sorriso sulle labbra, l'espressione rapita, gli occhi catturati da un rullante, un charleston, la chitarra. Stanno suonando, si divertono, incuranti di quella che a un occhio sprofondato nel nostro presunto benessere può apparire inequivocabilmente una condizione di povertà o emarginazione sociale.
E' una delle fotografie in bianco e nero contenute in "Suonare sogni a Cuba", un bel contributo sulla musica di Cuba edito da Stampa Alternativa (pagg. 156, lire 35.000). Mentre a Kabul la musica torna a suonare, sulle ali di una libertà ritrovata (?), nella più nota isola dei Caraibi tutto sembra continuare a risuonare - le strade, le case, i corpi - in una dimensione di magica predestinazione che è quella celebre della salsa, del son o del tres.
Bartolini, Mejides e Manera, gli autori del volume, hanno girato in lungo e in largo l'isola fotografando volti, raccontando degli incontri avuti, registrando la musica, soprattutto, suonata da musicisti o gruppi sconosciuti (Sexteto Canoy, Grupo Enhorabuena, Grupo Guasimal...), autenticamente "popolari" perché venuti dalla gente per la gente.
Ne emerge un ritratto affascinante e inedito perché lontano dalle fortunate operazioni cine-discografiche di questi anni, lo spaccato di un universo denso di storie di povertà, di sogno, di speranza, esorcizzate con la condivisione della musica, della festa, del comunicare più diretto e spontaneo.
Un viaggio nei territori incontaminati della cultura popolare, affidato al narrare visionario di Miguel Mejides, già autore di romanzi e racconti, che raccoglie leggende e storie dell'"isola del dio della musica" - "un periplo per gli angoli dove Dio, Cristo e gli angeli musicanti potevano nascondersi. Un viaggio verso l'Isola Sognata, un viaggio verso l'essenza del colibrì e del son, alla ricerca della presenza di Dio nei musicisti poveri dell'Isola."
("Mondo Padano", 8 dicembre 2001)

 

La voce di Dylan, non solo poeta beat.

Nell'asfittico panorama editoriale musicale italiano, in cui latitano autori competenti e originali e gli editori si affidano quasi esclusivamente alla traduzione di opere (non sempre di rilievo) straniere, con "La voce di Bob Dylan. Una spiegazione dell'America" (Feltrinelli, 28.000 lire) Alessandro Carrera offre un percorso di lettura affascinante e inconsueto. Un'interpretazione alternativa all'abusata esegesi sul grande musicista americano, sessant'anni proprio in questi giorni (è nato il 24 maggio del '41 a Duluth, nel Minnesota), che ha il grande merito di affiancarsi ai pochi contributi significativi disponibili in Italia - la storica biografia di Anthony Scaduto, del 1972, il saggio di Robert Shelton, il più recente studio di Greil Marcus.
Con una scrittura scorrevole e colta (Carrera è docente di letteratura italiana alla New York University), l'autore propone una lettura appassionante e inedita dello strumento privilegiato dalla poetica dylaniana - la voce, appunto -, sfatando il mito logoro che lo vorrebbe ora "menestrello folk", ora "poeta beat", quando non addirittura un "rivoluzionario".
Analizzando brani straordinari - epocali - quali "Visions Of Johanna", "It's Alright Ma (I'm Only Bleeding)", "Like A Rolling Stones", e produzioni più recenti (il ben accolto album "Time Out Of Mind"), Carrera accosta a un'attenta ricognizione delle fonti testuali del musicista (Hank Williams, il blues anni '20 e '30, la beat generation e, soprattutto, la Bibbia) l'approfondimento della funzione centrale della vocalità, effetto stesso del suo essere mito, coscienza scomoda dell'America. "Una voce magnetica e incandescente", precisa Carrera, "mimetica e metamorfica", che più di Charlie Patton e Robert Johnson, eroi in negativo della cultura "popular" americana sprofondati nella loro personale "stagione all'inferno", è sopravvissuta a se stessa e alla nostalgia di un tempo mitico scomparso per sempre. "Per il music business di oggi", scrive l'autore, "Dylan ha due grandi torti: quello di non essere morto al momento giusto; e quello, visto che è sopravvissuto alla rivoluzione che lui stesso ha innescato, di non prestarsi alle trasmissioni biografiche in cui le rock star con i capelli bianchi vanno a raccontare dei loro divorzi, della loro dipendenza dalla droga e delle successive disintossicazioni."
("Mondo Padano", 19 maggio 2001)